“La vita consacrata emerge come tentativo di risposta evangelica nei
tornanti della storia umana ed ecclesiale”.
Non ha dubbi suor
Grazia Loparco, figlia di Maria Ausiliatrice e vicepresidente del
Coordinamento Storici religiosi, sulla ricchezza che nei secoli la vita
religiosa ha saputo esprimere grazie a una molteplicità di carismi e di
energie profuse nella missione al servizio di Dio. Il volto della carità
della Chiesa è tutta racchiusa nei segni e nei gesti di uomini e donne,
monaci frati e suore, che ne hanno fatto la storia. Storie di forte
spessore pienamente calate nella realtà del loro tempo.
A seconda dei vari
periodi ci sono state modalità differenti di inserimento nella società.
La caratteristica della vita consacrata sembra essere quella di portare
lo sguardo di Dio sul mondo. È un senso critico nei confronti di una
società che sta cambiando da un punto di vista evangelico.
In altre parole, una
persona credente come reagisce di fronte a certi mutamenti sociali? È
evidente alla fine del mondo antico, quando si assiste all’exploit della
vita monastica. Prova lampante della presa di posizione del tutto
originale che la vita consacrata sa esprimere nei diversi momenti di
passaggio. Nuovi modelli da cui affiora il dialogo fecondo tra Dio e la
persona.
Ma non mancano in ogni epoca,
incomprensioni e contrasti a contrassegnare questi progetti…
“E’ il caso, ad
esempio, di Madre Agostina, fondatrice delle Suore di Carità del Buono e
Perpetuo Soccorso, che proveniva dall’isola Mauritius, costretta a
lasciare la sua terra perché in contrasto con il vescovo. Madre Agostina
scelse di risiedere a Roma dove, per salvare la congregazione, si
appellò a Propaganda Fide riuscendo a delimitare entro margini ridotti
l’autorità del vescovo perché era emerso chiaramente che la sua autorità
troppo estesa avrebbe potuto nuocere allo sviluppo dell’istituto.
E lo stesso valeva per
il clero locale. A volte condizionato da preferenze nei confronti di una
o dell’altra congregazione, generando giudizi sbagliati nell’opinione
pubblica. Con conseguente veto nei riguardi di una congregazione
religiosa.
Madre Teresa lasciò
tutto pur di venire in Italia per salvare la sua congregazione.
E non è
l’unico caso. La marchesa Giulia di Barolo di Torino e Rosa Gattorno
fondatrice delle Figlie di S. Anna, soffrirono molto prima di poter
vedere l’approvazione delle costituzioni proprio perché chiedevano
qualcosa che non era ammesso dai canoni. Con il tempo e l’introduzione
del diritto canonico del ’17 le cose cambiarono. Al punto che ne ha
risentito il processo di beatificazione, rallentato dalla tenacia di
queste donne, segno di quella grande intraprendenza che si scontrava con
l’obbedienza intesa in un certo modo.
Nella vita
consacrata è la vocazione a determinare questa intraprendenza. Non sono
femministe ante litteram queste consacrate, che agiscono per desiderio
di liberazione dalla schiavitù maschile. Al contrario, a spingerle è una
motivazione religiosa. Nel nome di una vocazione sono capaci anche di
mettersi contro i condizionamenti sociali. Riescono persino a superare i
vincoli affettivi. È questo un chiaro segnale che sono pienamente
inserite nella società, ma che sono in grado di prendere le distanze dai
condizionamenti tipici del loro tempo. Non per formazione ideologica e
tantomeno per una visione filosofica. Ma per rispondere a una chiamata
che le interpella stimolandone la creatività. Non è un progetto studiato
a tavolino. Parte da un’urgenza interiore”.
Vuol
dire che vocazione e creatività si legano intimamente?
“Sì. Queste donne
scoprono di essere amate da Gesù e di avere dunque una missione da
svolgere nel mondo fanno ricorso alla fantasia della carità. La loro
vita, quindi, come portatrice di una dignità e non solo per se stesse
acquista un valore tutto speciale: quello dell’annuncio. Buttando
all’aria tutti i modelli in cui s’identificano sul piano sociale. È
questa la molla che fa scattare le capacità insite in ciascuna,
superando la mentalità corrente.
La creatività si
esprime proprio nella fecondità che gradualmente è percepita, grazie
alle genealogie femminili che si creano con il passare del tempo.
Volgendo lo sguardo indietro è facile scorgere questo senso di
continuità che è tipico della Chiesa. Ossia, una generazione di
consacrate prende lo spunto dall’esperienza precedente e ne fa la base
di partenza per nuove esperienze.
Non dobbiamo
dimenticare che in passato tutto quello che rappresentava una novità era
visto con sospetto. Un cammino tutto in salita che apriva la strada a
future opportunità: in pratica, riconoscere un’identità rompendo uno
schema ma nel segno di una continuità. In passato, i condizionamenti
istituzionali presenti all’interno della Chiesa impedirono alle donne
l’apostolato, quando vollero essere riconosciute come religiose. Lo
status di religiose dunque non permise di impegnarsi attivamente
nell’apostolato.
I tentativi,
come quello di Mary Word di sviluppare in un ramo femminile il carisma
di Ignazio di Loyola, fallirono miseramente. Sembra di avere sotto gli
occhi l’immagine di un fiume carsico, l’acqua s’infiltra e va giù, di
conseguenza un’esperienza sembra sepolta. Invece, poi, il cambiamento di
alcune condizioni esterne fa sì che l’esperienza accantonata perché
sommersa, riemerga e porti a maturazione frutti impensabili fino a quel
momento. Emerge chiaramente, ad una lettura attenta delle pagine della
storia, lo spazio per molte esperienze in divenire, ma radicata in
questa continuità che è l’amore di Dio che configura la vita di queste
persone.
Questo
amore non le distacca dalla società perché in fondo sono persone che
amano la propria gente. A modo loro, perché portatrici di un messaggio
evangelico che le fa sentire spose, madri e sorelle con modalità diverse
dal consueto”.
Si può intravedere un filo rosso della
storia che ognuna ha saputo scrivere nella pagina del mondo?
“Si, è vero. Lo
possiamo capire quando nell’800 con le congregazioni religiose di vita
attiva prende forma la figura della superiora generale. Gli istituti
acquistano un rilievo sempre maggiore. Un potere accresciuto che per
una donna, ritenuta dalla Chiesa un essere fragile e incostante
emotivamente, significa scontrarsi con la mancanza di esperienza in una
società sempre più borghese ed imprenditoriale. Sviluppando quella
caratteristica dell’intraprendenza femminile sempre più presente nelle
famiglie d’origine.
È interessante notare
che, nel primo ‘800, le fondatrici di congregazioni religiose provengono
da famiglie nobili. Sono più preparate, abituate a trattare con uomini
di diverse estrazioni, ecclesiastici o laici. Donne più sicure di se che
anche socialmente godevano di un certo prestigio. Nella seconda metà
dell’800, invece, le fondatrici spesso appartengono a ceti sociali
umili. Non di rado sono maestre, che per il periodo storico a cui ci
riferiamo equivaleva a dire persone con scarsa preparazione culturale.
Non è infrequente trovare madri superiore che hanno un fondatore, una
figura maschile di rilievo dal punto di vista spirituale. Da questo
punto di vista è possibile comprendere l’evoluzione della società
italiana.
Una studiosa, Marina
Cafiero, l’ha identificato nella “democratizzazione della santità” che
per analogia si può applicare alle fondatrici. La santità viene
riconosciuta come proposta a tutte le classi sociali, ma nel concreto
emergono fondatrici che non provengono dalle classi sociali più alte. La
parrocchia e la vita spirituale diventano un potente meccanismo di
crescita culturale. Mi è capitato di studiare storie di donne che a
trentacinque – quarant’anni, imparano a scrivere per comunicare con le
altre suore in missione”.
Si
possono, in un certo senso, definire rivoluzionarie?
“Sì, però non nel
senso anacronistico del termine. Nel rispetto della loro esperienza,
nessuna si è sentita rivoluzionaria perché, in fondo, nell’800 la
visione della rivoluzione francese era totalmente negativa all’interno
della Chiesa, perché si pensava che avesse portato la scristianizzazione
nella società. E l’intento di restaurare una società cristiana si
opponeva fermamente a quei semi di liberalismo, di secolarizzazione
negativa anticlericale.
Per questo non si
sono mai sentite rivoluzionarie. Semmai donne portatrici di una forte
responsabilità anche nella Chiesa. Donne non emancipazioniste per
scelta, ma capaci di assumersi una responsabilità sociale. Di fatto lo
sono state anche nei confronti dei modelli femminili dell’epoca.
E lo sono state
specialmente nella Chiesa, perché pur essendo emarginate e relegate in
secondo piano hanno trovato il coraggio di disobbedire ai vescovi, di
avanzare proposte appellandosi al Papa. Si sono ribellate all’autorità
maschile in un periodo storico in cui tutto questo non era affatto
facile socialmente. Perché le donne erano abituate ad obbedire all’uomo.
Nel nome della
vocazione religiosa sono state davvero molto coraggiose. Non per se
stesse. Ma hanno agito per il bene della Chiesa e per via di un mandato
di cui si sentivano responsabili. Le religiose, pur avendo in mano meno
strumenti perché prive di un ministero riconosciuto, assumono in pieno
questo compito di maternità nella Chiesa.
Francesca Cabrini,
ad esempio, sente profondamente questa responsabilità nei confronti di
tutto il mondo. Non sono mai donne limitate. Anche se provengono da
un’esperienza umana limitata, la vocazione dilata i loro orizzonti
culturali, mentali e religiosi. Per cui diventano una forza prorompente
soprattutto a livello culturale. Tante religiose, ad esempio, viaggiano
insieme, gestiscono denaro o aprono case. Le laiche del loro tempo se la
sognavano una cosa del genere!
Anche la
trasformazione delle opere è un aspetto che rientra in questo discorso.
È tipico delle congregazioni femminili. In genere partono da case molto
piccole, quasi da zero, per espandersi in un’opera sempre più grande.
Parlerei di flessibilità che denota questa grande voglia di aderire alla
missione, per cui si è disposte a sacrificare certe sicurezze pur di
rispondere a questa esigenza”.
Lei dice che sono
il volto della carità della Chiesa?
“Spesso mi
chiedono quale sia il ruolo delle donne e delle religiose in particolare
nella Chiesa. Il fatto che le donne non abbiano accesso al sacerdozio
ordinato mi sembra possa essere letto come un elemento di libertà. Cioè,
le donne consacrate sanno già in partenza che non faranno carriera nei
ranghi ecclesiastici. Il loro servizio di carità, dunque, è
avvantaggiato dal punto di vista istituzionale. Per questo manifestano
di più, a mio avviso, il volto della gratuità.
L’essere propense
alla cura della persona stimola quel talento naturale che ad altri è
chiesto di predicare. È l’altra faccia della medaglia. Non solo
annuncio, ma esperienza concreta della carità di donne che si sono
chinate sulle povertà, sulle debolezze e sulle infermità di persone
bisognose di aiuto.
Una testimonianza
di carità e una via di annuncio per il solo e unico strumento in mano
alle donne. Il Dio annunciato nelle parrocchie e dai campanili viene poi
concretamente vissuto attraverso i gesti di queste donne che si fanno
strumento di questo amore misericordioso.
Nell’800 la
borghesia e successivamente la classe operaia, che pure si sono
allontanate dalla Chiesa, sanno di poter contare su un punto di
riferimento: le suore. Donne, deboli
teologicamente e senza la forza della polemica, trovano in questo
l’alimento per la loro fede e nutrimento spirituale, diventa creatività
nella carità. Manifestando un volto della Chiesa che si mette accanto
all’uomo, al servizio delle persone più deboli e sofferenti. Questo è, a
mio avviso, uno degli aspetti più originali affidati alle donne. Anche
le religiose sono chiamate, infatti, ad essere madri non fisicamente, ma
nell’apostolato. Espressione viva di una consacrazione ben lontana
dall’essere Chiesa che si chiude in se stessa”.
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