Rita Salerno (a cura)

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“La vita consacrata emerge come tentativo di risposta evangelica nei tornanti della storia umana ed ecclesiale”.

Non ha dubbi suor Grazia Loparco, figlia di Maria Ausiliatrice e vicepresidente del Coordinamento Storici religiosi, sulla ricchezza che nei secoli la vita religiosa ha saputo esprimere grazie a una molteplicità di carismi e di energie profuse nella missione al servizio di Dio. Il volto della carità della Chiesa è tutta racchiusa nei segni e nei gesti di uomini e donne, monaci frati e suore, che ne hanno fatto la storia. Storie di forte spessore pienamente calate nella realtà del loro tempo.

A seconda dei vari periodi ci sono state modalità differenti di inserimento nella società. La caratteristica della vita consacrata sembra essere quella di portare lo sguardo di Dio sul mondo. È un senso critico nei confronti di una società che sta cambiando da un punto di vista evangelico.

In altre parole, una persona credente come reagisce di fronte a certi mutamenti sociali? È evidente alla fine del mondo antico, quando si assiste all’exploit della vita monastica. Prova lampante della presa di posizione del tutto originale che la vita consacrata sa esprimere nei diversi momenti di passaggio. Nuovi modelli da cui affiora il dialogo fecondo tra Dio e la persona.

 

Ma non mancano in ogni epoca, incomprensioni e contrasti a contrassegnare questi progetti…

“E’ il caso, ad esempio, di Madre Agostina, fondatrice delle Suore di Carità del Buono e Perpetuo Soccorso, che proveniva dall’isola Mauritius, costretta a lasciare la sua terra perché in contrasto con il vescovo. Madre Agostina scelse di risiedere a Roma dove, per salvare la congregazione, si appellò a Propaganda Fide riuscendo a delimitare entro margini ridotti l’autorità del vescovo perché era emerso chiaramente che la sua autorità troppo estesa avrebbe potuto nuocere allo sviluppo dell’istituto.

E lo stesso valeva per il clero locale. A volte condizionato da preferenze nei confronti di una o dell’altra congregazione, generando giudizi sbagliati nell’opinione pubblica. Con conseguente veto nei riguardi di una congregazione religiosa.

Madre Teresa lasciò tutto pur di venire in Italia per salvare la sua congregazione.

E non è l’unico caso. La marchesa Giulia di Barolo di Torino e Rosa Gattorno fondatrice delle Figlie di S. Anna, soffrirono molto prima di poter vedere l’approvazione delle costituzioni proprio perché chiedevano qualcosa che non era ammesso dai canoni. Con il tempo e l’introduzione del diritto canonico del ’17 le cose cambiarono. Al punto che ne ha risentito il processo di beatificazione, rallentato dalla tenacia di queste donne, segno di quella grande intraprendenza che si scontrava con l’obbedienza intesa in un certo modo.

Nella vita consacrata è la vocazione a determinare questa intraprendenza. Non sono femministe ante litteram queste consacrate, che agiscono per desiderio di liberazione dalla schiavitù maschile. Al contrario, a spingerle è una motivazione religiosa. Nel nome di una vocazione sono capaci anche di mettersi contro i condizionamenti sociali. Riescono persino a superare i vincoli affettivi. È questo un chiaro segnale che sono pienamente inserite nella società, ma che sono in grado di prendere le distanze dai condizionamenti tipici del loro tempo. Non per formazione ideologica e tantomeno per una visione filosofica. Ma per rispondere a una chiamata che le interpella stimolandone la creatività. Non è un progetto studiato a tavolino. Parte da un’urgenza interiore”.

 

Vuol dire che vocazione e creatività si legano intimamente?

“Sì. Queste donne scoprono di essere amate da Gesù e di avere dunque una missione da svolgere nel mondo fanno ricorso alla fantasia della carità. La loro vita, quindi, come portatrice di una dignità e non solo per se stesse acquista un valore tutto speciale: quello dell’annuncio. Buttando all’aria tutti i modelli in cui s’identificano sul piano sociale. È questa la molla che fa scattare le capacità insite in ciascuna, superando la mentalità corrente.

La creatività si esprime proprio nella fecondità  che gradualmente è percepita, grazie alle genealogie femminili che si creano con il passare del tempo. Volgendo lo sguardo indietro è facile scorgere questo senso di continuità che è tipico della Chiesa. Ossia, una generazione di consacrate prende lo spunto dall’esperienza precedente e ne fa la base di partenza per nuove esperienze.

Non dobbiamo dimenticare che in passato tutto quello che rappresentava una novità era visto con sospetto. Un cammino tutto in salita che apriva la strada a future opportunità: in pratica, riconoscere un’identità rompendo uno schema ma nel segno di una continuità. In passato, i condizionamenti istituzionali presenti all’interno della Chiesa impedirono alle donne l’apostolato, quando vollero essere riconosciute come religiose. Lo status di religiose dunque non permise di impegnarsi attivamente nell’apostolato.

I tentativi, come quello di Mary Word di sviluppare in un ramo femminile il carisma di Ignazio di Loyola, fallirono miseramente. Sembra di avere sotto gli occhi l’immagine di un fiume carsico, l’acqua s’infiltra e va giù, di conseguenza un’esperienza sembra sepolta. Invece, poi, il cambiamento di alcune condizioni esterne fa sì che l’esperienza accantonata perché sommersa, riemerga e porti a maturazione frutti impensabili fino a quel momento. Emerge chiaramente, ad una lettura attenta delle pagine della storia, lo spazio per molte esperienze in divenire, ma radicata in questa continuità che è l’amore di Dio che configura la vita di queste persone.

Questo amore non le distacca dalla società perché in fondo sono persone che amano la propria gente. A modo loro, perché portatrici di un messaggio evangelico che le fa sentire spose, madri e sorelle con modalità diverse dal consueto”.

 

Si può intravedere un filo rosso della storia che ognuna ha saputo scrivere nella pagina del mondo?    

“Si, è vero. Lo possiamo capire quando nell’800 con le congregazioni religiose di vita attiva prende forma la figura della superiora generale. Gli istituti acquistano un rilievo sempre maggiore. Un potere accresciuto che per  una donna, ritenuta dalla Chiesa un essere fragile e incostante emotivamente, significa scontrarsi con la mancanza di esperienza in una società sempre più borghese ed imprenditoriale. Sviluppando quella caratteristica dell’intraprendenza femminile sempre più presente nelle famiglie d’origine.

È interessante notare che, nel primo ‘800, le fondatrici di congregazioni religiose provengono da famiglie nobili. Sono più preparate, abituate a trattare con uomini di diverse estrazioni, ecclesiastici o laici. Donne più sicure di se che anche socialmente godevano di un certo prestigio. Nella seconda metà dell’800, invece, le fondatrici spesso appartengono a ceti sociali umili. Non di rado sono maestre, che per il periodo storico a cui ci riferiamo equivaleva a dire persone con scarsa preparazione culturale. Non è infrequente trovare madri superiore che hanno un fondatore, una figura maschile di rilievo dal punto di vista spirituale. Da questo punto di vista è possibile comprendere l’evoluzione della società italiana.

Una studiosa, Marina Cafiero, l’ha identificato nella “democratizzazione della santità” che per analogia si può applicare alle fondatrici. La santità viene riconosciuta come proposta a tutte le classi sociali, ma nel concreto emergono fondatrici che non provengono dalle classi sociali più alte. La parrocchia e la vita spirituale diventano un potente meccanismo di crescita culturale. Mi è capitato di studiare storie di donne che a trentacinque – quarant’anni, imparano a scrivere per comunicare con le altre suore in missione”.

 

Si possono, in un certo senso, definire rivoluzionarie?

“Sì, però non nel senso anacronistico del termine. Nel rispetto della loro esperienza, nessuna si è sentita rivoluzionaria perché, in fondo, nell’800 la visione della rivoluzione francese era totalmente negativa all’interno della Chiesa, perché si pensava che avesse portato la scristianizzazione nella società. E l’intento di restaurare una società cristiana si opponeva fermamente a quei semi di liberalismo, di secolarizzazione negativa anticlericale.

Per questo non si sono mai sentite rivoluzionarie. Semmai donne portatrici di una forte responsabilità anche nella Chiesa. Donne non emancipazioniste per scelta, ma capaci di assumersi una responsabilità sociale. Di fatto lo sono state anche nei confronti dei modelli femminili dell’epoca.

E lo sono state specialmente nella Chiesa, perché pur essendo emarginate e relegate in secondo piano hanno trovato il coraggio di disobbedire ai vescovi, di avanzare proposte appellandosi al Papa. Si sono ribellate all’autorità maschile in un periodo storico in cui tutto questo non era affatto facile socialmente. Perché le donne erano abituate ad obbedire all’uomo.

Nel nome della vocazione religiosa sono state davvero molto coraggiose. Non per se stesse. Ma hanno agito per il bene della Chiesa e per via di un mandato di cui si sentivano responsabili. Le religiose, pur avendo in mano meno strumenti perché prive di un ministero riconosciuto, assumono in pieno questo compito di maternità nella Chiesa.

Francesca Cabrini, ad esempio, sente profondamente questa responsabilità nei confronti di tutto il mondo. Non sono mai donne limitate. Anche se provengono da un’esperienza umana limitata, la vocazione dilata i loro orizzonti culturali, mentali e religiosi. Per cui diventano una forza prorompente soprattutto a livello culturale. Tante religiose, ad esempio, viaggiano insieme, gestiscono denaro o aprono case. Le laiche del loro tempo se la sognavano una cosa del genere!

Anche la trasformazione delle opere è un aspetto che rientra in questo discorso. È tipico delle congregazioni femminili. In genere partono da case molto piccole, quasi da zero, per espandersi in un’opera sempre più grande. Parlerei di flessibilità che denota questa grande voglia di aderire alla missione, per cui si è disposte a sacrificare certe sicurezze pur di rispondere a questa esigenza”.

 

Lei dice che sono il volto della carità della Chiesa?

“Spesso mi chiedono quale sia il ruolo delle donne e delle religiose in particolare nella Chiesa. Il fatto che le donne non abbiano accesso al sacerdozio ordinato mi sembra possa essere letto come un elemento di libertà. Cioè, le donne consacrate sanno già in partenza che non faranno carriera nei ranghi ecclesiastici. Il loro servizio di carità, dunque, è avvantaggiato dal punto di vista istituzionale. Per questo manifestano di più, a mio avviso, il volto della gratuità.

L’essere propense alla cura della persona stimola quel talento naturale che ad altri è chiesto di predicare. È l’altra faccia della medaglia. Non solo annuncio, ma esperienza concreta della carità di donne che si sono chinate sulle povertà, sulle debolezze e sulle infermità di persone bisognose di aiuto.

Una testimonianza di carità e una via di annuncio per il solo e unico strumento in mano alle donne. Il Dio annunciato nelle parrocchie e dai campanili viene poi concretamente vissuto attraverso i gesti di queste donne che si fanno strumento di questo amore misericordioso.

Nell’800 la borghesia e successivamente la classe operaia, che pure si sono allontanate dalla Chiesa, sanno di poter contare su un punto di riferimento: le suore. Donne, deboli teologicamente e senza la forza della polemica, trovano in questo l’alimento per la loro fede e nutrimento spirituale, diventa creatività nella carità. Manifestando un volto della Chiesa che si mette accanto all’uomo, al servizio delle persone più deboli e sofferenti. Questo è, a mio avviso, uno degli aspetti più originali affidati alle donne. Anche le religiose sono chiamate, infatti, ad essere madri non fisicamente, ma nell’apostolato. Espressione viva di una consacrazione ben lontana dall’essere Chiesa che si chiude in se stessa”.

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