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In
un mondo ferito da violenze di ogni genere e lacerato da guerre, la
Tunisia è una piccola oasi dove si respira pace e voglia di confrontarsi
amichevolmente e in spirito di collaborazione. Nel paese maghrebino, la
Chiesa cattolica è una minoranza, solo ventidue mila fedeli su dieci
milioni di abitanti, ma viva e dinamica guidata dal vescovo di origine
araba, Fouad Twal, nominato nel ‘992, primo vescovo non europeo a
guidare l’unica diocesi
tunisina.
La Chiesa cattolica gestisce dieci scuole frequentate da almeno
seimila allievi musulmani, l’unica struttura sanitaria di impronta
cristiana di tutta l’Africa del nord dedicata a S. Agostino e sette
centri di cultura e numerose biblioteche sparse su tutto il territorio
tunisino. Pietre vive che documentano una presenza antica di questa
terra, oggi tutta concentrata sul turismo e le produzioni di vino e di
olio.
È piccola, la
comunità cattolica locale, in tutto e per tutto simile a un tappeto dai
colori accesi e luminosi che è possibile ammirare nell’atrio dei
lussuosi alberghi in stile occidentale presenti a Tunisi, costituita
com’è di stranieri di quarantaquattro nazionalità, di cui 3.500 italiani
e molti francesi. Soltanto pochissimi provengono dall’islàm.
“Una sola
famiglia che prega insieme con me tiene a sottolineare Twal che si è
formato come diplomatico della Santa Sede all’Accademia ecclesiastica
nella cattedrale la domenica mattina. Abbiamo una missione in questo
paese. Non viviamo di nostalgia del passato. Una realtà, come tante, con
tutte le gioie e i dolori. Anzi, con una forza in più. Siamo coscienti
di essere parte della Chiesa universale. E questo ci aiuta, giorno dopo
giorno. La nostra croce, se così si può dire, fa parte della storia
della Chiesa nel suo cammino attraverso il mondo.
Quanto al
dialogo con il mondo musulmano, occorre precisare che non è monolitico.
Non possiamo parlare dell’islàm in senso generale, dobbiamo specificare
caso per caso, anzi da quartiere a quartiere.
Dipende dalla cultura, dalla conoscenza. Qui preferiamo il dialogo di
ogni giorno. Quello che nasce dall’amicizia reciproca concreta. Quando
riusciamo a guadagnare la fiducia dell’altro che ci sta di fronte,
possiamo sviluppare un rapporto sincero, in cui possiamo far capire chi
siamo e cosa facciamo.
Togliendo i pregiudizi che accompagnano la politica occidentale
americana.
Siamo discepoli di Cristo, testimoni di amore”.
Siete presenti in diverse
realtà?
“Come Chiesa operiamo principalmente in tre settori: nell’educazione,
attraverso dieci scuole cattoliche che fanno capo al vescovo e in cui
tutti gli alunni sono musulmani. Attraverso i bambini siamo in contatto
con le loro famiglie e le autorità locali del ministero dell'istruzione.
Poi siamo presenti nell'attività sanitaria ed in particolare abbiamo un
ospedale, cui tengo molto, l'unica clinica privata cattolica in tutta
l'area del nord. È stata fondata nel ‘933. Con l’indipendenza proclamata
nel 1956 e in seguito con l'accordo stipulato con il governo nel 1964,
la Chiesa ha dovuto cedere allo stato ben il 64% dei beni. Però il
governo ha lasciato in cambio la clinica, proprio per il suo prezioso
servizio prestato a tutti, poveri e non. Arrivano persino dall'Iraq alla
clinica, perché è nota per la qualità e le strutture all'avanguardia di
cui è dotata. E il terzo settore in cui lavoriamo è legato a progetti di
assistenza ai bambini bisognosi di cure e
di affetto”.
A proposito di dialogo
con l’islàm, potete esporre i simboli religiosi?
“C’è una croce invisibile ed una visibile. Non c’è problema. Quando è il
caso, si usa quella invisibile. Quando mi reco dal generale Ben Alì,
capo del governo, mi presento sempre con la talare e la croce sul petto.
È vero che dopo l’indipendenza e la partenza di centinaia di migliaia di
cattolici, la piccola comunità cristiana locale ha optato per un
comportamento più discreto. Siamo però conosciuti per il nostro impegno
a favore dell’uomo, siamo discreti, poco appariscenti. Ma non per questo
meno apprezzati. Stiamo bene, se paragonati a nostri vicini. Mi piace
dire che siamo viziati dal Signore”.
Il Papa è giunto per
una breve visita, appena un giorno, nel 1996. Cosa ricorda di quel
giorno, il 14 aprile?
“Il Papa stesso! Io ho lavorato con il Santo Padre, prima di venire qui.
Ero nel servizio diplomatico presso la Santa Sede. È venuto per
confermarci in quello che facciamo. Ci ha invitato al dialogo, al
servizio verso l’uomo, all'apertura nei confronti di tutti. Siamo felici
di ricordare che la nostra comunità cristiana è immagine della grande
Chiesa universale. Nella nostra diocesi convivono quarantaquattro
nazionalità diverse. Ci sentiamo tutti stranieri, quando siamo fuori. Ma
in cattedrale c’è una sola famiglia che prega, che soccorre, che ama.
Fuori, certo, siamo tutti stranieri. Quando si chiede la carta di
soggiorno o quando siamo al lavoro. Dentro, però, c’è una sola fede e un
solo amore. Siamo coscienti di essere parte della Chiesa universale e
sono grato alla Chiesa sorella d’Italia che ci ha molto aiutato nei
progetti”.
L’ultimo di questi, in
ordine di tempo, è quello della Caritas che si sta svolgendo adesso a
Tunisi?
“Fa parte del
servizio civile. Ho visto l’anno scorso i due ministri,
Sirchia e Giovanardi, proprio per questo. In questo momento lavorano a
questo progetto sei ragazze e altrettante le raggiungeranno a breve per
aiutarle sul fronte sociale, come guide turistiche e religiose. Sarà un
contributo umano in più dispensato in questo territorio”.
L’eredità di S. Agostino è tutt’altro che
trascurabile in questo contesto?
“Certamente. Ed è un’eredità che ci interpella a meditare sulla
situazione.
Se pensiamo che, al tempo del Vescovo di Ippona, i vescovi erano più di
trecento e oggi siamo ridotti ad undici, uno più povero dell’altro.
Viviamo questa condizione di vulnerabilità con fede.
Siamo coscienti dei nostri limiti.
Dobbiamo fare
tesoro della lezione di S. Agostino: troppe divisioni
non giovano, troppe separazioni portano direttamente alla rovina. La
prima causa della sparizione del cristianesimo, a quel tempo, è stata
determinata proprio da questo. Meno attenti ai problemi della povera
gente, tutti presi dalle discussioni bizantine interminabili, non hanno
saputo capire a cosa andavano incontro. È una gioia pensare al nostro
passato glorioso, anche se sappiamo bene che non viviamo del nostro
passato, ma dell’oggi”.
Di islàm e di cristianesimo per una cultura
della pace si è parlato recentemente a Tunisi in occasione di un
convegno. Secondo Lei, la strada che porta a questo obiettivo tanto
desiderato e non ancora raggiunto è quella del dialogo?
“Si parla troppo di scontro tra culture e per questo l’università
locale, con il sostegno del presidente della Tunisia, ha voluto
organizzare questo congresso invitando esperti musulmani e due
professori della Gregoriana di Roma. Ognuno ha affrontato il problema
dalla sua personale angolazione.
Credo che siano iniziative da incoraggiare ed incrementare sempre. Però,
occorre anche scendere dalla cattedra per tornare alla vita di ogni
giorno e al contatto quotidiano con l’altro. E non è così facile da
mettere in pratica. Facciamo quello che possiamo. Con l’aiuto di tanti
amici e con la preghiera di tanti che ci sono vicino. Non ci sentiamo
soli nella nostra missione”.
Giovanni Paolo II non si stanca di ripetere
in ogni occasione quello che è uno dei suoi leitmotiv: mai più guerre in
nome di Dio. A distanza di otto anni dalla visita del 1996, quanto delle
parole del Papa è stato compreso e assimilato dall’intera comunità
tunisina?
“Quando è arrivato il Santo Padre erano ancora prigionieri i sette
monaci trappisti di Thibirine in Algeria. Abbiamo temuto che accadesse
qualcosa proprio durante la sua visita. Il martirio e la morte è
arrivata dopo la partenza del Papa. Eravamo tutti nervosi per la
situazione delicata che si era creata. Non possiamo dire, come se
avessimo un termometro, quanto sia stato assimilato delle parole del
Pontefice. È un lungo lavoro, che nasce dal di dentro. È un lavoro di
cuore, di cultura, di mentalità. Di grazia, e per questo richiede tempo.
Posso dire che, ultimamente, quando Giovanni Paolo II ha condannato la
violenza in Medio Oriente e la guerra in Iraq, i musulmani hanno
ascoltato e apprezzato la voce del Papa a favore della pace.
Noi minoranze, arabe e cristiane, potevamo essere vittime di pregiudizio
e di un malinteso. La sua voce è stata accolta con favore. Ma quali
effetti ha prodotto, è troppo presto per dirlo”.
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