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Padre Antonello Erminio, apprezzato collaboratore di Consacrazione e
Servizio, è Provinciale dei Missionari di san Vincenzo per la Provincia
di Torino. Attualmente, sta curando l'edizione italiana dell'Opera Omnia
degli scritti di san Vincenzo de’ Paoli, il santo della carità. A Natale
è prevista l’uscita del quarto volume. Al suo attivo ha una biografia su
Suor Giuseppina Nicoli, una figlia della Carità vissuta in Sardegna a
cavallo trai due secoli, cui ha dedicato “Una mistica della carità”
edita da CLV-Roma, 1999. Studioso dell'epoca del modernismo in chiave
teologica con una tesi sul pensiero di Guillaume Pouget, maestro di Jean
Guitton, Jacques Chevalier, Emmanuel Mounier e altri intellettuali della
Francia dell'inizio del secolo XX: “Guillaume Pouget, testimone del
rinnovamento teologico all'inizio del secolo XX”, edizioni Glossa,
1995.
A lui abbiamo
rivolto alcune domande su Eucaristia e vita consacrata.
“L’Eucaristia: Luce e Vita del nuovo millennio”. E’ il tema del
Congresso eucaristico che si tiene a Guadalajara con il quale ha inizio
l’anno dedicato all’Eucaristia. Come può la vita consacrata, oggi,
vivere con maggior impegno l’Eucaristia celebrata e adorata ed essere,
nel nuovo millennio - in un mondo multietnico e multireligioso,
sconvolto da atrocità - testimone di dialogo e di pace?
Nella mia vita ho
imparato che prima di riflettere su qualcosa, bisogna porsi la domanda
di realtà su di essa. Certamente dire “L’Eucaristia: luce e vita del
nuovo millennio” è una verità sacrosanta. Ma essa implica una
quotidianità, propria della realtà, senza della quale le parole si
svuotano. Mi sembra perciò che sia essenziale partire dal semplice
interrogativo da fare a se stessi: “L’Eucaristia è o non è Gesù
Cristo?”. Senza una risposta netta a questa domanda, si rischia di
scadere nell’afasia caratteristica della retorica religiosa, per la
quale quando “si dice” non si rimanda a nulla.
La vita consacrata
vive dell’esperienza di Cristo presente nella propria storia: e
l’Eucaristia è il luogo in cui ritrovarlo e risentirlo, ogni giorno,
secondo la sua promessa “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine
del mondo”. Lo ha richiamato il Papa il 17 ottobre: “Nel pane e nel vino
divenuti corpo e sangue di Cristo, è proprio Lui, il Signore Risorto,
che apre la mente ed il cuore, e si fa riconoscere come dai due
discepoli ad Emmaus”.
L’Eucaristia è
dunque la realtà di una Presenza. Quello che può cambiare il mondo è la
sua Presenza. Ed io, consacrato, sono il suo riflesso nella storia. A
mio parere, l’unico modo con cui il consacrato può assumere l’Eucaristia
come fattore di cambiamento di sé e del mondo è quello di rivivere
continuamente un rapporto da persona a persona con Lui. Il rapporto
da Presenza a presenza cambia la coscienza di sé: la toglie dalla
solitudine e dal bisogno di prevalere, perché il bisogno radicale di
relazione è colmato dall’esperienza di una comunione con Cristo.
La prima
conseguenza di questo approccio è il mondo rappacificato in sé. E’
sempre da qui che si deve partire per la liberazione del mondo: dalla
persona. Altrimenti a prevalere è l’ideologia: e l’ideologia è sempre
radice di divisione. Il mondo infatti sta annegando in una violenza che
si può definire primitiva, oppure nella sua forma più soft
occidentalizzata, nell’indifferenza. In questo contesto, una persona o
una comunità di consacrati, che fa l’esperienza della Presenza di
Cristo, vive con un cuore allargato il difficile quotidiano e ne espande
la serenità e il gusto di vivere la vita. Questa fede testimoniata nella
semplicità di un volto sereno è l’apporto tipico della profezia
religiosa.
Da
sempre si insiste sul dover essere, come Gesù, pane spezzato e
condiviso, sangue versato per la vita del mondo. Concretamente: in quale
modo, con quali criteri?
Riprendo l’idea
già detta con una espressione di Giovanni Paolo I nel suo brevissimo
pontificato. Egli disse: “Il dramma della Chiesa che ama definirsi
moderna è il tentativo di correggere lo stupore dell’evento di Cristo
con delle regole”. Anche l’Eucaristia non sfugge a questa tendenza. Che
Cristo sia presente nell’Eucaristia e sia incontrabile nel corpo che
l’Eucaristia genera, e cioè la Chiesa, è uno stupore.
L’Eucaristia è una fonte di vita, non un esempio di vita. L’Eucaristia
mi mette realmente nel rapporto con Cristo, realizza da parte sua il
“restate con me, perché senza di me non potere fare nulla” (Gv 15, 5 ).
L’insistenza sul dover essere, sposta l’asse della spiritualità
dall’evento all’impegno: e l’inversione di questa delicata gerarchia
dissolve l’originalità del cristianesimo e della grazia, introducendo
una variante antica, quella pelagiana, per intenderci. Come se noi
potessimo dare il nostro corpo per essere bruciato a partire da una
nostra generosità sia pure eroica, e questo potesse salvare il mondo.
E’ la bellezza della carità che salva il mondo; così come non è
stata propriamente la croce, ma l’amore di Gesù espresso fino alla
croce, a redimere il mondo.
Dunque, prima sta
l’evento della Presenza, con il quale nell’Eucaristia sono chiamato a
cibarmi, ossia a entrare in relazione affettuosa con Lui. Gesù si dà
nell’Eucaristia come sacrificio di sé per amore. Se io entro in rapporto
con Lui e lo amo, allora è una gioia darsi per gli altri: perché in quel
darsi si duplica e moltiplica l’amore ricevuto nell’amore per i
fratelli. Solo da qui sgorga l’impegno ascetico, il dover essere: da qui
prende senso la mortificazione, la rinuncia, il sacrificio, perché in
questi atti porto la mia umanità a personificarsi con Gesù. Non è per un
dover essere che tenterò di dare la mia vita per gli altri. E’ per amore
di Lui, presente a me, quotidianamente incontrato nell’Eucaristia, che
nasce la spontaneità di offrirmi come pane spezzato per i
fratelli più poveri o sangue versato nella fatica più dura a cui
una persona consacrata può essere chiamata. Non ci si sacrifica che per
chi si ama.
Amare i fratelli
in Cristo, significa amarli nella prospettiva di un amore che ci ha
preventivamente sedotto: ed è “altro” dall’altruismo volontarista. Il
quale, per quanto questo sia buono, soffre sempre del limite di chi lo
pone; ma soprattutto tende ad infiacchirsi ed a spegnersi.
La
V.C. deve essere segno del “Futuro”. Qui ha ragion d’essere la sua
“profezia”. Eucaristia ed Escatologia: quale relazione? Si pone qui il
discorso sulla speranza?
La vita consacrata
è segno del futuro perché anticipa il rapporto di amicizia con Cristo
nel presente. A noi consacrati è toccato in sorte la consapevolezza di
un’intimità con il Signore: ma questo è già il paradiso! Nella vita
consacrata, dunque, c’è già il futuro. E nella nostra esistenza di
consacrati, per quanto povera e debole possa essere, ma resa luminosa
dalla relazione d’intimità con Cristo, lasciamo trasparire il mondo
futuro. Ed è precisamente la nostra umanità che l’Eucaristia tende a
trasformare. La trasforma nel senso che rende presente l’amore come
definitività, perché l’Eucaristia è il sacramento dell’amore di Cristo
che si sacrifica per l’uomo: amore, di cui non può essercene uno
maggiore. Di fatto, l’Eucaristia ci mostra che la dinamica dell’amore è
l’infinito e l’eterno. Ed è quest’Amore che guarisce il nostro piccolo
amore che continuamente cozza con il proprio limite e peccato. Lo
sguardo di verità ci porta a scoprire dolorosamente questo limite. Se il
futuro è l’amore dei rapporti del Paradiso, purtroppo resta ancora
dolorosamente lontano. La vita consacrata tende ad accorciare questa
distanza. Tende ad anticiparlo nella propria umanità. Un poco alla volta
trasformato eucaristicamente, cioè capace di amare con la tenerezza
infinita di chi si sente gratuitamente amato, il consacrato reinventa la
vita. Per sé e per tutti. Perché la speranza è proprio scommettere là
dove nulla lascia prevedere un cambiamento. Insomma, se Cristo risorto è
realmente presente, allora il mondo porta in sé il germe della speranza.
Ed il consacrato lo vive lasciandolo trasparire nella sua umanità
positiva, semplice, umile, autentica. Sempre incoativamente, perché lo
splendore del futuro è nascosto, ma contenuto, nella contraddizione di
una croce. E’ la via che Cristo ha scelto per sé e per noi: quella di
mostrare che nel silenzio del sabato santo l’amore crocifisso germoglia
a vita nuova.
“L’Eucarista,
segno di fraternità e di comunione”, è scritto nell’Instrumentum laboris
del Congresso mondiale della vita consacrata. Non potrebbe essere uno
stereotipo che non incide più nella vita concreta?
Sugli stereotipi
ho già detto. Per cui, prendendo seriamente il tema della fraternità
scaturente dall’Eucaristia, dico che sì, l’Eucaristia è segno di
fraternità e di comunione, ma nel senso forte di segno causativo.
Cioè realmente l’eucaristia costruisce la comunione; è fonte della
fraternità. Sì, proprio genera la fraternità! Vivere l’Eucaristia pone
il consacrato nella condizione per cui la violazione della carità mette
in stato di intima contraddizione tutta la sua vita, vanificandola
dall’interno.
Dal mio punto di
vista, non è possibile celebrare l’Eucaristia e vivere un’insensibilità
nella vita di fraternità: se questo avviene è perché si cancella la
coscienza dell’incontro eucaristico. E’ possibile, e non mi scandalizzo.
Però, questo tipo di dinamica non può essere soppressa dall’incoerenza.
L’ho capito per esperienza personale tanti anni fa, quando ragazzetto
non riuscivo a debellare un’antipatia verso un mio compagno. Il mio
padre spirituale mi disse: osserva se anche lui, domani, fa la comunione
come te. Io osservai e quando il padre spirituale mi incontrò volle
sapere l’esito della mia osservazione. Sì, padre: anche lui ha fatto la
comunione. Allora il padre guardandomi negli occhi mi disse: “E allora,
come fai a odiare quel Gesù che dimora in te e in lui?”. La coscienza
viva di un rapporto di fede con Cristo eucaristico genera una
fraternità, che supera tutte le forze che ci dividono interiormente. Ma
bisogna ridestarsi continuamente alla fede.
Eucaristia ed evangelizzazione. Dalla Eucaristia alla missione. Può
chiarire alcuni concetti?
Se l’Eucaristia è
Gesù Cristo presente nella storia, allora è per se stessa
evangelizzatrice. Perché l’evangelizzazione è il lasciare trasparire la
presenza di salvezza di Cristo agli occhi del mondo o, se vogliamo,
permettere alle persone che incontrano i credenti - e fra questi i primi
sono i consacrati - di essere portati nel cuore di un’esperienza di
rapporto con Cristo attraverso i rapporti fraterni di una comunità.
E’ un concetto
ribadito con parole semplici ai giovani dal card. Re, a Guadalajara, in
occasione della conclusione del 48° Congresso eucaristico
internazionale: “Non dovete solo essere amici di Gesù, ma amici che
devono trovare e portare a Lui altri amici”. Da una parte, la dimensione
missionaria salvaguarda la riduzione dell’Eucaristia ad un intimismo
pietista. Entrare nella logica dell’Eucaristia è entrare nella dinamica
dell’amore, che per sua natura è espansivo. Quindi porta la persona, che
incontra il Signore in un’esperienza di fede, a non trattenere per sé il
bene esperimentato: e dunque a comunicarlo.
E, per inverso,
l’Eucaristia salvaguarda la missione dall’idea che evangelizzare
consista nello spiegare una dottrina. E’ necessario superare il filtro
culturale del razionalismo illuminista, che ci contagia poco o tanto
tutti, e cioè il pensare che basti insegnare idee giuste per far
diventare buone le persone. Il cristianesimo si propaga in forza di
un’esperienza spirituale e di carità. In questo l’Eucaristia protegge
dall’illusione di equiparare una convinzione spirituale ad una
convinzione ideologica.
Anche se lunga,
voglio citare un’espressione del card. Ratzinger, che illumina questo
pensiero: “La conversione del mondo antico al cristianesimo non fu il
risultato di un’attività pianificata, ma il frutto della prova della
fede nel modo come si rendeva visibile nella vita dei cristiani e della
comunità cristiana. L’invito reale da esperienza ad esperienza e
nient’altro fu, umanamente parlando, la forza missionaria dell’antica
Chiesa. La comunità di vita della Chiesa invitava alla partecipazione a
questa vita, in cui si svelava la verità da cui proveniva questa vita.
La nuova evangelizzazione non la realizziamo con teorie astutamente
escogitate: l’insuccesso catastrofico della catechesi moderna è fin
troppo evidente. Soltanto l’intreccio tra una verità in sé conseguente e
la garanzia nella vita di questa verità può far brillare quell’evidenza
della fede attesa dal cuore umano. Solo attraverso questa porta, lo
Spirito Santro entra nel mondo” (J. Ratzinger, Guardare Cristo,
Jaca Book 1989, p. 31).
Eucaristia e Maria. Gesù è presente nell’Eucaristia perché nato da Maria.
Il grembo di Maria fu il primo tabernacolo. Che significa questo per noi
oggi?
Non vorrei che
nelle parole della domanda riecheggiasse una qualche forma
devozionalistica nel considerare la figura di Maria, anche se la
devozione è una cosa importante. Maria è al centro del cammino di fede
di un credente. Lei è colei “nel cui ventre si riaccese l’amore”
(Dante), e continua a generare Gesù nella coscienza credente. Continua a
mettere davanti ai nostri occhi e dentro i nostri cuori la relazione a
Cristo come relazione fondante della nostra vita consacrata.
Il riferimento a
lei è una mediazione di tenerezza, tipicamente femminile, per sciogliere
i lineamenti troppo volontaristici della nostra cultura, e aiutarci a
capire che la vita non è solo quello che si pensa, che si fa o che si
ottiene. La vita si svolge nella tenerezza di uno sguardo di verità su
se stessi e sul mondo. Maria guarda il figlio che le è dato, lo insegue
nel mistero della sua libertà per tutta l’esistenza, rimanendo fedele in
quello sguardo anche quando tutto diventerà oscuro. Così Maria continua
ad additarci il metodo per assimilarci al Figlio: guardarlo, osservarlo,
seguirlo, intrattenerci con lui. In altre parole, ci introduce a quell’esperienza
cristiana, di cui parlavo sopra, che impedisce di trattare Cristo in
termini razionalistici o volontaristici. Ci fa vedere Cristo, che si
offre nell’Eucaristia, attraverso l’esperienza dello Spirito Santo. Come
madre ci accompagna delicatamente all’esperienza di Cristo: sostiene,
impedisce lo scoraggiamento, rincuora. In questo senso è grembo materno
che riscalda la nostra sensibilità spirituale, sottraendola all’aridità
delle forme razionalistiche della fede. In altre parole, la sua
compagnia di donna credente impedisce di stare di fronte all’Eucaristia,
ovvero a Cristo, con l’insensibilità di chi vuol tutto mettere sotto
controllo, misurare, contornare. Essa semplifica la vita: ci introduce
semplicemente a sentirci figli, perché ci apre la porta della sua casa,
e quindi arricchisce il nostro rapporto con Cristo della dimensione
della familiarità. Attraverso la mediazione di Maria si fa l’esperienza
di essere familiari di Gesù.
D’altra parte,
secondo il Vangelo di Giovanni che universalizza i suoi personaggi, è
precisamente questa la peculiarità di Maria: essere non solo la madre di
Gesù, ma anche la madre dei credenti. Senza la familiarità offerta alla
nostra vita consacrata da Maria, diciamo apertamente la sua accoglienza
al femminile, l’amicizia con Gesù resterebbe priva di una sensibilità,
che egli proprio là sulla croce, ha voluto che la fede dei credenti
avesse, quando disse a Giovanni: “Ecco tua madre”; e a lei: “Ecco tuo
figlio”.
Nel rapporto con
Gesù, la presenza di Maria ci fa sentire a casa. E questa è una funzione
importantissima perché trasforma, a nostra volta, la nostra
consacrazione in una dimora accogliente per i fratelli.
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