A fine novembre a Roma si aprirà il congresso internazionale sulla vita
consacrata: “Passione per Cristo. Passione per l’umanità”. Vogliamo
riflettere insieme su alcuni contenuti dello strumento di lavoro, un
documento significativo già in sé stesso. Gli organizzatori, unione dei
superiori e delle superiori generali, parlano di questo mega-congresso
(più di 800 partecipanti) come di una “pietra miliare” nella storia
della vita consacrata. E’ un’attesa realistica?
Toccare la vita
consacrata è toccare una pietra miliare della vita della Chiesa.
Il Congresso che
si celebrerà a novembre p.v. sarà un evento mondiale, in ascolto delle
diverse espressioni della vita consacrata presenti nella Chiesa e nel
mondo; sono certa che costituirà una forte spinta ecclesiale, di largo
respiro.
In questo
mega-incontro, colgo un’opportunità senza precedenti e il lodevole
tentativo di voler mettere a fuoco quel “nuovo” che lo Spirito Santo ha
fatto nascere e sta suscitando nella vita religiosa e per mezzo di
essa.
Trovo importante
il fatto che ci sia un risveglio vicendevole, che si riscopra insieme,
religiosi e religio-se, le radici di una profezia che continua. Tutto
ciò esprime il dinamismo stesso della vita consacrata, che a livello
istituzionale può essere più o meno considerato, ma resta comunque una
marcia in più che ci è data. Ritrovarci insieme, pure in tutta la
complessità dell’evento, è un’esperienza ecclesiale che ha indubbiamente
la sua forza creativa.
L’obiettivo centrale del congresso è di
capire quello che sta facendo nascere lo Spirito di Dio nella vita
consacrata oggi. E’ una bella scommessa, conoscendo la complessità, le
diversità culturali interne agli Istituti religiosi, le difficoltà e
tutte le sfide a cui sono chiamati a dare una risposta i consacrati
oggi.
In realtà
l’obiettivo mi sembra molto alto, soprattutto pensando al numero
elevato di partecipanti e al pochissimo tempo a disposizione per i
lavori del congresso. Sarà già un grande risultato il saperci ascoltare
reciprocamente in profondità, guardando al futuro.
Ma non basterà
semplicemente ascoltare quello che diremo; più importante è cogliere
quello che emer-gerà a ridosso del convegno stesso, per discernere,
insieme alla Chiesa, le spinte che ne deriveranno. L’obiettivo è
ambizioso, ma sono convinta che nascerà qualcosa “di più e oltre” a
quello che noi facciamo, a quello che noi oggi diciamo o prevediamo.
Nel documento preparatorio
si parla di tante sfide del mondo moderno che potrebbero trasformarsi
però in grandi opportunità di rivitalizzazione per la vita consacrata.
Sono sfide che
stanno provocando anche l’Usmi e che abbiamo affrontato in qualche
nostra assemblea nazionale, pienamente convinte delle opportunità
racchiuse dietro queste spinte. Fenomeni come quello della
globalizzazione, dell’economia, della mobilità, del pluralismo etnico e
religioso ci fanno toccare con mano che l’occidente non è più il
baricentro culturale del mondo. Di queste trasformazioni, la stes-sa
vita religiosa ha bisogno di prendere sempre più coscienza, senza dare
nulla per scontato.
Il fenomeno della
“mobilità” dei gruppi o persone, ad esempio, mi rimanda spesso
all’esperienza pro-pria dei religiosi, alla loro scelta e disponibilità
alla “mobilità”, per tutta la vita. Si tratta di un quid
specifico della nostra vita consacrata che può diventare risposta e
sostegno a questa situazione.
Perché allora non
recuperare tale aspetto e viverlo in termini evangelici, nel senso di
essere e sentirci più vicini alla gente in continua migrazione?
Tuttavia, secondo
me, la sfida più grossa alla vita religiosa è saper rispondere al
bisogno di trascenden-za dell’uomo d’oggi; una sfida che, volenti o
nolenti, ci porterà oltre le nostre opere, e, mi auguro, possa scuoterci
dalle nostre sclerosi e dal nostro perbenismo.
Lo strumento di lavoro
elenca senza mezzi termini tutta una lunga serie di blocchi e di
impedimenti che impediscono di fatto alla vita consacrata di essere
quello che dovrebbe essere. E’ sicuramente una delle pagine più
realistiche del documento, in cui confluiscono anche le prese di
coscienza maturate e denunciate nei tanti convegni sulla vita
consacrata di questi ultimi anni. Che ne pensa?
Nella sintesi del
documento di lavoro apparsa su Testimoni (n. 7/2004), il commento
ai cosiddetti “blocchi e impedimenti”, l’ho sentito abbastanza
inquietante. Leggendo invece l’elenco nel testo originale, potrà
sembrare strano, ma sono rimasta in parte delusa poiché m’attendevo una
più chiara evidenziazione di questi blocchi, a livello di chiesa e di
società.
In pratica, vi si
dice che nel modo di progettare, di programmare la nostra vita
consacrata siamo in un certo senso condizionati anzitutto dai modelli
culturali del mondo d’oggi, e bloccati, per certi versi, da “un sistema
ecclesiastico chiuso che diffida e sospetta della libertà evangelica che
tante volte anima la vita consacrata”. (cf Documento preparatorio n.
53).
Da quanto conosco,
mi pare che uno dei “blocchi” nella vita religiosa femminile sia l’aver
indebolito o smarrito il vero senso ecclesiale, il senso cioè di una
reale appartenenza alla Chiesa universale e locale; certi ambienti
ecclesiali, invece, mostrano una reale difficoltà e anche una certa
chiusura ad aprirsi al dinamismo della carità e della profezia su cui
tanti Istituti religiosi sono da tempo incamminati.
In fondo, blocchi
e impedimenti ci rimandano inevitabilmente ai nostri limiti personali e
comunitari; ci rimandano, in ultima istanza, al peccato dell’uomo.
Tuttavia, non possiamo non auspicare una maggior presa di coscienza, da
parte di tutti, degli ostacoli da rimuovere e dei passi da compiere.
Come responsabile
dell’Usmi, mi auguro che il dialogo aperto con i nostri Pastori, in
questo momento di transizione della vita religiosa, diventi sempre più
intenso e contribuisca a ridare un volto più evan-gelico e luminoso
alla vita consacrata nella Chiesa.
Penso
che le due icone di riferimento di tutto il congresso, quella della
samaritana e quella del buon samaritano, siano veramente indovinate.
Come sappiamo sono centrali anche nella vita di tutti i cristiani e di
tutte le vocazioni; ma cosa potrebbero suggerire, di specifico, ai
consacrati?
Anch’io le ho
trovate molto felici sia per la loro complementarietà sia come chiavi di
lettura della nostra realtà ecclesiale e sociale. Esse ci stimolano ad
attingere al vero “pozzo” della Parola di Dio, dell’Eucaristia, della
carità verso i poveri.
Ora, se è vero che
queste due icone sono significative per tutte le componenti del popolo
di Dio, mi sembra però che per i consacrati diventino un invito a
esprimere con più determinatezza la radicalità evangelica nella loro
vita.
Mi piace cogliere
nell’icona del buon samaritano una sollecitazione, una spinta ulteriore
a porre dei gesti significativi e a riscoprire nei poveri il volto di
Cristo. Nella cappella “Redemptoris Mater”, in Vaticano, padre M. I.
Rupnik ha raffigurato il samaritano in modo molto emblematico e cioè con
lo stesso volto di Cristo.
Contemplando
questa icona, la vita religiosa trova motivo e coraggio ad andare in
avanscoperta e ad assestarsi sulle “frontiere”, del mondo contemporaneo,
così diffusamente segnato dalla sofferenza e dalla povertà.
Nell’icona della
Samaritana, leggo l’invito a ritornare alla centralità e al fondamento
della nostra vita religiosa, a quell’unum necessarium cui ci richiama
il Vangelo.
Oltre
ai blocchi e agli impedimenti, nel documento preparatorio si parla
ampiamente di segni di speranza con cui guardare al futuro della vita
consacrata. Sono solo segni o anche qualcosa di più?
Io direi che
questi segni esistono realmente. Dobbiamo però fronteggiare
costantemente la tentazione delle opere e della immediata risposta ai
bisogni primari e ai bisogni emergenti della gente.
Come USMI stiamo
ritornando a riappropriarci dei fondamenti della vita consacrata, del
genuino carisma della “consacrazione”. Stiamo riflettendo sul
discepolato, sulla riespressione della vita di fede, della vita
cristiana, della vita come vocazione, mediante itinerari o attraverso
quel laboratorio spirituale di cui parla il documento preparatorio.
Un altro passo da
farsi con più convinzione è quello di parlare di rifondazione in
termini nuovi, un po’ inediti, tentando di riesprimerla attraverso un
serio discernimento spirituale. Non c’è rifondazione senza la riscoperta
del fondamento della nostra vita religiosa. E di questo dovremmo avere
il coraggio e il gusto di parlare, ossia: dei criteri della vita
spirituale, del mistero-realtà della Redenzione, del Regno di Dio, della
missione affidata dal Padre al Signore Gesù e a noi suoi discepoli.
Questi argomenti
dovrebbero rientrare più frequentemente nei nostri discorsi, come
orizzonte delle nostre scelte apostoliche, delle nostre riorganizzazioni
o ristrutturazioni; dovrebbero orientare e muovere tutta la nostra
persona, spostare sempre di più il baricentro da noi stessi verso di Lui
e dalle nostre opere verso una testimonianza più aderente e incarnata.
Il
problema più difficile è quello richiamato alla fine del documento di
lavoro: passare all’azione, tentando di delineare un “nuovo paradigma”
della vita consacrata. Ma come mai, mi chiedo, se da una parte il “peso”
delle azioni dei religiosi e delle religiose nella Chiesa e nella
società continua ancora oggi ad essere quantitativamente enorme,
dall’altra, però, si sente l’esigenza di “passare all’azione”?
Non si possono
misconoscere i molti cambiamenti in atto nella vita consacrata
femminile, ma non si può neppure tacere il pericolo sempre in agguato
della sclerosi di tante nostre opere. I bisogni stanno cambiando
vertiginosamente e noi spesso rimaniamo fermi su un tipo di risposte che
andavano bene anni fa. Non abbiamo il coraggio e forse mancano le
risorse per rimetterci in discussione.
Questo clima di
prevalente immobilismo sta causando frantumazione e rottura. Stiamo
assistendo a delle “gemmazioni”, come dicono alcuni Vescovi, ossia
piccoli gruppi di religiose che si staccano dal grande albero del
proprio Istituto, per tentare un nuovo stile di vita. Ma l’esperienza mi
fa dire che questi tentativi spesso non riescono ad esprimere un nuovo
paradigma di vita consacrata.
Mi pare che
l’espressione più riuscita sia data da quei nuclei di consacrati che,
mentre rimangono incarnati nella realtà, nel territorio, tentano di
riesprimere la loro consacrazione partendo dalla Parola di Dio, dalla
vita fraterna, dalla preghiera liturgica comunitaria e non dalla
riorganizzazione delle opere o dalla revisione di alcuni aspetti della
vita di comunità.
Ciò che conta è
giungere al cuore della vita religiosa, riscoprire l’esperienza
comunitaria, la preghiera, la condivisione, la correzione fraterna come
promozione vicendevole, saper “perdere tempo” per la fraternità, per
l’incontro spirituale.
Ho
visto sul nuovo sito internet dell’Usmi (complimenti per il suo nuovo
look!)) le prime risposte ad un sondaggio per sapere se si vive la
speranza in comunità. Su 36 risposte, ci sono 17 sì, 3 no, 14 poco e 5
molto. Precedentemente ancora invece era stato lanciato un sondaggio
sulla qualità della vita comunitaria. Non ho sotto mano i dati precisi,
ma mi ricordo che le religiose pienamente soddisfatte della vita
comunitaria erano un po’ pochine! E’ forse giunto il momento di mettere
sotto accusa le nostre comunità?
Se è vero che
nella nostra realtà religiosa femminile italiana esistono ancora
situazioni di vera chiusura, di un’obbedienza spenta, di scarsa
comunicazione, sta però emergendo un po’ ovunque un clima più libero e
sereno. C’è bisogno tuttavia di recuperare una visione più realistica e
meno ideale della vita comunitaria, ricordandoci o facendo memoria del
mistero pasquale senza disgiungere l’evento della “Risurrezione” da
quello della “Passione.
La dimensione
della vita comunitaria, come evidenziato negli ultimi documenti sulla
Vita consacrata, non va data troppo per scontata; va presa come una
via crucis e una via lucis che non procedono parallelamente
ma si incrociano in modo realistico.
Noi “formiamo
comunità” non tanto per stare meglio o per una più efficiente
organizzazione apostolica, ma prima ancora per sperimentare nei limiti
del possibile la vita della prima comunità dei discepoli, attorno a Gesù.
A questo proposito
mi piace riprendere un’espressione di p. T. Spidlik , il quale, parlando
della vita della Chiesa, osservava come storicamente tante lotte, tanti
conflitti siano nati semplicemente dal fatto di voler stare insieme a
tutti i costi, in forza di un’idea. Nello stesso tempo rimandava
all’esempio di una madre che tiene unita la famiglia non in forza di
un’idea, ma in forza del suo amore materno.
La madre diventa
un po’ la figura dello Spirito Santo nella sua dimensione relazionale e
di amore.
Quale modello più
vero per un’autentica vita cristiana e religiosa? E’ questo un campo
aperto su cui dovremmo far sbocciare qualche cosa di nuovo.
Il
problema della inculturazione è uno dei temi ricorrenti non solo nello
strumento di lavoro, ma più ancora nel vissuto quotidiano di tanti
nostri Istituti religiosi. Parlare di inculturazione significa anche
parlare delle tante sfide derivanti dai diversi modelli antropologici,
culturali, organizzativi a cui non solo i singoli religiosi ma anche i
governi generali dei nostri Istituti sono spesso impreparati a dare una
risposta. La presidente dell’Usmi come vede questo problema della
inculturazione?
Nelle nostre
assemblee, da diversi anni, più che di inculturazione vera e propria
preferiamo parlare di attenzione alla nuova realtà multiculturale delle
nostre Congregazioni.
Il problema della
inculturazione emerge fortemente nel campo della formazione iniziale. Da
tempo nel-le Congregazioni religiose, soprattutto in quelle più
numerose, ci si è accorti che non è possibile una formazione iniziale
che, sia nella preparazione alla professione dei Voti, sia
nell’assunzione del cari-sma, non tenga conto delle diverse appartenenze
e culture. Un Istituto religioso presente in Europa, in Africa, in Asia,
in America Latina e in Oceania, pur avendo la stessa anima, non può
avere le stesse modalità nell’esprimere il proprio carisma.
In ogni processo
di inculturazione, le parti in causa sono chiamate a mettere in
discussione qualche cosa della propria storia. E qui, i primi a
“perdere” in senso evangelico dovremmo essere proprio noi occidentali,
senza misconoscere la nostra specifica identità.
Ritengo
problematica la situazione di quegli Istituti in Italia nei quali si
trovano a convivere pochissime religiose italiane con nuclei molto
numerosi di religiose di altri Paesi. Penso quale sarà lo sviluppo del
carisma e quale l’orizzonte culturale della proposta formativa. Al
riguardo, c’è da augurarsi una doverosa inversione di tendenza o
numerica o geografica.
Nel
documento preparatorio si insiste molto opportunamente sulla importanza
di una buona spiritualità. Ma come farla nascere? Come far sì che il
carisma di fondazione di un istituto religioso possa addirittura
diventare un “laboratorio di spiritualità”?
Il tentativo che
si sta facendo da molte parti è proprio quello di aiutare la
leadership di una congrega-zione religiosa a passare da una gestione
prevalentemente organizzativa ad uno stile di governo più attento alla
vita dello Spirito e al discernimento spirituale delle opere.
Diversi percorsi
formativi avviati all’Usmi vogliono essere proprio una risposta a questa
necessità. L’apprendimento dell’arte del discernimento spirituale è una
strada difficile, ma obbligata. Non possiamo infatti continuare a
condividere e a scambiarci soltanto le nostre preoccupazioni sulle cose
da fare; continueremo ad occuparci anche di questo, ma, nello stesso
tempo, avvertiamo la necessità di prenderci cura attenta della vita
dello Spirito che è in noi, che opera nelle nostre comunità e attraverso
il nostro servizio. Non si tratta di fare di più, ma dialogare di più
per contagiarci nella fede e nella carità.
I
redattori del documento preparatorio temono, ad un certo punto, che
certe forme di vita consacrata possano trasformarsi in veri e propri
“segni museali”, con un linguaggio fuori dal tempo, in un vissuto
quotidiano di consacrazione non più significativa per l’uomo d’oggi.
Stanno esagerando?
No, non stanno
esagerando. Quando si parla di linguaggio, oltre alla trasmissione
verbale di alcuni va-lori, penso alla modalità della nostra presenza e a
come, di fatto, ci percepisce la gente, oggi. Fino a quando noi ci
preoccuperemo di dare risposta prevalentemente ai bisogni materiali
delle persone, pro-babilmente non riusciremo ad esprimere un nuovo stile
di vita.
È pur vero il
fatto che sul fronte dell’emergenza, pur in mezzo a tante difficoltà e
nonostante consorelle sempre più anziane, la vita religiosa è sempre
presente. Ma questo non basta. In tutto quello che fac-ciamo dovrebbero
trasparire con chiarezza le motivazioni di fondo del nostro servizio, le
ragioni del nostro carisma; diversamente le persone continueranno a
venire da noi solo per i servizi che offriamo loro e non anzitutto per
quello che professiamo ossia per conoscere Colui che desideriamo
seguire.
Da un po’ di tempo
mi ritorna un interrogativo di fondo. In tanti contesti sempre meno
cristiani, la nostra presenza di consacrate fino a che punto sarebbe
percepita utile e significativa, se non ci fosse il supporto e la
visibilità di opere proprie? Penso che, oggi, si debba puntare molto di
più non tanto su una nuova gestione delle nostre opere, quanto piuttosto
su una nuova presenza come consacrate nella Chiesa.
Abbiamo tante
comunità generosamente disposte a rispondere, ad esempio, ai bisogni
della tratta, della immigrazione e su altre frontiere della marginalità;
non emerge la stessa forza e incisività per il ministero dell’annuncio.
Qui la nostra ‘fantasia’ è ancora debole e poco luminosa; ci sta davanti
tutto un futuro da scoprire.
L’icona del buon samaritano sta a ricordare anche ai consacrati
l’esigenza di un concreto e reale coinvolgimento economico di fronte
alle tante povertà materiali del mondo d’oggi. Pongo alla presidente
dell’Usmi uno degli interrogativi che nel documento preparatorio vengono
posti a tutti i religiosi: «come può la vita consacrata aiutare a
passare dal vivere in funzione del superfluo al vivere in funzione del
necessario?».
Da quello che
conosco, la vita religiosa femminile si sta interrogando seriamente,
forse per necessità, sulla politica economica degli Istituti e, in
particolare, sull’utilizzo di alcune strutture e risorse, attenta a
lasciare il superfluo e a vivere con il necessario; tuttavia c’è bisogno
di capire meglio che cosa compor-ti anche per noi una cosiddetta
“economia solidale”.
Si avverte la
necessità di esprimere la solidarietà anche attraverso la condivisione
delle nostre risorse economiche. A questo proposito, molte Congregazioni
si trovano di fronte ad una grande sfida, quella del passaggio dalla
gestione di opere ad una semplice presenza di animazione pastorale o di
piccole fraternità
Lo
strumento di lavoro è stato pensato esclusivamente come traccia per la
preparazione del congresso internazionale di novembre. E’ facile pensare
che l’efficacia di questo evento sarà proporzionata soprattutto al
livello di sensibilizzazione già in fase preparatoria. Data per
scontata, almeno da parte mia, una maggior “diligenza” da parte delle
religiose che non dei religiosi nella preparazione di eventi del genere,
l’Usmi in quanto tale come si sta muovendo a questo riguardo?
Questo evento ci
sta coinvolgendo seriamente.
A livello
nazionale lo abbiamo inserito nei nostri obiettivi annuali e abbiamo
condiviso attese e prospettive con le presidenti dell’USMI regionale
alle quali è stato consegnato lo strumento di lavoro, perché, in questo
periodo, ne facciano oggetto di lettura e di informazione a livello
locale.
Quest’anno l’USMI,
oltre ad essere coinvolta a questo livello, è impegnata anche per la
preparazione e la partecipazione al Congresso eucaristico nazionale a
Bari.
Il Congresso
Eucaristico si pone come un evento essenzialmente liturgico-celebrativo.
Il Congresso sulla
Vita Consacrata, per la molteplicità di prospettive, per le modalità e
l’ interna-zionalità dei partecipanti, può diventare cassa di risonanza
dello Spirito, “pietra miliare” nella storia della nostra vita
religiosa.
Il fatto di
provenire da tutte le parti del mondo, di cercare insieme dove ci sta
conducendo lo Spirito, di ascoltare quella che è la “Passione per
Cristo e… per l’umanità”, costituisce, a mio avviso, un fatto
essenzialmente ecclesiale, un grande atto d’amore dei consacrati per la
Chiesa e per il mondo.
Per
gentile concessione della rivista TESTIMONI - Bologna
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