passione per Cristo,
passione per l’Umanità

Il Congresso mondiale
sulla Vita Consacrata

nelle parole di Madre Teresa Simionato


Rita Salerno (a cura)

 

English version

trasp.gif (814 byte) trasp.gif (814 byte) trasp.gif (814 byte) trasp.gif (814 byte)

 
A fine novembre a Roma si aprirà il congresso internazionale sulla vita consacrata: “Passione per Cristo. Passione per l’umanità”. Vogliamo riflettere insieme su alcuni contenuti dello strumento di lavoro, un documento significativo già in sé stesso. Gli organizzatori, unione dei superiori e delle superiori generali, parlano di questo mega-congresso (più di 800 partecipanti) come di una “pietra miliare” nella storia della vita consacrata. E’ un’attesa realistica?

Toccare la vita consacrata è toccare una pietra miliare della vita della Chiesa. 

Il Congresso che si celebrerà a novembre p.v. sarà un evento mondiale, in ascolto delle diverse espressioni della vita consacrata presenti nella Chiesa e nel mondo; sono certa che costituirà una forte spinta ecclesiale, di largo respiro.

In questo mega-incontro, colgo un’opportunità senza precedenti e il lodevole tentativo di voler mettere a fuoco quel “nuovo” che lo Spirito Santo ha fatto nascere e sta suscitando nella vita religiosa e per mezzo di essa. 

Trovo importante il fatto che ci sia un risveglio vicendevole, che si riscopra insieme, religiosi e religio-se,  le radici di una profezia che continua.  Tutto ciò esprime  il dinamismo stesso della vita consacrata, che a livello istituzionale può essere più o meno considerato, ma resta comunque una marcia in più che ci è data. Ritrovarci insieme, pure in tutta la complessità dell’evento, è un’esperienza ecclesiale che ha indubbiamente la sua forza creativa.

L’obiettivo centrale del congresso è di capire quello che sta facendo nascere lo Spirito di Dio nella vita consacrata oggi. E’ una bella scommessa, conoscendo la complessità, le diversità culturali interne agli Istituti religiosi, le difficoltà e tutte le sfide a cui sono chiamati a dare una risposta i consacrati oggi.

In realtà l’obiettivo mi sembra molto alto, soprattutto pensando al numero  elevato di partecipanti e al pochissimo tempo a disposizione per i lavori del congresso. Sarà già un grande risultato il saperci ascoltare reciprocamente in profondità, guardando al futuro.

Ma non basterà semplicemente ascoltare quello che diremo; più importante è cogliere quello che emer-gerà a ridosso del convegno stesso, per  discernere, insieme alla Chiesa, le spinte che ne deriveranno. L’obiettivo è ambizioso, ma sono convinta che nascerà qualcosa “di più e oltre” a quello che noi facciamo, a quello che noi oggi diciamo o prevediamo.

Nel documento preparatorio si parla di tante sfide del mondo moderno  che potrebbero trasformarsi però in grandi opportunità di rivitalizzazione per la vita consacrata.

Sono sfide che stanno provocando anche l’Usmi e che abbiamo affrontato in qualche nostra  assemblea nazionale, pienamente convinte delle opportunità racchiuse dietro queste spinte. Fenomeni come quello della globalizzazione, dell’economia, della mobilità, del pluralismo etnico e religioso ci fanno toccare con mano che l’occidente non è più il baricentro culturale del mondo. Di queste trasformazioni, la stes-sa vita religiosa ha bisogno di prendere sempre più coscienza, senza dare nulla per scontato.

Il fenomeno della “mobilità” dei gruppi o persone, ad esempio, mi rimanda spesso all’esperienza pro-pria dei religiosi, alla loro scelta e disponibilità alla “mobilità”, per tutta la vita.  Si tratta di un quid specifico della nostra vita consacrata che può diventare risposta e sostegno a questa situazione.

Perché allora non recuperare tale aspetto  e viverlo in termini evangelici, nel senso di essere e sentirci più vicini alla gente in continua migrazione? 

Tuttavia, secondo me, la sfida più grossa alla vita religiosa è saper rispondere al bisogno di trascenden-za dell’uomo d’oggi; una sfida che, volenti o nolenti, ci porterà oltre le nostre opere, e, mi auguro, possa scuoterci dalle nostre sclerosi e dal nostro perbenismo.

Lo strumento di lavoro elenca senza mezzi termini tutta una lunga serie di blocchi e di impedimenti che impediscono di fatto alla vita consacrata di essere quello che dovrebbe essere. E’ sicuramente una delle pagine più realistiche del documento, in cui confluiscono anche le prese di coscienza maturate e denunciate  nei tanti convegni sulla vita consacrata di questi ultimi anni. Che ne pensa?

Nella sintesi del documento di lavoro apparsa su Testimoni (n. 7/2004), il commento ai cosiddetti “blocchi e impedimenti”, l’ho sentito abbastanza inquietante. Leggendo invece l’elenco nel testo originale, potrà sembrare strano, ma sono rimasta in parte delusa poiché m’attendevo una più chiara evidenziazione  di questi blocchi, a livello di chiesa e di società.

In pratica, vi si dice che nel modo di progettare, di programmare la nostra vita consacrata siamo in un certo senso condizionati anzitutto dai modelli culturali del mondo d’oggi, e bloccati, per certi versi, da “un sistema ecclesiastico chiuso che diffida e sospetta della libertà evangelica che tante volte anima la vita consacrata”. (cf  Documento preparatorio n. 53).

Da quanto conosco, mi pare che uno dei “blocchi” nella vita religiosa femminile sia l’aver indebolito o smarrito il vero senso ecclesiale, il senso cioè di una reale appartenenza alla Chiesa universale e locale; certi ambienti ecclesiali, invece,  mostrano una reale difficoltà e anche una certa chiusura ad aprirsi al dinamismo della carità e della profezia su cui tanti Istituti religiosi sono da tempo incamminati.

In fondo, blocchi e impedimenti ci rimandano inevitabilmente ai nostri limiti personali e comunitari; ci rimandano, in ultima istanza, al peccato dell’uomo. Tuttavia, non possiamo non auspicare una maggior presa di coscienza, da parte di tutti, degli ostacoli da rimuovere e dei passi da compiere.

Come responsabile dell’Usmi, mi auguro che il dialogo aperto con i nostri Pastori, in questo momento di transizione della vita religiosa, diventi sempre più intenso e contribuisca a ridare un volto  più evan-gelico e luminoso alla vita consacrata nella Chiesa. 

Penso che le due icone di riferimento di tutto il congresso, quella della samaritana e quella del buon samaritano, siano veramente indovinate. Come sappiamo sono centrali anche nella vita di tutti i cristiani e di tutte le vocazioni; ma cosa potrebbero suggerire, di specifico, ai consacrati?

Anch’io le ho trovate molto felici sia per la loro complementarietà sia come chiavi di lettura della nostra realtà ecclesiale e sociale. Esse ci stimolano ad attingere al vero “pozzo” della Parola di Dio, dell’Eucaristia,  della carità verso i poveri.

Ora, se è vero che queste due icone sono significative per tutte le componenti del popolo di Dio, mi sembra però che per i consacrati diventino un invito a esprimere con più determinatezza la radicalità evangelica nella loro vita.

Mi piace cogliere nell’icona del buon samaritano una sollecitazione, una spinta ulteriore a porre dei gesti significativi e a riscoprire nei poveri il volto di Cristo. Nella cappella “Redemptoris Mater”, in Vaticano,  padre M. I. Rupnik ha raffigurato il samaritano in modo molto emblematico e cioè con lo stesso volto di Cristo.

Contemplando  questa icona, la vita religiosa trova motivo e coraggio ad andare in avanscoperta e ad assestarsi sulle “frontiere”, del mondo contemporaneo, così diffusamente segnato dalla sofferenza e dalla povertà.

Nell’icona della Samaritana, leggo l’invito a ritornare  alla centralità e al fondamento della  nostra vita religiosa, a quell’unum necessarium cui ci richiama il Vangelo.

Oltre ai blocchi e agli impedimenti, nel documento preparatorio si parla ampiamente di segni di speranza con cui guardare al futuro della vita consacrata. Sono solo segni o anche qualcosa di più?

Io direi che questi segni esistono realmente. Dobbiamo però fronteggiare costantemente la  tentazione  delle opere e della immediata risposta ai bisogni primari e ai bisogni emergenti della gente.

Come USMI stiamo ritornando a riappropriarci dei fondamenti della vita consacrata, del genuino carisma della “consacrazione”. Stiamo riflettendo sul discepolato, sulla riespressione della vita di fede, della vita cristiana, della vita come vocazione, mediante itinerari o attraverso quel laboratorio spirituale di cui parla il documento preparatorio.

Un altro passo da farsi con più convinzione  è quello di parlare di rifondazione in termini nuovi, un po’ inediti, tentando di riesprimerla attraverso un serio discernimento spirituale. Non c’è rifondazione senza la riscoperta del fondamento della nostra vita religiosa. E di questo dovremmo avere il coraggio e il gusto di parlare, ossia: dei criteri della vita spirituale, del mistero-realtà della Redenzione, del Regno di Dio, della missione affidata dal Padre al Signore Gesù e a noi suoi discepoli.

Questi argomenti dovrebbero rientrare più frequentemente nei nostri discorsi, come orizzonte delle nostre scelte apostoliche, delle nostre riorganizzazioni o ristrutturazioni; dovrebbero orientare  e  muovere tutta la nostra persona, spostare sempre di più il baricentro da noi stessi verso di Lui e dalle nostre opere verso una testimonianza più aderente e incarnata.

Il problema più difficile è quello richiamato alla fine del documento di lavoro: passare all’azione, tentando di delineare un “nuovo paradigma” della vita consacrata. Ma come mai, mi chiedo, se da una parte il “peso” delle azioni dei religiosi e delle religiose nella Chiesa e nella società continua ancora oggi ad essere quantitativamente enorme, dall’altra, però, si sente l’esigenza di “passare all’azione”?

Non si possono misconoscere i molti cambiamenti in atto nella vita consacrata femminile, ma non si può neppure tacere il pericolo sempre in agguato della sclerosi di tante nostre opere. I bisogni stanno cambiando vertiginosamente e noi spesso rimaniamo fermi su un tipo di risposte che andavano bene anni fa. Non abbiamo il coraggio e forse mancano le risorse per  rimetterci in discussione.

Questo clima di prevalente immobilismo sta causando frantumazione e rottura. Stiamo assistendo a delle “gemmazioni”, come dicono alcuni Vescovi, ossia piccoli gruppi di religiose che si staccano dal grande albero del proprio Istituto, per tentare un nuovo stile di vita. Ma l’esperienza mi fa dire che questi tentativi spesso non riescono ad esprimere un nuovo paradigma di vita consacrata.

Mi pare che l’espressione più riuscita  sia data da quei nuclei di consacrati che, mentre rimangono incarnati nella realtà, nel territorio, tentano di riesprimere la loro consacrazione partendo dalla Parola di Dio, dalla vita fraterna, dalla preghiera liturgica comunitaria e non dalla riorganizzazione delle opere o dalla revisione di alcuni aspetti della vita di comunità.

Ciò che conta è giungere al cuore della vita religiosa,  riscoprire l’esperienza comunitaria, la preghiera, la condivisione, la correzione fraterna come promozione vicendevole, saper “perdere tempo” per la fraternità, per l’incontro spirituale.

Ho visto sul nuovo sito internet dell’Usmi (complimenti per il suo nuovo look!)) le prime risposte ad un sondaggio per sapere se si vive la speranza in comunità. Su 36 risposte, ci sono 17 sì, 3 no, 14 poco e 5 molto. Precedentemente ancora invece era stato lanciato un sondaggio sulla qualità della vita comunitaria. Non ho sotto mano i dati precisi, ma mi ricordo che le religiose pienamente soddisfatte della vita comunitaria erano un po’ pochine! E’ forse giunto il momento di mettere sotto accusa le nostre comunità?

Se è vero che nella nostra realtà religiosa femminile italiana esistono ancora situazioni di vera chiusura, di un’obbedienza spenta, di scarsa comunicazione, sta però emergendo un po’ ovunque un clima più libero e sereno. C’è bisogno tuttavia di recuperare una visione più realistica e meno ideale della vita   comunitaria, ricordandoci o facendo memoria del mistero pasquale senza disgiungere l’evento della “Risurrezione” da quello della “Passione.

La dimensione della vita comunitaria, come evidenziato negli ultimi documenti sulla Vita consacrata, non va data troppo per scontata; va presa come una via crucis e una  via lucis che non procedono parallelamente ma si incrociano in modo realistico.

Noi “formiamo comunità” non tanto per stare meglio o per una più efficiente organizzazione apostolica, ma prima ancora per sperimentare nei limiti del possibile la vita della prima comunità dei discepoli, attorno a Gesù.

A questo proposito mi piace riprendere un’espressione di p. T. Spidlik , il quale, parlando della vita della Chiesa, osservava come storicamente tante lotte, tanti conflitti siano nati semplicemente dal fatto di voler stare insieme a tutti i costi, in forza di un’idea. Nello stesso tempo rimandava  all’esempio di una  madre che tiene unita la famiglia non in forza di un’idea, ma in forza del suo amore materno.

La madre diventa un po’ la figura dello Spirito Santo nella sua dimensione relazionale e di amore.

Quale modello più vero per un’autentica vita cristiana e religiosa? E’ questo un campo aperto su  cui dovremmo far sbocciare qualche cosa di nuovo.

Il problema della inculturazione è uno dei temi ricorrenti non solo nello strumento di lavoro, ma più ancora nel vissuto quotidiano di tanti nostri Istituti religiosi. Parlare di inculturazione significa anche parlare delle tante sfide derivanti dai diversi modelli antropologici, culturali, organizzativi a cui non solo i singoli religiosi ma anche i governi generali dei nostri Istituti sono spesso impreparati a dare una risposta. La presidente dell’Usmi come vede questo problema della inculturazione?

Nelle nostre assemblee, da diversi anni, più che di inculturazione vera e propria preferiamo parlare di attenzione alla nuova realtà multiculturale delle nostre Congregazioni.

Il problema della inculturazione emerge fortemente nel campo della formazione iniziale. Da tempo nel-le Congregazioni religiose, soprattutto in quelle più numerose, ci si è accorti che non è possibile una formazione iniziale che, sia nella preparazione alla professione dei Voti, sia nell’assunzione del cari-sma, non tenga conto delle diverse appartenenze e culture. Un Istituto religioso presente in Europa, in Africa, in Asia, in America Latina e in Oceania, pur avendo la stessa anima, non può avere le stesse modalità nell’esprimere il proprio carisma.

In ogni processo di inculturazione, le parti in causa sono chiamate a mettere in discussione qualche cosa della propria storia. E qui, i primi a “perdere” in senso evangelico dovremmo essere proprio noi occidentali, senza misconoscere la nostra  specifica identità.

Ritengo problematica la situazione di quegli Istituti in Italia nei quali si trovano a convivere pochissime religiose italiane con nuclei molto numerosi di religiose di altri Paesi. Penso quale sarà lo sviluppo del carisma  e quale l’orizzonte culturale della proposta formativa. Al riguardo, c’è da augurarsi una doverosa inversione di tendenza o numerica o geografica.

Nel documento preparatorio si insiste molto opportunamente sulla importanza di una buona spiritualità. Ma come farla nascere? Come far sì che il carisma di fondazione di un istituto religioso possa addirittura diventare un “laboratorio di spiritualità”?

Il tentativo che si sta facendo da molte parti è proprio quello di aiutare la leadership di una congrega-zione religiosa a passare da una gestione prevalentemente organizzativa ad uno stile di governo più attento alla vita dello Spirito e al discernimento spirituale delle opere.

Diversi percorsi formativi avviati all’Usmi vogliono essere proprio una risposta a questa necessità. L’apprendimento dell’arte del discernimento spirituale è una strada difficile, ma obbligata. Non possiamo infatti continuare a condividere e a scambiarci soltanto le nostre preoccupazioni sulle cose da fare; continueremo ad occuparci anche di questo, ma, nello stesso tempo, avvertiamo la necessità di prenderci cura attenta della vita dello Spirito che è in noi, che opera nelle nostre comunità e attraverso il nostro servizio. Non si tratta di fare di più, ma dialogare di più per contagiarci nella fede e nella carità.   

I redattori del documento preparatorio temono, ad un certo punto, che certe forme di vita consacrata possano trasformarsi in veri e propri “segni museali”, con un linguaggio fuori dal tempo, in un vissuto quotidiano di consacrazione non più significativa per l’uomo d’oggi. Stanno esagerando?

No, non stanno esagerando. Quando si parla di linguaggio, oltre alla trasmissione verbale di alcuni va-lori, penso alla modalità della nostra presenza e a come, di fatto, ci percepisce la gente, oggi. Fino a quando noi ci preoccuperemo di dare risposta prevalentemente ai bisogni materiali delle persone, pro-babilmente non riusciremo ad esprimere un nuovo stile di vita.

È pur vero il fatto che sul fronte dell’emergenza, pur in mezzo a tante difficoltà e nonostante consorelle   sempre più anziane, la vita religiosa è sempre presente. Ma questo non basta. In tutto quello che fac-ciamo dovrebbero trasparire con chiarezza le motivazioni di fondo del nostro servizio, le ragioni del nostro carisma; diversamente le persone continueranno a venire da noi solo per i servizi che offriamo loro e non anzitutto per quello che professiamo ossia  per conoscere Colui che desideriamo seguire.

Da un po’ di tempo mi ritorna un interrogativo di fondo. In tanti contesti sempre meno cristiani, la nostra presenza di consacrate fino a che punto sarebbe percepita utile e significativa, se non ci fosse il supporto e la visibilità di opere proprie? Penso che, oggi, si debba puntare molto di più non tanto su una nuova gestione delle nostre opere, quanto piuttosto su una nuova presenza come consacrate nella Chiesa.

Abbiamo tante comunità generosamente disposte a rispondere, ad esempio, ai bisogni della tratta, della immigrazione e su altre frontiere della marginalità; non emerge la stessa forza e incisività per il ministero dell’annuncio. Qui la nostra ‘fantasia’ è ancora debole e poco luminosa; ci sta davanti tutto un futuro da scoprire.

L’icona del buon samaritano sta a ricordare anche ai consacrati l’esigenza di un concreto e reale coinvolgimento economico di fronte alle tante povertà materiali del mondo d’oggi. Pongo alla presidente dell’Usmi uno degli interrogativi che nel documento preparatorio vengono posti a tutti i religiosi: «come può la vita consacrata aiutare a passare dal vivere in  funzione del superfluo al vivere in funzione del necessario?».

Da quello che conosco, la vita religiosa femminile si sta interrogando seriamente, forse per necessità, sulla politica economica degli Istituti e, in particolare, sull’utilizzo di alcune strutture e risorse, attenta a lasciare il superfluo e a vivere con il necessario; tuttavia c’è bisogno di capire meglio che cosa compor-ti anche per noi una cosiddetta “economia solidale”.

Si avverte la necessità di esprimere la solidarietà anche attraverso la condivisione delle nostre risorse economiche. A questo proposito, molte Congregazioni si trovano di fronte ad una grande sfida, quella del passaggio dalla gestione di opere ad una semplice presenza di animazione pastorale o di piccole fraternità

Lo strumento di lavoro è stato pensato esclusivamente come traccia per la preparazione del congresso internazionale di novembre. E’ facile pensare che l’efficacia di questo evento sarà proporzionata soprattutto al livello di sensibilizzazione già in fase preparatoria. Data per scontata, almeno da parte mia, una maggior “diligenza” da parte delle religiose che non dei religiosi nella preparazione di eventi del genere, l’Usmi in quanto tale come si sta muovendo a questo riguardo?

Questo evento ci sta coinvolgendo seriamente.

A livello nazionale lo abbiamo inserito nei nostri obiettivi annuali e abbiamo condiviso attese e prospettive con le presidenti dell’USMI regionale alle quali è stato consegnato lo strumento di lavoro, perché, in questo periodo, ne facciano oggetto di lettura e di informazione a livello locale.

Quest’anno l’USMI, oltre ad essere coinvolta a questo livello, è impegnata anche per la preparazione e la partecipazione al Congresso eucaristico nazionale a Bari.

Il Congresso Eucaristico si pone come un evento essenzialmente liturgico-celebrativo.

Il Congresso sulla Vita Consacrata, per la molteplicità di prospettive, per le modalità e l’ interna-zionalità dei partecipanti, può diventare cassa di risonanza  dello Spirito, “pietra miliare” nella storia della nostra vita religiosa.

Il fatto di provenire da tutte le parti del mondo, di cercare insieme dove ci sta conducendo lo Spirito, di ascoltare quella che è la  “Passione per Cristo e… per l’umanità”, costituisce, a mio avviso, un fatto essenzialmente ecclesiale, un grande atto d’amore dei consacrati per la Chiesa e per il mondo.

Per gentile concessione della rivista TESTIMONI - Bologna
 

Torna indietro