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L’avevamo
promesso! Ora siamo al compimento. Il Congresso sulla Vita Consacrata
non può e non deve restare un glorioso, felice, ben organizzato momento
della storia della Chiesa. I molti e significativi punti illuminanti
devono continuare a essere luce; le proposte o le suggestioni devono
tradursi in realtà nei contesti più molteplici nei quali religiose e
religiosi si trovano a vivere e operare. Non vorremmo che fra un po’ di
anni, non molti, si dovesse ripetere la domanda: che ne è rimasto? A che
è servito? E’ stato – a testimonianza comune - una esperienza forte, un
dono dello Spirito alla sua Chiesa. E che ne pensa chi è rimasto fuori,
non vi ha partecipato, ma comunque ha seguito l’evento e ha un “suo”
pensiero?
Come
incarnare oggi la “passione per Cristo, passione per l’umanità”, filo
conduttore dei lavori del Congresso Mondiale che si è svolto a Roma nel
novembre scorso?
“Terrei come punto di
riferimento soprattutto la figura centrale di questa frase, la persona
di Cristo, che si presenta sostanzialmente all’interno della teologia
con i due grandi volti che sono stati cantati dal prologo del Vangelo di
Giovanni. Da una parte, abbiamo logos, cioè la trascendenza, la
divinità, l’Assoluto, l’eterno. E dall’altra parte, abbiamo sarx
cioè la carne, la storia, la contingenza, il relativo, la debolezza, la
miseria della vicenda umana. In questa luce, se si tiene la barra della
navigazione della vita spirituale puntata sulla figura di Cristo, è
inevitabile per il cristiano essere ininterrottamente testimone di Gesù
nell’umanità e per l’umanità.
A maggior ragione,
coloro che hanno dedicato integralmente la loro esistenza all’annuncio
del Regno. In questo senso, devono ininterrottamente costruire una loro
spiritualità, una loro fede, di grande intensità, di grande
approfondimento di tipo teologico che deve avvenire a tutti i livelli
non soltanto in alcuni ambiti delle varie congregazioni religiose.
Dall’altra parte, devono essere capaci, ciascuno per il proprio carisma
e in base alla propria vocazione, di essere sempre presenti all’interno
della storia dell’umanità. Continuamente attenti a declinare quel
messaggio che hanno ricevuto come ha fatto Cristo, che dopotutto non
dimentichiamo mai, all’interno dei Vangeli presenta sì l’annuncio del
Regno, ma anche continua a ricordare che bisogna ungere di olio gli
infermi e liberare dal male le creature. E che occorre continuamente
andare per le strade dei lebbrosi, di tutti coloro cioè che sono
sofferenti e quindi far scattare questa passione profonda per
l’umanità”.
A Suo avviso, come è percepita oggi dall’opinione pubblica italiana la
vita consacrata?
“Se teniamo come punto
di riferimento la televisione, che è il mezzo egemone, oltre a una certa
tradizione cinematografica, dobbiamo dire che costantemente sono stati
due i profili che sono stati offerti. Qualche volta in maniera
abbastanza banale, a volte più intensa o forse anche più provocatoria.
Da un lato, c’è sicuramente la concezione della vita consacrata come
qualcosa di alonato di luce, di trasfigurato, anche magari alcune volte,
acuta. È evidente il tentativo di mostrare una scelta di totale
consacrazione, di totale felicità interiore e anche di totale
generosità. Alla Biblioteca Ambrosiana si è appena conclusa una mostra,
che è durata alcune settimane, di una fotografa Grazia Alissi, nota per
essersi cimentata con i personaggi dello spettacolo e del panorama
musicale. La Alissi ha deciso di dedicarsi, da tempo, a istantanee
d’arte di grande intensità proprio dell’esperienza religiosa,
soprattutto di quella della vita claustrale, inclusa di tutti coloro che
hanno una forte dimensione verticale, come dimensione di consacrazione.
Da un lato, quindi,
c’è sicuramente una raffigurazione positiva. Pensiamo a quello che hanno
rappresentato le miniserie dedicate recentemente a Don Bosco e a Don
Gnocchi. Certamente, qualche volta questo aspetto positivo conosce il
sapore della retorica, dell’enfasi, del santino quasi. Una sorta di
melassa che è proprio la percezione non autentica della spiritualità,
più di superficie. Per questo dico che non bisogna subito inneggiare, ma
sviluppare un senso critico nei confronti di questa attenzione.
Dall’altra parte,
abbiamo avuto anche delle banalizzazioni attraverso prodotti televisivi
o cinematografici, o anche dei veri e propri atti d’accusa, persino
ingiusti anche se con qualche fondamento. Penso, ad esempio, al film
“Magdalene” ambientato in un collegio inglese dove la formazione
religiosa di queste ragazze era scandita da una ipocrisia farisaica
giungendo ad evidenti eccessi. O all’ultima pellicola di Almodovar “La
mala educacion”, esempio di pellicola che introduce elementi oscuri che
rappresentano una forma di ribellione e di sfregio nei confronti di
un’esperienza che ha inciso profondamente nella storia della cultura e
dell’umanità occidentale come quella religiosa.
Per questo motivo,
sono portato a dire che di fronte a questa domanda, il giudizio è
duplice: da un lato, c’è un ritorno al gusto e al desiderio di conoscere
questo mondo che è per certi versi al di là di una siepe, dall’altro
lato c’è qualcuno che entra dentro con tutti e due i piedi e cerca di
calpestarne non soltanto i sentieri che meritano di essere percorsi ma
anche le aiuole”.
La televisione e più in generale i mezzi di comunicazione di massa
possono contribuire alla causa dell’evangelizzazione? Si può parlare di
corretta veicolazione del messaggio?
“Sicuramente devono
contribuire. Perché questo è il linguaggio del nostro tempo, della
comunicazione, soprattutto direi la televisione. Fermo restando che
tutti gli altri mezzi, la stampa in particolare, hanno una funzione
costante e decisiva. Bisogna scommettere su queste risorse. Ma con due
riserve. La prima attenzione è quella che coloro che praticano questi
mezzi, mi riferisco agli addetti ai lavori e non ai fruitori, devono
conoscerne il linguaggio e i meccanismi. Non si va da sprovveduti,
all’interno di strumenti, immaginando di essere spontaneamente portati,
istintivamente destinati a questa opera. Bisogna avere una preparazione,
occorre essere anche capaci di calibrare i propri interventi. Ricevo
spesso da sacerdoti e da religiosi testi e articoli che desidererebbero
fossero pubblicati sui settimanali o sui quotidiani a cui collaboro.
Ebbene, non hanno neppure vagamente il senso del genere letterario del
giornale, che pure leggono. E immaginano che il giornale sia in grado di
sopportare venti pagine delle loro elucubrazioni. Non hanno neppure il
senso esatto del come si comunica, pur avendo magari dei messaggi degni
di rispetto.
La seconda attenzione
è di non cedere al rischio di un’eccessiva presenza sul mezzo. La Cei
giustamente ha emanato un direttorio per cercare di arginare una certa
presenza di religiosi nei mezzi di comunicazione, soprattutto quelli di
immagine. Una presenza che risulta non di rado mancante di stile
cristiano e di stile umano. Il desiderio dell’esposizione assomiglia
molto, per certi versi, ad una droga. Bisogna essere capaci di
astinenza, bisogna essere capaci di capire che quando si va in certi
programmi, necessariamente il contesto è decisivo e riesce a fuorviare
chiunque, anche chi pensa di andare ad annunciare la Parola. Il contesto
banalizza e certe volte diventa un boomerang nei confronti della persona
che si illude di poter lanciare un messaggio. Saper rinunciare al
programma che ha bisogno della presenza del religioso, per fare notizia,
consci che si può finire triturati e ridotti non dico a presenza di
macchietta, ma certamente che non ha raggiunto lo scopo prefissato.
Preparazione, dunque,
e cautela nel trattare i mezzi di comunicazione di massa”.
Quale il contributo che le persone consacrate possono offrire alla
società attuale?
“Credo che se ci
guardiamo alle spalle la vicenda delle persone consacrate è sempre stata
ritmata, per dirla con l’espressione di un grande teologo morto nei
campi di concentramento nazisti Dietrich Bonhoeffer, su due aggettivi:
hanno annunciato da una parte le realtà penultime e la loro funzione era
quella soprattutto di annunziare le realtà ultime. Le penultime sono
tutte le strutture caritative, i centri di impegno sociale, di amore
verso il prossimo, sulla base del capitolo venticinquesimo di Matteo.
Dobbiamo dire che sicuramente la dimensione penultima, quella che
appartiene alla storia in cui siamo, è sempre stata praticata e deve
essere ancora praticata. Sia pure con l’ormai diversa sensibilità. Ci
sono, infatti, tante persone consacrate che guidano o sono impegnate
nelle strutture ad esempio del settore dell’assistenza sanitaria che
sono davvero all’avanguardia.
Detto questo, però,
ciò che il mondo aspetta da loro è che siano capaci di mostrare il senso
ultimo dell’esistenza. che siano capaci di parlare di vita e di morte,
di bene e di male, di etica. Di presentare degnamente il Vangelo e la
forza trascinante delle Beatitudini. In questa luce, credo che ci sarà
sempre da fare e che sarà necessario un rigoroso esame di coscienza da
parte delle persone consacrate. Per capire se hanno saputo essere, come
disse Gesù, non soltanto lievito nella storia ma anche la città sul
monte, la luce che viene posta sul candelabro e che indica alla fine
direzioni, proiezioni, itinerari che vanno oltre le mode e i modi del
tempo, che vanno oltre ciò che dobbiamo mangiare e bere, cose pur
fondamentali appartenenti alla storia. Per eccellenza, la persona
consacrata è il segno del Regno di Dio ed è questo che deve essere
mostrato in maniera la più trasparente possibile”.
Ritiene che dopo l’undici settembre 2001 anche la vita consacrata e
dunque le comunità religiose hanno risentito del clima che si è creato?
“Forse questa data ha
cambiato molto l’atmosfera e la temperie. Ha cambiato di conseguenza gli
stessi conventi, gli stessi monasteri di clausura, non del tutto alieni
dall’essere attraversati da questa aria che percorrere tutto il mondo.
Può darsi che si sia creato uno stato di tensione maggiore. Credo però
il compito delle persone consacrate in un tempo di paura come l’attuale
sia quello di non cavalcare questa grande tentazione: la paura
dell’altro, il disprezzo dell’altro, cercando di entrare in duello con
il mondo musulmano.
Di fronte
all’insicurezza del mondo attuale spaventato dal terrorismo, il
cristiano e colui che è il testimone di vita consacrata non deve
lasciarsi tentare da questa paura memore della frase di Cristo che ha
vinto il mondo perché soprattutto ha continuato a ripetere: coraggio,
non abbiate paura! È questa, tra l’altro, la frase tipica degli oracoli
profetici. In questa luce, la funzione del credente è quella di essere
testimone di fiducia e di dialogo, capace di scommettere fino all’ultimo
nella possibilità del confronto, prima di estrarre l’arma del duello.
Devo riconoscere che molte comunità religiose hanno fatto e fanno molto.
Dimostrano di essere proprio il segno del Regno che continua con la sua
piccolezza, con il suo essere seme microscopico, ma anche con la sua
fecondità”.
Per essere segni del Regno nella società, secondo padre Thimothy
Radcliffe, i religiosi debbono saper rinunciare a scegliere sempre
l’opzione sicura, accettando la precarietà e la vulnerabilità. Condivide
questa affermazione?
“Una considerazione
che ritengo molto importante e significativa. Affermazione che è poi
alla base dell’autentica struttura della fede. Occorrerebbe mostrarla in
maniera molto più limpida e folgorante. Julienne Green diceva che finché
si è inquieti, si può stare tranquilli. Esiste cioè una inquietudine
agostiniana, una ricerca profonda che è segno dell’autenticità della
propria fede, la quale è continuamente cammino nell’infinito e
nell’eterno di Dio che non si esaurisce mai.
Chi possiede la verità
come se fosse una pietra preziosa racchiusa in uno scrigno ed è quindi
convinto di avere ormai la sicurezza del futuro, non conosce che cos’è
l’autentica fede. Che è quella di Abramo che deve uscire dalla sua terra
e mettersi in cammino verso un paese che non conosce. Come quando sale
dal monte Moria sulla base di un comando di Dio incomprensibile, pronto
a percorrere fino in fondo la salita. O come quando Giacobbe che lotta
con Dio nell’oscurità della notte e ne esce ferito. O ancora come quando
Giobbe continuamente s’interroga sul mistero del dolore che lo pervade o
del male che ci attanaglia e che non si accontenta di spiegazioni di
seconda mano ben confezionate ma continua ad interpellare Dio.
Questa vulnerabilità o
precarietà non è tanto la scoperta che tutti siamo fragili e limitati, è
proprio il senso della relatività delle cose nei confronti della
pienezza del Regno di Dio. Questo non vuol dire perdita però di
sicurezza interiore, non significa assolutamente agitazione o frenesia,
ma avere una pace e una serenità che nasce continuamente dalla ricerca,
che nasce dal cammino, dalla domanda dell’uomo. Una vita senza ricerca
non mette conto di essere vissuta: diceva Socrate nei suoi Dialoghi di
Platone. In questo senso, essere perfetti come è perfetto il Padre vuol
dire avere continuamente questa capacità di camminare vedendo cadere
tanti sogni, tante sicurezze che il mondo offre continuando a cercare
una meta trascendente e come tale, esige che noi abbiamo
ininterrottamente a spogliarci dalle mete che abbiamo già raggiunto
convinti che siano queste quelle definitive. Sono soltanto le tappe
verso la grande rappresentazione finale della Gerusalemme nuova che è
cantata dall’Apocalisse”.
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