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Realtà multietnica
e multireligiosa nell’Europa che cambia, la vita consacrata alla prese
con le nuove frontiere della solidarietà, dialogo interreligioso e nuova
coscienza ecclesiale: sono solo alcune delle direttrici entro cui si
avvierà la riflessione della prossima Assemblea nazionale, la
cinquantaduesima, che si svolgerà dal 30 marzo al 1° aprile a Roma.
Ne abbiamo parlato
con Madre Giuseppina Alberghina, superiora generale delle Suore di Gesù
Buon Pastore e vice presidente USMI al suo secondo mandato.
La
vita religiosa in Italia come si pone di fronte alle sfide che la
società sempre più interculturale le pone?
“Se consideriamo la
vita religiosa in Italia dal punto di vista del cammino dell’USMI e
degli orientamenti che in questi anni ci siamo date, penso si possa dire
che stiamo cercando di rafforzare le radici della fede. Anche
all’interno della vita religiosa. Non soltanto verso i destinatari della
nostra missione, perché noi sentiamo che una società interculturale è
anche interreligiosa. Di qui la consapevolezza che le sfide ci mettono
di fronte a domande così impegnative e da tempo ci siamo accorte che nel
rispondere a questi interrogativi, la nostra identità cristiana risulta
indebolita o debole. Di fronte a questa debolezza, noi non siamo in
grado di rispondere adeguatamente, per esempio alla sfida di una società
che richiede non solo l’inculturazione del Vangelo ma anche
un’evangelizzazione delle culture. Non solo un dialogo, ma una
possibilità di dialogare con identità chiare, senza debolezze e senza
ambiguità. Ad esempio, ci troviamo nei confronti dell’Islam con
un’identità molto chiara, molto forte, visibile. All’interno del mondo
cristiano ci troviamo, a volte, con delle timidezze o delle mancate
chiarezze, che non ci permettono un vero e proprio dialogo.
Abbiamo cercato,
come USMI, in questi ultimi sette–otto anni di andare alla radice della
vita cristiana e dunque della fede. Potrei citare i titoli delle nostre
Assemblee che la dicono lunga su questo: “Quello che abbiamo veduto e
udito, noi lo annunziamo a voi” che fu il tema dell’anno giubilare, il
2000, “Le religiose in un mondo dalle molte religioni”, slogan del 2001.
Poi, ci rendemmo
conto che era importante recuperare il discepolato e nel 2002 dedicammo
al tema della formazione l’Assemblea “In ascolto della sapienza la via
dei discepoli” che a mio avviso è stato uno dei migliori raduni
realizzati per la ricchezza di contenuti e la profondità degli
interventi. Nel 2003 abbiamo allargato lo sguardo verso l’Europa con
“Quale vita religiosa nella nuova Europa” mantenendo l’attenzione
centrata sui fondamenti della vita cristiana e sui modi di rafforzare le
radici della fede. Fino all’anno scorso, dove abbiamo fatto nostro il
percorso indicato dal documento del Santo Padre “Ecclesia in Europa”
fondato sulla speranza, ci siamo interrogate su come rendere visibile
la speranza in un mondo che cambia prendendo l’icona dell’Apocalisse che
è ampiamente citata nel testo papale. Il sottotitolo era “Le religiose
in Italia tra scambio generazionale e mobilità etnica”: queste sono le
due sfide che ancora oggi c’interpellano per la prossima assemblea”.
Ritiene che sta prendendo piede una nuova coscienza ecclesiale di fronte
a queste sfide che le nuove frontiere della solidarietà mettono davanti
alle comunità religiose?
“Mi sembra che, anche se non pienamente
esplicita, sta cominciando a crescere questa coscienza ecclesiale. Mi
riferisco alle religiose, ma ritengo che si possa cogliere anche nel
cammino della Chiesa italiana questa nuova coscienza. Intanto, ci si
rende conto di un popolo che ha bisogno di rafforzare la dimensione
della missionarietà, il tema della parrocchia come luogo dove la fede è
vissuta a contatto con il territorio. Ma per quanto ci riguarda, in
quanto USMI, l’anno scorso già emergeva questa consapevolezza di essere
popolo in minoranza. Sempre più in minoranza. Le nuove frontiere della
solidarietà diventano per noi quella sfida basata sulla capacità di
esprimere solidarietà che sia espressione della carità di Cristo, della
giustizia di Cristo. E non qualcosa di generico.
Direi che ancora sul fronte della fede è
molto importante dire chi è Dio per noi. Non possiamo più parlare di un
Dio generico, che si può chiamare in tanti modi. Come purtroppo prende
sempre più piede nella mentalità corrente. Noi parliamo di un Dio di
Gesù Cristo, che è trinitario, che mette al primo posto la relazione tra
le persone. Il nostro è un Dio personale e la relazione intratrinitaria
è il segno e la fonte di tutte le altre relazioni, anche quella della
solidarietà spicciola e quotidiana. Il Dio-Amore, che dona la vita nella
gratuità e non un Dio di un amore generico, nella libertà della scelta
di Dio. Credo che la libera adesione a Cristo sia una grande ricchezza
da mettere a disposizione della nostra gente”.
La
vocazione all’annuncio e i confini sempre più allargati della nuova
Europa: in che relazione stanno tra loro e in che modo porsi dinanzi a
queste esigenze, in base alla sua personale esperienza?
“La mia modesta esperienza mi fa dire
che in una Europa dai confini sempre più grandi c’è bisogno di una
dilatazione del nostro cuore di consacrate. Perché la vocazione
all’annuncio sia capace di respirare a due polmoni, espressione per
qualcuno logorata ma che per noi assume il significato di conoscere
meglio l’altro polmone. Ad esempio, quello della Chiesa orientale. E non
per sentito dire. Ma con un contatto il più possibile umile, sapiente e
vitale delle altre tradizioni cristiane. Tenendo presente anche come si
sono sviluppate queste tradizioni nelle culture dell’Oriente. Pensiamo
per esempio alla cultura slava. Questo è un compito tremendamente serio,
che non ci può trovare impreparate o superficiali, mi riferisco in
particolare alle superiori maggiori.
Personalmente, è da alcuni anni che
tento un accostamento all’ortodossia, alla sua liturgia, alla sua
riflessione teologica più recente. Sarebbe necessario continuare una
ricerca un po’ più ampia di solidarietà anche con le altre superiori
maggiori, ma anche continuare a seguire l’evoluzione delle Chiese della
Riforma, perché c’è un’evoluzione in atto che coinvolge la vita
cristiana in Europa. È molto importante, alla luce di questo scenario,
conoscere come si sta sviluppando la vita consacrata nel resto del
continente europeo”.
Una formazione al passo con i segni dei tempi sembra essere la parola
chiave per comprendere i mutamenti attuali. Attraverso quali strade e
con quali modalità?
“Il tema della formazione rimane
prioritario e forse mai concluso. Noi riconosciamo che in questo momento
particolare della storia della vita religiosa, sono necessarie alcune
attenzioni per non rincorrere le mode e le novità ad ogni costo. Ciò che
bisogna rafforzare ad ogni costo nelle nuove generazioni e come del
resto in noi più anziane è quella identità cristiana di cui accennavo
all’inizio, perché troppo indebolita ed incapace di discernimento. Cioè
di sapersi orientare tra le mille proposte formative. A me pare che la
strada da percorrere rimane quella di, nella formazione iniziale,
aiutare ad assimilare il cibo solido dei dogmi cristiani. Chi non è
passato da Calcedonia, dai grandi concili e non li ha masticati leggendo
i padri della Chiesa, lasciandosi alimentare dalla fede che ha
commentato i dogmi, non può dire di aver curato bene la formazione.
Rimango sempre molto preoccupata di
fronte a certi programmi formativi che ancora rincorrono le parole di
moda, ma difficilmente attingono a questo patrimonio. Quanto alle
modalità, mi sembra che la centralità della parola non si può
disattendere perché nella formazione i giovani futuri consacrati
sappiano stare con quella profondità sulla Parola come prima di loro
hanno fatto i padri e i Santi. Come questi ultimi hanno pregato e
filtrato nella loro vita la Parola di Dio, come l’hanno commentata i
grandi maestri dello Spirito, come l’hanno vissuta le generazioni di
religiosi e di credenti che ci hanno preceduto.
Credo che sia
molto importante intendersi sulle modalità. Ormai, anche all’interno
dell’USMI non riusciamo più a dare una formazione che si basato su di un
semplice passaggio di contenuti pur elevati, ma ci rendiamo conto della
necessità di passare ad una sorta di mistagogia, intendendo cioè la
capacità di accompagnare i giovani alla relazione con Dio e a maturare
sempre più liberamente nello stile della libertà cristiana che diventa
un modello per l’apostolato. Mi pare anche che l’iniziazione alla
sequela nel dono di sé senza condizioni richiede di dare ai giovani
religiosi un livello alto di cultura e una profondità spirituale. Sono
questi i due pilastri che ci permetteranno di affrontare le sfide del
futuro.
Per quanto
riguarda noi più mature, dovremmo già avere questo costume di affrontare
i problemi nella profondità. Certe volte mi interrogo sulle letture
delle religiose e sulle ragioni che ci sono dietro i loro studi. Se lo
fanno per assimilare e alimentare la loro mentalità di fede o per
raggiungere un titolo. E poi ancora, mi chiedo quali siano gli argomenti
di conversazione. E su come leggono un giornale, come vedono un film, in
che misura sono capaci di discernere”.
Come collocare la 52.a Assemblea nel cammino dell’USMI?
“E’ in
continuazione con le precedenti Assemblee ed in particolare con l’ultima
perché rimane come sottofondo quest’orizzonte della speranza in un mondo
che cambia, ma continuando il tema del discernimento sul fronte di due
grandi sfide che abbiamo voluto mettere a fuoco e che sono anche
l’oggetto di due forum, che ci offrono l’opportunità di interloquire con
le superiori maggiori. Il primo riguarda la grande sfida
dell’invecchiamento, che coinvolge tutta l’Europa, e ci permette di
ripensare il dialogo e lo scambio intergenerazionale. La diversità tra
le generazioni non si gioca solo sul piano dell’età, come poteva essere
quarant’anni fa, adesso è anche etnica, filosofica e culturale.
All’interno di una comunità religiosa, come anche nella società,
l’interscambio generazionale assume queste variabili che richiedono
grande sapienza spirituale. Il secondo forum è incentrato sulla mobilità
etnica, e di qui si affronterà anche la questione della società
multireligiosa, diretta conseguenza della prima.
Ci siamo chieste
durante il Consiglio di Presidenza se, in presenza di questo scenario di
invecchiamento crescente, sia possibile l’annuncio del Vangelo. Se le
religiose anziane o ammalate possano partecipare attivamente ad
alimentare la fede e testimoniare come ci si prende cura dei vecchi.
Come si entra in relazione feconda di vita con il diverso, con chi
professa un’altra religione. Noi possiamo fare questo. Di conseguenza,
dobbiamo rendere forte la speranza”.
Quali sono i contorni del nuovo volto della vita religiosa in Italia,
alla luce di queste nuove sfide rappresentate dalla multiculturalità e
dalla mobilità etnica?
“Il nuovo volto
della vita religiosa si vede già dai colori della pelle. Basta andare
nelle nostre comunità e vedere il volto variegato che riflette anche
quello delle nostre parrocchie e comunità ecclesiali. Che non è solo
dovuto al colore della pelle, ma anche espressione di questo momento di
incontro di popoli nel nome di Cristo e al servizio del Vangelo. Anche
qui però una delle cose più difficili è prestare attenzione a che il
volto non diventi così indefinito e sfumato da non potersi più
riconoscere. Con questa affermazione intendo dire che quando la vita
religiosa si mette a fare quello che altri meglio di noi, è destinata a
perdere su tutti i fronti”.
Questa sensibilità che sta crescendo oggi nelle congregazioni religiose
tiene conto anche della sfida legata alla crisi di vocazioni e
dall’innalzamento progressivo delle età delle religiose?
“Ne stiamo tenendo
molto conto. Ma non in modo angosciato. Prima di tutto, perché è vero
che la mancanza di vocazioni native in Italia come in Europa è una
grossa umiliazione per la fede cristiana, non solo per la vita
religiosa. È una grossa umiliazione per la Chiesa. Però questa
umiliazione desideriamo accoglierla come un momento di purificazione,
come una sosta per rivedere il tipo di vita religiosa che abbiamo messo
in piedi in questi quarant’anni dal Concilio Ecumenico Vaticano II.
Abbiamo percorso un bellissimo cammino di aggiornamento, ma forse non ha
toccato i fondamenti. L’innalzamento progressivo dell’età delle
religiose ci chiederà uno sforzo di creatività in modo che la dignità
della vecchiaia e la dignità del morire sia una dignità visibile per
tutto il popolo, sia cristiani che non. Ma anche perché noi possiamo
aprire alla speranza della vita eterna, questo è il nostro compito, sia
che viviamo sia che moriamo. Siamo di Cristo e morire per rinascere
dall’alto: se sappiamo morire in modo pasquale certamente la vita
religiosa si servirà di questa nostra morte per rinascere”.
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