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English version
Vicepresidente
USMI per la Lombardia e Superiora provinciale dell’Istituto Suore
Maestre S. Dorotea per la Provincia Lombardo-Tirrenica. È suor Fernanda
Barbiero, autrice di diverse
apprezzate pubblicazioni tra cui “La verginità consacrata e i valori
della femminilità nella Mulieris Dignitatem”, “Agostino di
Ippona: l’uomo e la passione della Verità” e “L’Opera di Santa Dorotea:
profezia nella comunità ecclesiale e nella realtà culturale di oggi”.
Suor Fernanda Barbiero è nota anche per l’attività di docenza che ha
svolto in passato presso la Pontificia Università Urbaniana e la
Pontificia Università di Scienze dell’Educazione “Auxilium”. Ha
all’attivo numerosi e qualificati interventi come relatrice in occasione
di conferenze su temi pastorali,
ecclesiologici, sulla questione femminile, sulla pastorale e
sulla spiritualità familiare in
occasione di diversi convegni in Italia e nell’Europa dell’Est. E’ da anni membro qualificato del Consiglio di redazione
della rivista dell’USMI nazionale Consacrazione e Servizio, per
la quale ha scritto valide collaborazioni.
A lei, che ha guidato sessioni formative
e seminari di studio in varie Congregazioni religiose offrendo contributi di
riflessione sui temi della Vita Religiosa Femminile, abbiamo
rivolto alcune domande sulle linee programmatiche emerse a conclusione
dei lavori della 51.esima Assemblea Generale dell’USMI.
Il
dialogo intergenerazionale come scelta formativa… Cosa le suggerisce
questa opzione se letta anche in chiave multireligiosa e interculturale?
Il discorso vale a
tutti i livelli, vale all’interno delle famiglie, vale per i rapporti
sociali, acquista un significato particolare nella Chiesa e - oggi più
che mai - si allarga con urgenza alla vita religiosa. Il dialogo esige
un supporto formativo perché non vive di improvvisazioni, né di
pressappochismo. Il dialogo porta a verità il desiderio di incontro con
quanto di più vero e autentico avviene nel profondo della persona. E’
fatto di ascolto attento e paziente di culture diverse, della capacità
di intuire la potenzialità per realizzare “un cuor solo e un’anima
sola”, per camminare insieme, con la rara attitudine di affiancarsi
nel cammino senza imporsi, senza sovrapporsi. Il dialogo indirizza alla
gratuità dei rapporti, all’apertura di orizzonti nuovi, alla presa in
cura amorevole dell’altro, a non aver paura del diverso e soprattutto
ad assumere, con coraggio, la sfida dell’identità.
La vita consacrata
è il luogo teologico del dialogo con Dio e con gli uomini. Ogni
tentativo di rinnovamento o di rifondazione della vita religiosa domanda
di anteporre ai progetti personali, alla vita centrata su se stessi e
sull’autopromozione una vita che contenga in sé il senso della “vocatio”,
l’uscire da se stessi, mettersi in relazione, in ascolto, in dialogo
- esattamente - in comunione consapevoli della necessità dell’altro
come necessario completamento di sé. Il dialogo matura la voglia
di stare in ricerca, compagni delle fatiche e del cammino della vita
dell’uomo del proprio tempo. La ricerca dell’essenziale della
vita religiosa conduce ad ascoltare, compatire, accompagnare,
condividere. A me pare che non si possa eludere la centralità dell’insieme,
il seme santo della comunione. E’ insieme che troveremo la pienezza
e la bellezza della verità, ed è insieme che raggiungeremo la salvezza.
Lo esprimeva poeticamente Paul Eluard:
“ Non verremo alla meta ad uno ad uno
ma a due a due.
Se ci conosceremo a due a due,
noi ci
conosceremo
tutti, noi ci ameremo tutti e i figli un giorno rideranno
della leggenda nera dove un uomo lacrima in solitudine”.
In questo senso, l’Anno Eucaristico che stiamo vivendo può rappresentare
uno stimolo appropriato solo se vissuto con quale atteggiamento, a suo
avviso?
Il tema
dell’Eucaristia è di una vastità spirituale immensa, densa di
significati. E’ il mistero che fa la Chiesa. L’Eucaristia è il
senso della vita e della storia come è la fonte e lo stile della vita
religiosa. Occorre non dimenticarci della storia, ma
appropriarci della sua radice e del suo compimento per imparare a
custodire non solo la fede, ma la vita umana. Anzitutto suggerirei l’
importanza di lasciarci educare dall’Eucaristia.
L’Eucaristia “pane
spezzato e vino versato” è il prezzo pagato per la salvezza del
mondo. Il dialogo è un valore e una sfida; il dialogo domanda di “pagare
un prezzo”. Questo atteggiamento in realtà oggi non è facile. La
parola dialogo nessuno vorrebbe smentirla o contraddirla. E tuttavia
sovente non solo non è facile mettersi in dialogo, ma esso costituisce
un autentico percorso ascetico, un atteggiamento preciso, frutto di
un profondo lavorio, e per esso si rivela spesso insufficienti
l’entusiasmo del cuore e la spontaneità. Il dialogo richiede una
povertà che esclude ogni autosufficienza e che afferma una kenosis,
dimensione immanente all’Eucaristia. “Sì il dialogo
percorre questa traiettoria: inizia quando due uomini, incontrandosi, si
inchinano l’uno davanti all’altro e sono disposti un giorno a lavare i
piedi l’uno dell’altro…” (E. Bianchi ).
Infine la vita
religiosa intesa come spazio eucaristico, esprime l’importanza della
preghiera forma alta di dialogo nello Spirito. Talvolta viene da
chiedersi se la vita religiosa sa ancora lasciare posto all’azione
Spirito, se ha il coraggio di aprire le porte allo Spirito Santo che
solo crea unità e abbatte i muri della divisione, se obbedisce allo
Spirito che domanda di “ allargare lo spazio della propri tenda”
(Isaia 52, 7). A confrontarsi nello Spirito, si diventa spazio di pace,
di ricostruzione di rapporti, si diventa concreto luogo di carità
fraterna in cui è dato di conoscere l’amore di Dio e di farne
l’esperienza… e, proprio qui, nel suo rapporto con la carità, si gioca
la missione della vita religiosa.
Nel suo Istituto che tipo di situazione si vive sul piano delle
opportunità interculturali e multireligiose?
Anche il mio Istituto si trova oggi in una situazione nuova di “diminutio”
e di “pluralismo” culturale ed etnico. Si trova a dover assumere un
volto nuovo “ad
allargare la sua tenda”
(Isaia 52,7) e non per strategia di sopravvivenza, ma per fedeltà al
vangelo. Siamo rimaste a lungo piuttosto chiuse nel nostro mondo. Oggi
l’apertura ad altri Paesi ci trova a rischiare la Parola del Vivente che
ha vinto la morte e ha liberato gli uomini, dal male, dalla paura e
dall’angoscia. Ora che i numeri vanno riducendosi ci troviamo nel cuore
e negli occhi la luce di mari lontani, e apriamo a orizzonti di
speranza. Gesù si è compiaciuto chiamare i suoi discepoli “piccolo
gregge”
(Lc 12,32). Il discepolo è efficace solo quando “annuncia
la parola della croce”
(1Cor 1,18), quando si fida della forza della carità e non quando
brama una visibilità ad ogni costo, una sovraesposizione nella
società, una capacità di pressione.
Non possiamo pretendere esenzione dal presente storico. Portiamo avanti
la missione in modalità di depauperamento. Sono convinta che proprio
questo è il momento del dilatarsi della comunione a tutte le culture.
La dimensione della povertà è creatrice di comunione. Proprio perché
povere possiamo incontrare altri poveri, condividere e offrire ad altri
popoli quello che siamo. In sintonia con il desiderio del Fondatore Don
Luca Passi stiamo allargandola in tutte le nostre possibilità l’Opera
che ci è stata affidata, non riducendola ai territori occidentali
ricchi di beni e poveri di anima. Stiamo dialogando con le nuove
generazioni per aprire al grido dei poveri del sud e dell’est del mondo
le nostre risorse. La missione della suora Maestra di Santa Dorotea si
concentra nel comando del vangelo “Va’ dal fratello digli la parola”
(Matteo 18, 15 – 18). Ci stiamo attivando a portare al mondo la
Parola senza pensarla come parola nostra. Penso che dobbiamo
pronunciarla in ginocchio perché, noi per prime, discepole del Signore,
siamo tenute all’obbedienza a questa parola del Vangelo.
Nella sua relazione, madre Simionato ha messo in evidenza che “la
presenza elevata di sorelle provenienti da altri Paesi e il loro
servizio all’interno delle nostre congregazioni, sembra più legata a un
problema di ridistribuzione delle risorse che a dei progetti pastorali
veri e propri”. E ha sottolineato quanto sia importante “leggere questo
fenomeno ad intra, senza isolarlo dal fenomeno della mobilità etnica
presente in Italia”. Condivide questa affermazione? E quali soluzioni
suggerisce per un vero confronto basato sulle differenze e sulle risorse
di ognuno?
Penso che la situazione presenti segnali di ambiguità. Nel panorama
delle Congregazioni si evidenziano fenomeni che annunciano
prospettive ed esiti molto diversi. Ci sono Congregazioni con una
lunga esperienza di presenza in Paesi stranieri in cui la presenza di
sorelle di culture e di razze diverse ha attraversato un processo di
integrazione ben riuscito. In genere sono grandi Congregazioni
religiose in cui la globalizzazione sembra ormai un dato di fatto che
tende a realizzare rapporti senza confini. Altre invece hanno una
recente e ancora acerba esperienza in Paesi di “missione”.
Certo, la presenza di sorelle proveniente da altri Paesi richiama lo
straniero nella società e nella chiesa.
Ci fa evocare inevitabilmente il problema dell’accoglienza degli
immigrati, degli stranieri che sono tra noi. E che sono portatori di una
tale diversità – di lingua e razza, di cultura e di religione, di
costumi e di etica, che può lasciarci smarriti e farci sentire
impreparati ad accoglierli. Il problema è più interiore: lo straniero
è l’altro. Anzi, più radicalmente, l’esperienza umana ci mostra che
straniero è l’uomo a se stesso.
La condizione umana è posta sotto il segno della stranierità. Ciò
significa che tutti ci troviamo a vivere la provvisorietà e la
transitorietà degli assetti culturali; a capire che la verità non è un
possesso proprio da imporre agli altri, ma che essa eccede tutti. Così -
al discepolo del Signore - sono preclusi tutti gli atteggiamenti di
arroganza mentre è caratteristica del discepolo sceglier,e come il
Maestro, la compagnia degli uomini. Compagnia significa raggiungere la
persona là dove è, significa incontrare il fratello con simpatia e con
amore, implica l’avere pazienza, lo stare in posizione di sostegno,
partecipando alla pazienza di Dio, pazienza che attende e che “non
vuole che alcuno perisca”.
Questo è il compito dei discepoli impegnati nella comunicazione della
fede insita nella testimonianza cristiana. La sequela del Signore Gesù
non consiste in una organizzazione.
La fede non è capace di elaborare una cultura adatta per tutti, la fede
non è omologazione. La fede non genera progetti ideologici in
concorrenza con quelli elaborati dagli uomini, ma guarda il volto delle
culture accompagnandole e aprendole all’incontro con il Signore Gesù
Salvatore degli uomini tutti. La fede è sempre qualcosa di ecclesiale,
comunitario, ossia una realtà che non si consuma né in salotto, né in
piazza, ma in un luogo d’incontro dove ognuno può vedere il volto
dell’altro. La situazione della multiculturalità, vale a dire
il pluralismo culturale, non quello generico che ammette un formicolio
di prospettive, ma quello profondo che sorprende qualsiasi progetto,
qualsiasi linguaggio, qualsiasi grammatica, qualsiasi comunicazione è
una occasione eccezionale di confronto e di sviluppo. Qui “l’altro”
non è una delle tante forme in-differenti, ma la differenza che lo rende
unico,
portatore di possibilità, che possono essere l’inedito, il sorprendente,
l’incontenibile. Qui la fede ritrova l’essenza di se stessa, ossia l’inomologabile
Mistero da cui nasce e a cui tende.
Le religiose esprimono un vitale ed intimo rapporto con la comunità
ecclesiale in tutta la complessità delle reciproche esigenze. In un
contesto in continuo cambiamento, tutto ciò che richiede flessibilità e
capacità di leggere i segni dei tempi che le religiose hanno saputo
incarnare in ogni ambito?
La prima cosa da fare è quella di aiutare la vita religiosa a vedersi.
Occorre cominciare ad analizzare le contraddizioni che soni dentro la
vita religiosa. Non ci vuole molto a costatare la nostra andatura
religiosa, l’incedere di fronte al mondo “religiosamente”
come se la nostra vita fosse un organismo sano, mentre è un organismo
che ha bisogno di cure. Tuttavia io sono convinta che oggi ancora è
possibile alla vita religiosa giocare il suo compito profetico. Una
spiegazione soltanto fenomenologica, sull’oggi che viviamo, non è
sufficiente. Non si coglie il mistero che sta sotto, come fuoco sotto la
cenere. La Chiesa, per intima costituzione, è essenzialmente riforma,
aggiornamento: “Ecclesia
semper reformanda”.
In essa, nonostante i limiti, c’è quel fuoco che Gesù è venuto a portare
sulla terra e, a partire dal quale, si spera che divampi prima o poi un
nuovo incendio di Vangelo (Lc. 12, 49). In questa situazione, si sente
l’esigenza di una nuova missionarietà, l’urgenza dell’annuncio
del Vangelo, del dialogo con la cultura, come pure del potenziamento del
dialogo ecumenico e di quello interreligioso. Indubbiamente l’attenzione
ai segni di tempi e a temi di grossa attualità come quelli della
giustizia e della pace implica la presenza di una chiesa più vivace e
più vicina alla gente.
L’attenzione al “territorio”
rappresenta – in questi ultimi tempi - un salto di qualità, che rende
molto concrete le riflessioni maturate in questi anni e le coniuga
dentro una notevole capacità di flessibilità, evita il pericolo di una
fede disincarnata. Quello che va cambiato non è la fede, ma il modo
di viverla. Il territorio il luogo fondamentale di incarnazione,
perché solo dentro il territorio la Chiesa può diventare luogo concreto,
per non evadere dalla realtà e soffrire la carità dentro la storia.
La vita religiosa necessita, oggi più che mai, di scendere a confronto
con la storia. Essa implica un atteggiamento attivo, necessario
dentro un’epoca di indebolimento delle appartenenze. Oltre ai grandi
progetti, c’è bisogno di opzioni e impegni etici quotidiani, che
aiutino a superare le necessità e a trasformare le strutture nelle quali
nessuno si senta straniero, ma dove tutti siamo chiamati ad essere o
diventare concittadini dei santi e familiari di Dio. La vita religiosa
all’interno della Chiesa sente di dover sperimentare l’umiltà di
camminare tra problemi nuovi e, se agli uomini deve annunciare le novità
di Dio, dovrà farlo nella condivisione con la vita di tutti. Questa
condivisione con il mondo, allora, diventa fondamentale non solo per
avere una qualche speranza
di futuro ma soprattutto per la riscoperta teologica della realtà che ci
sta dietro.
La comunità religiosa è chiamata ad essere nel territorio come luogo di
senso.
Questo processo richiede importanti passaggi… tra l’altro oggi ci viene
chiesta la capacità di una comunione spirituale fraterna per lo più
inedita. Troppo sovente la comunità religiosa è stata sentita o come
luogo dell’apostolato. Si identificava la comunità con l’opera. La
persona era vista per l’opera, in funzione di essa. C’è una conversione
da mettere in cantiere. La comunità religiosa deve tornare ad essere
luogo di vita e di speranza, di relazioni fraterne che costruiscano
speranza, rapporti umani veri, in cui possa scorrere e circolare il
comandamento dell'amore reciproco. E questo perché la comunità
religiosa non sia una comunità chiusa, ma una comunità aperta,
dialogante, non solo chiamata alla misura alta della vita cristiana:
essere santa, ma anche a essere vista come santa. Un segno se esiste si
vede. La mancanza di visibilità contraddice la natura del segno.
E’ indispensabile “per le persone consacrate approdare al coraggio di
essere sempre più Chiesa per essere se stesse in modo chiaro e
definitivo”. Come tradurre questa affermazione nel quotidiano dialogo
con il mondo, così come indicato dal Concilio Vaticano II.
Il nostro è un tempo di grande creatività. Nuove congregazioni
religiose, nate specialmente in Africa e in Asia, cercano di inculturare
la vita religiosa in società diverse dalla nostra. E questo sarà una
nuova, meravigliosa ricchezza. Ci sono anche nuovi modi di appartenere a
ordini religiosi, nuovi gruppi di laici che condividono la vita e la
missione delle Famiglie religiose. E’ vitale per la Chiesa la vita
religiosa. Ma porrei la domanda in questa direzione: vita religiosa
per quale Chiesa? A nessuno sfugge come sia proprio la vita
religiosa quella che maggiormente risente del mutamento epocale che ha
investito la Chiesa: la crisi delle vocazioni, l’invecchiamento dei
membri e la difficoltà di una sua lettura teologica e di collocazione
nella Chiesa l’hanno resa debole e poco eloquente. Ricordo quanto diceva
fratel Enzo di Bose: “Occorre
dunque che alla vita religiosa la Chiesa presti attenzione: la sua
perdita, o una sua presenza non più significativa, di fatto muterebbe il
volto della Chiesa cattolica, impoverendola. Mentre nelle Chiese
ortodosse si rivela sempre più viva e determinante per la vitalità
spirituale dell’insieme della Chiesa, sovente nella Chiesa cattolica la
vita religiosa pare trascurata, quasi confinata tra i tesori del
passato, come suppellettile preziosa ma da antiquariato”.
La dimensione ecclesiale della vita religiosa,
Giovanni Paolo II (nel Discorso alle Religiose fatto a Washington) l’ha
messa a fuoco in modo inequivocabile. Il pensiero del Papa suona così:
La vita religiosa sta in un rapporto profondo con la Chiesa La vita
religiosa non è fine a se stessa, ma è nella Chiesa e per la Chiesa.
Il legame di unione con la Chiesa deve manifestarsi nello spirito e
nell’impegno apostolico di ogni Istituto Religioso, poiché la fedeltà
a Cristo, soprattutto nella vita religiosa, non può essere mai separata
dalla fedeltà alla Chiesa. La fedeltà alla Chiesa ha molte
importanti conseguenze sul piano pratico per gli Istituti stessi e per
tutti gli individui che ne fanno parte. Esso implica, ad esempio, una
maggiore testimonianza pubblica al Vangelo soprattutto per chi
rappresenta, in modo speciale, come le religiose, il vincolo nuziale
fra la Chiesa e
Cristo.
La
dimensione ecclesiale richiede inoltre, da parte degli individui e di
tutti gli Istituti, la fedeltà ai carismi che Dio ha dato in
origine alla sua Chiesa, attraverso i Fondatori. Significa che gli
Istituti sono chiamati a continuare a promuovere, con fedeltà dinamica,
quegli impegni che fanno riferimento al carisma originario, che è stato
autenticato dalla Chiesa, e che soddisfa importanti necessità del
popolo di Dio. Non é difficile riconoscere che la vita religiosa è al
centro della Chiesa. Personalmente mi piacerebbe – giorno - scrivere
qualcosa come … vita religiosa: per una mistica ecclesiale. La mistica
genuina che non isola ma immerge, non estranea, ma irradia, non è una
gemma, ma seme fecondo.
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