LA VITA CONSACRATA
NELL'ATTUALE
CAMMINO DELLA CHIESA

        
nelle parole di Marinella Perroni


Rita Salerno (a cura di)


 

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Docente di Nuovo Testamento nella Facoltà di Filosofia e nella Facoltà di Teologia presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma, Presidente del Coordinamento Teologhe Italiane, membro del comitato scientifico di Biblia (Associazione laica di cultura biblica) e membro del CdA della Società Biblica in Italia. Marinella Perroni è autrice di numerosi saggi scientifici sulla questione delle donne negli scritti neotestamentari, di saggi di esegesi e di teologia in diverse opere collettive. Recentemente ha curato Donne e tradizione della fede in Italia: l’apporto di una teologia di genere, Atti del I Convegno nazionale del Coordinamento Teologhe Italiane, svoltosi a Roma il 27 marzo 2004. A lei abbiamo rivolto alcune domande su temi che saranno al centro della riflessione ecclesiale nei prossimi mesi.

E’ stato di recente presentato l’Instrumentum Laboris del Sinodo dei Vescovi in programma in Vaticano dal 2 al 23 ottobre prossimo sul tema “L’Eucaristia: fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa”. Il documento chiave dell’assise sinodale punta a migliorare “la conoscenza del mistero eucaristico”. Da questo punto di vista, a suo giudizio, la situazione italiana come si presenta?

Il cattolicesimo italiano è molto cambiato in questi ultimi vent’anni. Negli anni 70-80 il nostro paese poteva contare su diverse generazioni di credenti che avevano preso la fede sul serio anche dal punto di vista dell’approfondimento biblico-teologico e per i quali l’appartenenza ecclesiale comportava una partecipazione attenta e qualificata. In quel clima, era impensabile una pratica dei sacramenti e, soprattutto, dell’eucaristia che non comportasse consapevolezza prima che sentimentalismo. Era stata la risposta all’uscita dall’epoca della precettistica. Oggi, invece, si preferisce usare i registri dell’affettività, si confonde mistagogia con fumosità, ci si accontenta di una partecipazione liturgica a basso costo: basta che gli indici che rilevano la pratica religiosa salgano. Se poi i fedeli prendono parte a qualcosa di cui non capiscono il senso e, soprattutto, se questa partecipazione non comporta per loro in nessun modo l’assunzione in solido della corresponsabilità ecclesiale, poco male.

Paradossalmente, però, in questo modo abbiamo certamente contribuito ad ingrandire le file del pellegrinaggio e del turismo religiosi, c’è una rincorsa agli eventi di massa che si moltiplicano, ma le domeniche sono disertate e le chiese sono vuote. I decenni che ci stanno alle spalle ci hanno insegnato che, se riduce l’eucaristia a pratica devota, per esempio sganciandola dall’attento e continuo studio della Parola di Dio, la chiesa prima o poi paga un prezzo altissimo. Perché, come dice Paolo ai cristiani di Corinto, eucaristia e chiesa sono l’una speculare all’altra. Purtroppo, la tentazione di fare dell’eucaristia il culmine della devozione invece che il culmine della vita ecclesiale, è ricorrente anche nella chiesa italiana. Perché crea illusioni, e in un tempo che richiederebbe invece una grande capacità argomentativa, relazionale e creativa, le illusioni sono utili.

Il testo rileva “un certo allentamento della vita pastorale dall’Eucaristia”, ma anche la “grande sproporzione tra i tanti che fanno la Comunione e i pochi che si confessano”. Una situazione che chiama in causa anche l’Italia. In questo senso, cosa è possibile fare per invertire la tendenza in atto e quale contributo possono giocare le religiose impegnate nella vita parrocchiale?

Francamente, mi sento di dire che non si sa se è peggio il malanno o la medicina che si invoca.  Tendenze di questo tipo non si possono invertire! Certo: la consuetudine non fa la legge e non è detto che un comportamento, anche religioso, dato che si diffonde deve diventare automaticamente normativo per la pratica della fede.  Il problema però è un altro. Difficile da sintetizzare in poche battute e, per questo, speriamo che i padri sinodali siano capaci di affrontarlo frontalmente, per ciò che significa e per ciò che comporta, senza nostalgie e con grande senso del reale.  Il  vincolo che legava la piena partecipazione all’eucaristia al sacramento della riconciliazione si è rotto e non è detto che questo non possa essere  anche un fatto salutare.

Per i singoli credenti, che devono uscire da pratiche sacramentali condannate a un certo meccanicismo, che hanno il diritto di riscoprire il vero valore del sacramento della penitenza in tutto il suo spessore evangelico, che hanno il bisogno di un’iniziazione alla fede che non può avvenire nelle piazze o negli stadi, ma neppure nelle conventicole elitarie.  Soprattutto, però, per la Chiesa, che deve imparare ad ascoltare e soprattutto a decifrare i messaggi che vengono dai credenti, dai loro bisogni come dai loro disagi, e che non deve aver paura di se stessa quando intraprende strade di ripensamento e di novità. Quanto viviamo oggi è una conseguenza di un fenomeno che non siamo stati capaci di prendere veramente sul serio ieri. Paolo VI aveva tentato, proponendo una seria, anche se iniziale, riforma della prassi penitenziale della Chiesa cattolica. Chi ne ha avuto paura non è stata la massa di fedeli, che alla fine hanno deciso di fare come si sentono di fare, ma è stata la Chiesa stessa. D’altro canto, non si può da una parte cedere a tutte le lusinghe della religiosità di massa, chiamata ancora nostalgicamente religiosità popolare, e dall’altra rimpiangere il privatismo della vita religiosa ereditato dai secoli precedenti.

La vita religiosa oggi si trova a vivere tempi di grandi cambiamenti attraversati da sfide complesse. In particolare, le religiose sono in intimo rapporto con la comunità ecclesiale, alle prese con una società dai segnali contrastanti. Come presentarsi, dunque, a suo avviso, per essere testimoni credibili di Cristo e speranza di un mondo ancora non pacificato?

Può sembrare sciocco, ma vorrei provare a rispondere a questa domanda,  che in realtà richiederebbe ben altre analisi e diagnosi, attraverso un’immagine: l’abito. Se io dovessi fare un sinodo sulla vita religiosa porterei a tema solo questo: l’abito. Cosa è successo in questi anni? Da questo punto di vista, vivere a Roma offre una prospettiva assolutamente unica. So benissimo che in giro per il mondo non è così. Ma mi sembra che quello che si vede qui, per le strade più ancora che dentro i conventi, abbia un valore altamente indicativo in quanto rappresentazione dei problemi seri, direi serissimi, con cui è chiamata oggi a confrontarsi la vita religiosa. Che vanno dalla selezione (che sembra non esserci più!) dei candidati fino alla gestione della intergenerazionalità all’interno dei conventi, dall’invecchiamento esponenziale delle comunità fino all’emorragia silenziosa quanto inarrestabile di vocazioni, dalla conflittività interna, tipica dei luoghi senza futuro, fino all’illusione che induce a considerare risolutive le toppe sul vestito vecchio. 

E, paradossalmente, i giovani preoccupano quasi più degli anziani. Se qualche regista avesse il tocco magistrale per fare, con intelligenza critica e garbato buon senso, un film sulle vicende dell’abito religioso che, evidentemente, è il più “ideologico” di tutti gli abiti, ci obbligherebbe a capire che in esse è racchiusa la storia della chiesa dell’ultimo mezzo secolo. Con tutto il suo travaglio. Non vorrei forzare troppo, ma l’abito dei religiosi è un’icona della Gaudium et spes, cioè di come i religiosi capiscono e vivono il rapporto della chiesa con il mondo.  

La presenza sempre più multietnica e multiculturale nelle congregazioni femminili è certamente da leggere come una risorsa. Tanto più oggi che il fanatismo religioso tenta di prevalere con la logica degli attentati in Europa. Ma in che modo valorizzare questa risorsa concretamente?

Insegno in una università pontificia. In una classe di 23 studenti sono rappresentate 19 nazionalità. Quando mi guardo intorno, soprattutto quando vedo gli studenti parlare tra loro, mi dico che la chiesa cattolica è oggi uno di quei laboratori in cui si sta preparando il futuro. Dell’umanità, non solo della chiesa.  Questa parabola di multietnicità e di multiculturalità ha infatti un valore aggiunto che può dire qualcosa a un mondo che vive le doglie della  globalizzazione.  A volte non so però se ce ne rendiamo abbastanza conto. Il nostro “valore aggiunto” sta nel fatto che possiamo testimoniare che la difesa della continuità di una tradizione bimillenaria è possibile soltanto accettando pluralità e integrazione, delle culture, dei generi, delle prospettive, dei bisogni. “Mi sono fatto giudeo con i giudei, pagano con i pagani per conquistare tutti a Cristo”, diceva con grande sapienza apostolica Paolo. Non si tratta di garantire la sopravvivenza dei nostri ordini o delle nostre case religiose con l’immissione di religiosi/e di altre nazioni e culture. Si tratta di favorire un’assimilazione che produce un’identità inedita, che innesca meccanismi di creatività e di libertà, che ha il coraggio, più che di sperare di perpetrare il passato, di guardare al futuro.

La pace e la riconciliazione sono stati l’obiettivo lungamente desiderato e mai raggiunto da Papa Giovanni Paolo II. Non sono mancate, in questo senso, iniziative di sensibilizzazione. Ma, da questo punto di vista, non va dimenticato il contributo tutt’altro che modesto offerto dalle comunità religiose alla pacificazione. Su questo aspetto, ha una sua opinione e magari anche un’esperienza che l’ha colpita particolarmente?

Credo che le comunità religiose, non diversamente dalle comunità familiari, debbano testimoniare innanzi tutto la dura disciplina della pace. Perché la pace, quella vera, chiede disciplina: obbedienza alla realtà, rispetto delle diversità, scelte di libertà. Solo in questo modo le fraternità religiose possono essere davvero  comunità di uomini e di donne che credono nel Risorto. E’ vero, poi, che c’è una dimensione storica e politica della pace che è divenuta anche per i cristiani un valore irrinunciabile. Da una parte, le guerre da più di un secolo hanno cambiato volto e sono diventate stragi di civili inermi. D’altra parte, grazie allo sviluppo della logica dei diritti umani, la vita individuale è divenuta valore in sé. Da questo punto di vista, Giovanni Paolo II, fronteggiando con fermezza la richiesta di legittimazione della guerra, ha imposto al mondo cattolico di uscire allo scoperto.

C’è stata e c’è su questo punto, inevitabilmente, una certa divisione tra credenti e i primi a non accogliere l’appello e il monito del papa sono stati, a volte, proprio dei cattolici. Inevitabile, forse, data la complessità e l’ambiguità che connotano ogni scelta e ogni azione umana individuale e collettiva. Meglio divisi, però, che inerti, meglio perplessi che sicuri di sé. Il giorno delle grandi manifestazioni per la pace, il 15 febbraio 2003, vedere, tra la moltitudine, anche religiosi e religiose è stato un fatto importante. Non perché avessero ragione quelli scesi in piazza e torto quelli rimasti a casa, ma perché la sera, dopo la manifestazione e nei giorni successivi e ancora oggi di fronte ai lugubri telegiornali quotidiani, nelle case religiose e nei conventi, le comunità sono costrette a scegliere: o far finta di niente chiudendosi ciascuno in un silenzio ipocrita o addestrarsi con coraggio alla disciplina della pace.

 

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