Organizzato dalla Congregazione per la Vita consacrata e le
Società di Vita Apostolica si è tenuto in Vaticano (26-27 settembre
2005) il Symposium sul tema: 40° Perfectae Caritatis. Bilancio e
Prospettive della Vita Consacrata.
Oltre 250 religiosi ed esperti arrivati da tutto il mondo si
sono riuniti nell'Aula sinodale per riflettere sul rinnovamento della
Vita Consacrata a partire dal Documento conciliare Perfectae Caritatis.
Riportiamo una breve intervista a p. Amedeo Cencini,
sacerdote canossiano, psicologo e formatore,
docente di pastorale vocazionale e di metodologia della direzione
spirituale all'Università Salesiana.
Dal 1995 è
consultore della Congregazione per la Vita consacrata e le Società di
Vita Apostolica.
Anzitutto,
cosa ne pensi di questo Congresso, dato che tu hai partecipato anche a
quello dello scorso anno (Roma, 23 - 27 novembre 2004), organizzato, per
così dire, dalla base?
Sono stati due
congressi molto diversi tra loro, com’era normale, per altro, ma
entrambi importanti. Questo secondo, soprattutto, ha significato una
presa di posizione precisa, da parte della Congregazione vaticana degli
istituti religiosi e le società di vita apostolica, nel senso della
gestione del rinnovamento. Credo che sia un fatto molto significativo
che la Congregazione in modo chiaro e propositivo abbia mostrato di
voler promuovere e accompagnare il faticoso cammino di rinnovamento
della vita consacrata innescato dal Concilio.
Credo, allora, che
alla fine i due Congressi siano stati animati dalla medesima prospettiva
e siano arrivati a conclusioni simili.
Nel corso
del Symposium si è riflettuto sul servizio dell’autorità oggi per un
rinnovamento della vita consacrata. A partire dalla tua esperienza
quali sono gli appelli che la leadership religiosa è chiamata ad
ascoltare?
Lo dico in sintesi.
Se il ruolo dell’autorità è legato alla crescita della persona nella
comunità il primo compito sarebbe quello di rendere la comunità luogo di
formazione permanente, promuovendo una cultura (o spiritualità) della
responsabilità reciproca, ove l’uno è responsabile dell’altro e
bisognoso dell’altro, della sua presenza, della sua parola. In tal
senso, e più concretamente, l’autorità dovrebbe saper attivare strumenti
di partecipazione e condivisione, attraverso cui vivere e far vivere
sempre più insieme le esperienze della vita, positive e negative, perché
siano formative, e tutto, il bene come la debolezza che c’è in noi,
concorra alla crescita di tutti.
Da un lato,
infatti, siamo chiamati a vivere la comunione dei santi, ma anche dei
peccatori. Dall’altro dovrebbe esser sempre più chiaro che oggi non
basta più lavorare in funzione della santità individuale, ma della
santità comunitaria! È questa che il mondo ha bisogno di vedere nelle
nostre fraternità.
Se il
futuro della vita consacrata è legato alla formazione (cf PI 1) dove
focalizzare l’attenzione perché il processo formativo sia vitale e
fecondo?
Al riguardo il
Symposium non ha detto granché.
Direi che il punto
decisivo oggi sia la formazione alla cosiddetta docibilitas,
perché la formazione non si fermi in sostanza alla professione perpetua,
ma la persona sia capace, libera e desiderosa di lasciarsi formare dalla
vita (dagli altri, dalla storia…) per tutta la vita.
Inoltre, credo che
la formazione debba recuperare tutta la sua valenza drammatica; e
tornare, in concreto, a essere strutturata sul modello del triduo
pasquale, icona del passaggio dalla morte alla vita, o
dell’identificazione piena coi sentimenti del Figlio.
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