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Dopo la laurea in
filosofia presso l'Università di Palermo nel 1968 e il Diploma di
perfezionamento in filosofia morale nel 1974, Cettina Militello ha
conseguito la laurea in teologia presso la Pontificia Università
Gregoriana di Roma nel 1979. La sua ricerca abbraccia l'ecclesiologia,
la mariologia, l'ecumenismo, la questione femminile, il rapporto tra
architettura, ecclesiologia e liturgia. Dal 1990 insegna a Roma, come
docente "invitato": ecclesiologia e mariologia presso la Pontificia
Facoltà Teologica Marianum, antropologia ed escatologia presso la
Pontificia Facoltà Teologica Teresianum, ecclesiologia e liturgia presso
il Pontificio Ateneo S. Anselmo, teologia della vita religiosa presso
l'Istituto Claretianum della Pontificia Università Lateranense. Dal
2002-2003 insegna quale docente invitato escatologia presso la Facoltà
Teologica dell'Italia Centrale ed è direttrice, presso la Pontificia
Facoltà Teologica Marianum, della Cattedra "Donna e Cristianesimo".
Attualmente è
presidente della Società Italiana per la Ricerca Teologica (SIRT),
direttore dell'Istituto Costanza Scelfo per i problemi dei laici e delle
donne nella Chiesa, Divisione della SIRT; socia ordinaria di diverse
associazioni teologiche (AMI, APL, ATI, AFERT); membro del direttivo
della Pontificia Accademia Mariologica Internazionale (PAMI) e del
gruppo teologico misto del SAE.
A lei abbiamo
rivolto alcune domande sul Simposio dedicato al documento conciliare
Perfectae Caritatis a quarant’anni dalla sua promulgazione.
“Essere testimoni della trasfigurante presenza di Dio” implica oggi, se
usiamo come bussola il documento conciliare Perfectae Caritatis, una
formazione costantemente aggiornata per rispondere ai segnali della
società in evoluzione?
Sempre nella
Chiesa occorre prendere in considerazione l’”aggiornamento”, come lo
chiamava papa Giovanni. Ciò è tanto più obbligato nei confronti della
vita religiosa. In questo senso l’indicazione di PC resta quanto mai
attuale. Forse il problema della vita religiosa è proprio questo.
Stretta tra la profezia del carisma e la necessaria normatività del
passaggio a forme istituzionali, raramente si assegna l’aggiornamento,
la messa in discussione, soprattutto dei suoi percorsi formativi. Va da
sé che ciò che andava bene nel ME non può andar bene nel post-moderno.
Mi si perdoni, penso all’abito. E’ vero che nella contestualità di
identità deboli, l’abito diventa un supporto considerevole, ma che senso
ha vestirsi come si vestivano le vedove medievali, che rapporto c’è tra
il nostro abitare la città e la Chiesa con le pastoie di divise che
hanno perso il loro significato e la funzionalità, anche segnaletica
originaria. Che senso ha la clausura, quando ci si può collegare con
chicchessia nel mondo grazie a internet... e così via...
C’è dunque differenza tra il documento di 40 anni fa e la situazione
d’oggi?
Direi proprio di
sì. Basta guardarsi attorno per capire quanto e come siamo cambiati e
con quale velocità. C’è stata anche nella Chiesa una vera e propria
rivoluzione. La nostra ecclesiologia è diversissima da quella
antecedente il Concilio e neppure possiamo dire – anche se resta per
molti aspetti aperta la questione della receptio – che siamo fermi, ad
es., al dettato letterale di LG o di SG. Lo stesso vale per PC. Ne è
passata di acqua sotto i ponti. La nostra sensibilità è cresciuta. La
nostra comprensione della vita consacrata è molto mutata, e credo, in
meglio, malgrado le difficoltà.
Il testo conciliare Perfectae Caritatis ha ribadito che “il rinnovamento
dipende dalla formazione”. Condivide questa affermazione? È l’unico
aspetto di cui tenere conto, dal punto di vista delle sfide che oggi
deve affrontare la vita consacrata?
La questione della
formazione è prioritaria, ma occorre adeguare al nostro tempo e alla
cultura che ci caratterizza (le culture al plurale, ovviamente) il
percorso formativo. Oggi come oggi determinate istanze sono prive di
senso. Penso ad esempio all’ascesi, alla sofferenza come habitat della
propria conformazione a Cristo. Un percorso formativo, oggi, io credo
deve collocare la scelta in un quadro ecclesiale e antropologico segnato
dalla gioia, dall’ottimismo, dalla relazione, dal dono. E si potrebbe
parlarne a lungo.... Insomma, la vita religiosa non come luogo di
cesura, di separatezza, di rinuncia, ma al contrario come luogo
d’ottimizzazione e di annuncio dei valori del regno, appunto,
condivisione, gioia, compassione, pace...
Secondo monsignor Graab “la vita consacrata vive oggi in Europa un
momento particolarmente delicato e impegnativo della sua storia”. In
base alla Sua esperienza, la situazione italiana rispecchia questa
affermazione del Presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali
d’Europa? E se sì, perché?
Siamo certamente a
uno snodo delicato. Ma la questione si inserisce nella più larga crisi
di cristianità che caratterizza soprattutto l’Europa. Penso, poi,
personalmente, che non è tanto in crisi la vita religiosa, quanto talune
sue forme. E mi si consente, con tutto il rispetto, alcune – quelle tra
l’otto e il 900 – erano veramente un po’ gonfiate. C’è stato un
indiscriminato moltiplicarsi di forme religiose, soprattutto al
femminile, ma a cercarne bene le caratteristiche, il carisma specifico,
si resta delusi. Indubbiamente, questo moltiplicarsi, ha anche
significato un certo percorso di emancipazione all’interno della Chiesa.
Anche se parlerei più e meglio di visibilità di ricerca di visibilità
delle donne nella Chiesa. C’è stata anche la risposta ai bisogni. Ma
poi, dopo il Concilio, si è caduti nella trappola dell’omologazione, ma
proprio per la povertà o l’effimero di carismi che utili in uno
specifico tornante della storia, non per questo possono durare in
eterno.
La vita religiosa
non è in crisi, in sé, come provano le sue nuove forme. Ma a mio parere
il nodo vero e fuorviante è quello di riferirsi e collocarsi
nell’universale, disattendendo il locale. La tradizione dell’Oriente è
illuminante al riguardo. Credo che bisognerebbe ritornare attenti alla
propria chiesa locale, ai suoi bisogni, senza necessariamente premere
per l’espansione di esperienze, che oltretutto possono anche essere
effimere, non perché prive di valore, ma perché la velocizzazione che
contraddistingue il nostro tempo, facilmente mostra superate le forme
concrete. Le istanze di fondo, no, si capisce!
Mi pare che la
situazione italiana, per quello che ne so, non sia diversa da quella
dell’Europa. Abbiamo molte esperienze nuove, alcune davvero promettenti,
e viceversa costatiamo il ristagno di forme venerande e antiche, secondo
me, bisognose di riforma. Il problema poi è sempre quello di distinguere
la sovrapposizione delle istanze via via cristallizzate al carisma
originario, che le sue forme storiche non sempre mostrano nella sua
evidenza.
La pastorale vocazionale, in questo contesto, che ruolo ha? Andrebbe
forse ripensata?
Credo che a
ragione si è fatto del percorso vocazionale, un percorso inclusivo, tale
da restituire al suo senso vocazionale, la vita religiosa non meno del
matrimonio. Tuttavia credo ci vogliano anche percorsi e spazi specifici.
Suggerirei, ma lo si fa già, di incrementare l’ospitalità; di offrire
cioé la possibilità di compartire a tempo un determinato carisma, un
determinato modello. Se non ci si apre – e aprendosi ci si mostra
convinti della bontà del modello offerto – non ci saranno certo
vocazioni, o se ci saranno privilegeranno le forme nuove. Io credo che
di una comunità di un carisma, ci si innamora. Deve esercitare una
seduzione tale da far fare lo sforzo di impegnarvisi a vita. La mia tesi
è che il matrimonio implica un carisma “duale”, la vita religiosa un
carisma “collettivo”, ossia compartito.
La
vita consacrata, a Suo avviso, ha un futuro?
Certamente. E’
costante antropologica. La ritroviamo all’interno di ogni esperienza
religiosa. L’essere umano sarà sempre sedotto da Dio e investirà sempre
la sua vita donandosi interamente a lui. Certo, non tutti percepiscono
così l’incontro con Dio. Per alcuni esso passa attraverso la concreta
carne dell’altro, ma la consacrazione a Dio, la ricerca assoluta di lui
ci sarà sempre. No0n riesco a pensare che Egli smetta di suscitare nel
cuore degli uomini e delle donne il desiderio di seguirlo in modo
radicale e assoluto, niente anteponendo a lui.
Come vivere in una società sempre più multisfaccettata la chiamata di
Dio?
Ho già risposto.
Occorre assumere cordialmente la propria cultura. Dialogare con essa. E
trasferire le sue istanze nel vivere un determinato carisma. Questo e
non altro hanno fatto i grandi fondatori, assumendosi le domande, i
bisogni, le attese profonde dei loro contemporanei, sia nel senso
dell’approfondimento della fede, sia nel senso della testimonianza
radicale, sia nel senso di farsi carico dei bisogni...
In base alla Sua esperienza, che tipo di collaborazione si dovrebbe
instaurare tra laicato e religiose per una maggiore consapevolezza e
partecipazione alla vita della Chiesa?
Innanzitutto, e
non per il mantenimento delle opere, bisognerebbe avviare una
collaborazione fattiva. Soprattutto però bisognerebbe aprirsi alla
compartecipazione della spiritualità e del carisma. Proprio il
riconoscimento del carattere vocazionale di ogni forma di vita, dovrebbe
consentire anche a laiche e a laici, la condivisione di una spiritualità
o di un percorso di formazione e testimonianza. Tra l’altro, non vedo
altro futuro per le grandi tradizioni in crisi. per altro, tutte le
grandi forme di vita religiosa hanno sin dall’origine previsto una
presenza laicale a fianco. Si tratta ora di darle altro senso. Penso poi
che le laiche debbano essere solidali alle religiose rivendicando anche
per esse il diritto alla formazione teologica. Ho parlato prima di una
formazione “umana”, ma le religiose, non diversamente dalle laiche,
devono essere sorrette nella domanda di parola di Dio e di
approfondimento critico della fede. Anche a loro si chiede di dare
ragione della loro speranza, e non genericamente, ma con competenza.
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