|
|
|
|
Marco Vanelli è nato a Lucca nel 1963. Laureato in Lettere moderne, è
insegnante nelle scuole di educazione all’immagine. È critico
cinematografico. Fa parte del Direttivo dell’Associazione nazionale
CINIT – CINEFORUM ITALIANO - ed è direttore della rivista di cultura
cinematografica «Ciemme», organo del Cinit.
Si occupa di
cinema e pastorale e collabora alle riviste di catechesi delle Paoline
per il settore cinematografico e audiovisivo. Con il
Cinit ha
ritrovato e restaurato un cortometraggio catechistico ritenuto perduto,
realizzato nel 1945 da Mario Soldati, Cesare Zavattini e Diego Fabbri,
dal titolo Chi è Dio? Ha collaborato ai volumi collettivi sui
registi Ermanno Olmi e Marco Bellocchio (Marsilio Editore, 2003 e 2005)
e sul restauro del primo film italiano a colori, Mater Dei. A
Vanelli abbiamo chiesto di leggere nelle pieghe dell’ultima pellicola di
Roberto Benigni “La tigre e la neve” che tanto ha fatto discutere.
Come si inserisce nella filmografia di Benigni la sua ultima opera?
Mi sembra che
La tigre e la neve sviluppi degli spunti tematici che si erano
affacciati con prepotenza nell’opera di Benigni a partire da La vita
è bella; in particolare il senso della vita come dono ricevuto e
come dono di sé, in una prospettiva prettamente cristiana.
Inoltre ritroviamo
il tema secondo cui nel mondo, per non omologarsi e per salvarsi, è
necessario essere diversi, facendo ricorso a dei valori spirituali: si
pensi all’alterità di Guido in La vita è bella rispetto al
fascismo nella prima parte o alla logica disumana del lager nella
seconda; oppure a Lucignolo in Pinocchio, dotato di un’«anima
grande».
Ne La tigre e
la neve l’elemento spirituale forte è la poesia: il protagonista è
un poeta, che insegna poesia all’università e dialoga con altri poeti
del presente (l’amico irakeno) o del passato (Ungaretti, Montale, Borges
e la Yourcenar nel sogno). Sull’importanza della poesia nella vita,
Benigni insiste da molto tempo, sia nelle sue apparizioni televisive,
sia fra le righe delle sceneggiature. Si pensi a tutta la disquisizione
su Robert Frost in Daunbailò o anche ai richiami leopardiani
inseriti un po’ a forza nell’orribile Il figlio della Pantera Rosa.
Inno alla speranza o prodotto, come dicono i suoi detrattori, melenso e
buonista?
Certo inno alla
speranza (che tra le virtù teologali è, a mio parere, quella meno
praticata), e sotto questo aspetto ritengo che Benigni sia sincero, qui
come nelle sue performance televisive (la lectura dantis, la
partecipazione a Sanremo con Baudo dove ha recitato l’inno a Maria, o
l’apologia di Socrate da Celentano).
Bisogna
considerare che Benigni ha fatto una scelta di fondo che, se vogliamo, è
un po’ contraddittoria: da un lato si rivolge al grossissimo pubblico
che ha voglia solo di divertirsi, e lo solletica con la sua verve, le
allusioni sessuali, le battute contro Berlusconi, la trasgressione delle
regole (tutta di superficie); dall’altro però ha delle cose da dire,
anche profonde, e cerca di farlo “indorando la pillola”, privilegiando
il lato spettacolare delle sue esibizioni. Anche se non la condivido,
ritengo comunque che questa sia una sua scelta di campo consapevole:
Benigni fa il buffone per milioni di spettatori massificati, che si
aspettano questo da lui, per poter fornire loro anche uno spunto di
riflessione, un’occasione di spiritualità.
Il
dramma della guerra irachena fa da sfondo alle avventure di Attilio.
Come se la cava benigni quando affronta l’attualità?
Male, e non solo
relativamente alla guerra, che, anzi, nel film è la parte più riuscita.
Molto più approssimativo mi sembra nella prima parte della Tigre e la
neve, quando descrive l’ambiente universitario, le contestazioni
studentesche, i rapporti tra il suo personaggio e i colleghi, le donne,
le figlie. Il mondo di Benigni, sin dagli esordì in televisione con
Fuori onda (Televacca) o al cinema con Berlinguer ti
voglio bene, è evocativo e allegorico, non realistico. Non riesce ad
essere credibile se si cala in un contesto attuale e riconoscibile: ha
bisogno di una certa dose di surrealismo o di esagerazione grottesca per
essere efficace. In altre parole è costantemente sopra le righe e
necessita di una narrazione dello stesso tono che, invece, in questo
film manca.
I
personaggi sono ben delineati? C’è chi ha avanzato dubbi sulla coppia
Benigni-Braschi. Lei che ne pensa?
I personaggi sono
delle semplici variabili intorno al protagonista, su cui regge l’intero
racconto. Non hanno spessore: servono solo a lui per dimostrare una
specie di tesi: l’amore vince tutto e l’amore più grande è quello di
colui che offre la sua propria vita.
Se poi aggiungiamo
allo scarso spessore dei personaggi il dislivello professionale degli
attori (tra Jean Reno e Nicoletta Braschi c’è un abisso) nonché
l’incapacità di Benigni nel dirigerli, il risultato è oltremodo
deboluccio.
È paradossale, a
questo proposito, che Benigni rifiuti il ruolo di autore dei suoi
film, limitandosi a quello di regista. Non si legge mai, infatti,
nei titoli «Un film di Roberto Benigni», in testa, prima di tutto il
resto, come ormai fa anche l’ultimo degli esordienti, ma solo al termine
dei credits troviamo «Regia di Roberto Benigni». Eppure è vero proprio
il contrario: Benigni è autore nel senso alto del termine, in quanto ciò
che realizza è davvero frutto del suo pensiero, del suo sentimento (per
quanto possa risultare, poi, non riuscito), ma è un pessimo regista che
non sa tenere le redini del set (non solo qui, anche nei film
precedenti). Farebbe meglio a firmare il film, ma facendolo dirigere da
qualcun altro.
La
guerra era già entrata prepotentemente nell’opera di Benigni in “La vita
è bella” del ’98. Che differenza c’è da questo punto di vista tra le
pellicole?
Nessuno: in
entrambi i film la guerra è un simbolo, non un richiamo storico; un
simbolo di quanto di peggiore, di non umano, esista al mondo. La guerra
è ciò che mina non solo la vita umana, ma i valori che danno senso alla
vita: la fiducia nella vita, la speranza, la poesia, l’amore. Ma anche
in queste circostanze – qui sta il paradosso cristiano che Benigni
incarna – è possibile donarsi per amore. La vita è bella quando è
donata.
Secondo lei è un film riuscito o no? E per quali ragioni?
No, non lo è in
quanto il racconto è troppo sfrangiato: è evidente che il nucleo
centrale tematico è quello dei sacrifici operati da Attilio per salvare
la sua donna, ma tutto il resto non riesce ad amalgamarsi in un racconto
credibile e coerente. Le gag, i riferimenti all’attualità, le citazioni
poetiche funzionano separatamente, non si trasformano in un racconto
unitario.
L’idea di
sceneggiatura di rivelare solo nel finale la vera identità della Braschi
è macchinosa più che efficace e non concorre a dare unità narrativa al
film (semmai ha valore tematico: il matrimonio è sacro e unico). Come
film isolato La tigre e la neve vale poco; inserito nel percorso
creativo di Benigni, invece, possiede un suo senso profondo.
Personalmente, non
vado in cerca di emozioni al cinema, semmai di sentimenti. La differenza
è profonda: le emozioni sono esperienze epidermiche, che il linguaggio
cinematografico (operando sul piano sensibile audio-visivo) può
suscitare – e suscita – quando vuole, ottenendo così un consenso non
razionale da parte dello spettatore. Anche la pubblicità opera in questo
modo. Si pensi a un film emozionale come Magdalene: uscendo dal
cinema siamo talmente indignati per ciò che abbiamo visto che ci
verrebbe da prendere a schiaffi la prima suora che incontriamo. Eppure
prima di aver visto il film magari non sapevamo nemmeno dell’esistenza
di quella congregazione; invece dopo ci sembra di sapere tutto, di
essere documentati su una realtà che non conosciamo affatto, al punto di
arrivare a fare un’equivalenza del tutto senza senso: ciò che è accaduto
alle quattro ragazze che sono mostrate in Magdalene, deve essere
esteso alle altre 30.000 che, come ci avverte la scritta finale, sono
passate in quei conventi. Un convento vale per tutti i conventi; 4
storie valgono per 30.000 storie... È il tipico approccio emotivo su cui
fa leva la propaganda.
I sentimenti,
invece, hanno radici più profonde nel nostro mondo valoriale, e
appartengono alla sfera della razionalità. Pertanto se un film riesce a
commuovermi anziché emozionarmi, significa che si tratta di un’opera
comunicativa di valore – umano se non artistico, come in questo caso.
Attilio che recita
il Padre nostro è un momento altissimo di spiritualità e religiosità
(subito annacquate dalla gag e dal contesto paradossale in cui si
svolge, ma questo fa parte della strategia di Benigni di cui parlavamo
sopra: dire e dissimulare nel divertimento...) che penetra nei miei
sentimenti di cristiano, senza farmi venire i brividi dell’emozione
perché riesco a comprendere il senso profondo di quel gesto, senza
avvertire l’impressione di qualcosa di magico.
Le emozioni
preferisco provarle nella realtà, non nella finzione cinematografica. Se
Benigni avesse voluto emozionare avrebbe usato i violini, il ralenti,
il dettaglio della lacrimuccia... tutte cose da cui, fortunatamente, è
alieno. Si pensi all’intuizione geniale ne La vita è bella di far
morire Guido fuori campo, anziché mostrarcelo in una scena patetica...
Sempre ammesso che Guido muoia in quel film.
Infatti,
analizzando La vita è bella scopriamo che Benigni ci parla
dell’amore divino che si dona senza pretendere nulla in cambio. Quando
lo zio insegna a Guido il mestiere di cameriere lo avverte: «Tu stai
servendo, però non sei un servo. Servire è l’arte suprema: Dio è il
primo servitore. Dio serve gli uomini, ma non è servo degli uomini».
Servire come Dio: e infatti il protagonista si chiama Guido. Cosa
sosteneva nei suoi monologhi Benigni a proposito del nome di Dio?: «Gli
altri dèi c’hanno un nome: Giove, Budda, Allah... Lui: Dio! Se si
chiamava con un nome più umile era più simpatico a tutti no?! Che so:
“Io sono Guido, non avrai altro Guido all’infuori di me”. Era più
simpatico, no!? “Aiutati che Guido t’aiuta!”. “Piove come Guido la
manda”. Sui ponti dell’autostrada “Guido c’è”. Insomma, era più
simpatico...» (Tuttobenigni dal vivo, 1986).
Guido, quindi, è
il nome prescelto da Benigni per un Dio più umile, più simpatico.
Proprio come il Guido del film, sorta di incarnazione divina tesa a
portare amore agli altri quasi senza farsene accorgere. La vita è bella
quando si fa servizio volontario, come testimonia la nobiltà d’animo
dello zio di Guido che, avviato alla camera a gas, sorregge la guardia
nazista che sta per cadere a terra.
Che messaggio vuole offrire al suo pubblico l’autore?
Mi sembra evidente
che Benigni da qualche anno si sta avvicinando sempre più ad una vita di
fede. Temi religiosi ci sono sempre stati nei suoi film e nei suoi
monologhi (si pensi a Tu mi turbi, o al già citato
Tuttobenigni dal vivo o anche al monologo sul giudizio universale
nel Pap’occhio), ma erano più dei paradossi morali, degli
interrogativi burleschi che non delle affermazioni di fede.
Negli ultimi film,
invece, ha fatto sua una prospettiva cristiana che è quella della vita
donata agli altri per amore, un amore che libera l’amato senza
aspettarsi niente in cambio. Un amore che è una forza incontenibile, che
si esprime anche fisicamente sia con la sessualità sia con la
prossimità; un amore che è già un’anticipazione, sulla terra, della
pienezza della vita eterna.
Tornando a La
vita è bella, è significativa la citazione fatta quasi per caso
dall’amico di Guido quando, all’inizio del film, afferma: «Secondo
quanto insegna Schopenhauer, io sono ciò che voglio». Guido resta
colpito dal concetto e ne trae spunto per una serie di applicazioni
tutt’altro che pessimistiche. In diverse occasioni (al teatro con Dora,
nel lager quando il cane sta per scoprire Giosuè), quasi fosse un mago,
riesce a piegare la realtà esterna alla sua volontà. Lasciandosi alle
spalle l’aspirazione al nulla, Guido trasforma l’affermazione di
Schopenhauer in volontà di vita e di amore. È la stessa cosa che fa
Attilio nella Tigre e la neve. D’altra parte è lo stesso
Schopenhauer a sostenere che: «Per l’uomo buono, il velo di Maya
(l’illusione) è divenuto trasparente; egli vede che tutte le cose sono
una cosa sola e che la distinzione tra sé ed un altro è solo apparente.
Si giunge a veder ciò per mezzo dell’amore, che è sempre simpatia, e
riguarda il dolore altrui. Quando il velo di Maya è sollevato, un uomo
prende su di sé le sofferenze del mondo intero».
Questo, ritengo,
sia il messaggio del film.
|