IL FILM
LA TIGRE E LA NEVE

nelle parole di Marco Vanelli


Rita Salerno (a cura)

English version

trasp.gif (814 byte) trasp.gif (814 byte) trasp.gif (814 byte) trasp.gif (814 byte)

 
Marco Vanelli è nato a Lucca nel 1963. Laureato in Lettere moderne, è insegnante nelle scuole di educazione all’immagine. È critico cinematografico. Fa parte del Direttivo dell’Associazione nazionale CINIT – CINEFORUM ITALIANO - ed è direttore della rivista di cultura cinematografica «Ciemme», organo del Cinit.

Si occupa di cinema e pastorale e collabora alle riviste di catechesi delle Paoline per il settore cinematografico e audiovisivo. Con il Cinit ha ritrovato e restaurato un cortometraggio catechistico ritenuto perduto, realizzato nel 1945 da Mario Soldati, Cesare Zavattini e Diego Fabbri, dal titolo Chi è Dio? Ha collaborato ai volumi collettivi sui registi Ermanno Olmi e Marco Bellocchio (Marsilio Editore, 2003 e 2005) e sul restauro del primo film italiano a colori, Mater Dei. A Vanelli abbiamo chiesto di leggere nelle pieghe dell’ultima pellicola di Roberto Benigni  “La tigre e la neve” che tanto ha fatto discutere.

Come si inserisce nella filmografia di Benigni la sua ultima opera?

Mi sembra che La tigre e la neve sviluppi degli spunti tematici che si erano affacciati con prepotenza nell’opera di Benigni a partire da La vita è bella; in particolare il senso della vita come dono ricevuto e come dono di sé, in una prospettiva prettamente cristiana.

Inoltre ritroviamo il tema secondo cui nel mondo, per non omologarsi e per salvarsi, è necessario essere diversi, facendo ricorso a dei valori spirituali: si pensi all’alterità di Guido in La vita è bella rispetto al fascismo nella prima parte o alla logica disumana del lager nella seconda; oppure a Lucignolo in Pinocchio, dotato di un’«anima grande».

Ne La tigre e la neve l’elemento spirituale forte è la poesia: il protagonista è un poeta, che insegna poesia all’università e dialoga con altri poeti del presente (l’amico irakeno) o del passato (Ungaretti, Montale, Borges e la Yourcenar nel sogno). Sull’importanza della poesia nella vita, Benigni insiste da molto tempo, sia nelle sue apparizioni televisive, sia fra le righe delle sceneggiature. Si pensi a tutta la disquisizione su Robert Frost in Daunbailò o anche ai richiami leopardiani inseriti un po’ a forza nell’orribile Il figlio della Pantera Rosa.

Inno alla speranza o prodotto, come dicono i suoi detrattori, melenso e buonista?

Certo inno alla speranza (che tra le virtù teologali è, a mio parere, quella meno praticata), e sotto questo aspetto ritengo che Benigni sia sincero, qui come nelle sue performance televisive (la lectura dantis, la partecipazione a Sanremo con Baudo dove ha recitato l’inno a Maria, o l’apologia di Socrate da Celentano).

Bisogna considerare che Benigni ha fatto una scelta di fondo che, se vogliamo, è un po’ contraddittoria: da un lato si rivolge al grossissimo pubblico che ha voglia solo di divertirsi, e lo solletica con la sua verve, le allusioni sessuali, le battute contro Berlusconi, la trasgressione delle regole (tutta di superficie); dall’altro però ha delle cose da dire, anche profonde, e cerca di farlo “indorando la pillola”, privilegiando il lato spettacolare delle sue esibizioni. Anche se non la condivido, ritengo comunque che questa sia una sua scelta di campo consapevole: Benigni fa il buffone per milioni di spettatori massificati, che si aspettano questo da lui, per poter fornire loro anche uno spunto di riflessione, un’occasione di spiritualità.

Il dramma della guerra irachena fa da sfondo alle avventure di Attilio. Come se la cava benigni quando affronta l’attualità?

Male, e non solo relativamente alla guerra, che, anzi, nel film è la parte più riuscita. Molto più approssimativo mi sembra nella prima parte della Tigre e la neve, quando descrive l’ambiente universitario, le contestazioni studentesche, i rapporti tra il suo personaggio e i colleghi, le donne, le figlie. Il mondo di Benigni, sin dagli esordì in televisione con Fuori onda (Televacca) o al cinema con Berlinguer ti voglio bene, è evocativo e allegorico, non realistico. Non riesce ad essere credibile se si cala in un contesto attuale e riconoscibile: ha bisogno di una certa dose di surrealismo o di esagerazione grottesca per essere efficace. In altre parole è costantemente sopra le righe e necessita di una narrazione dello stesso tono che, invece, in questo film manca.

I personaggi sono ben delineati? C’è chi ha avanzato dubbi sulla coppia Benigni-Braschi. Lei che ne pensa?

I personaggi sono delle semplici variabili intorno al protagonista, su cui regge l’intero racconto. Non hanno spessore: servono solo a lui per dimostrare una specie di tesi: l’amore vince tutto e l’amore più grande è quello di colui che offre la sua propria vita.

Se poi aggiungiamo allo scarso spessore dei personaggi il dislivello professionale degli attori (tra Jean Reno e Nicoletta Braschi c’è un abisso) nonché l’incapacità di Benigni nel dirigerli, il risultato è oltremodo deboluccio.

È paradossale, a questo proposito, che Benigni rifiuti il ruolo di autore dei suoi film, limitandosi a quello di regista. Non si legge mai, infatti, nei titoli «Un film di Roberto Benigni», in testa, prima di tutto il resto, come ormai fa anche l’ultimo degli esordienti, ma solo al termine dei credits troviamo «Regia di Roberto Benigni». Eppure è vero proprio il contrario: Benigni è autore nel senso alto del termine, in quanto ciò che realizza è davvero frutto del suo pensiero, del suo sentimento (per quanto possa risultare, poi, non riuscito), ma è un pessimo regista che non sa tenere le redini del set (non solo qui, anche nei film precedenti). Farebbe meglio a firmare il film, ma facendolo dirigere da qualcun altro.

La guerra era già entrata prepotentemente nell’opera di Benigni in “La vita è bella” del ’98. Che differenza c’è da questo punto di vista tra le pellicole?

Nessuno: in entrambi i film la guerra è un simbolo, non un richiamo storico; un simbolo di quanto di peggiore, di non umano, esista al mondo. La guerra è ciò che mina non solo la vita umana, ma i valori che danno senso alla vita: la fiducia nella vita, la speranza, la poesia, l’amore. Ma anche in queste circostanze – qui sta il paradosso cristiano che Benigni incarna – è possibile donarsi per amore. La vita è bella quando è donata.

Secondo lei è un film riuscito o no? E per quali ragioni?

No, non lo è in quanto il racconto è troppo sfrangiato: è evidente che il nucleo centrale tematico è quello dei sacrifici operati da Attilio per salvare la sua donna, ma tutto il resto non riesce ad amalgamarsi in un racconto credibile e coerente. Le gag, i riferimenti all’attualità, le citazioni poetiche funzionano separatamente, non si trasformano in un racconto unitario.

L’idea di sceneggiatura di rivelare solo nel finale la vera identità della Braschi è macchinosa più che efficace e non concorre a dare unità narrativa al film (semmai ha valore tematico: il matrimonio è sacro e unico). Come film isolato La tigre e la neve vale poco; inserito nel percorso creativo di Benigni, invece, possiede un suo senso profondo.

Personalmente, non vado in cerca di emozioni al cinema, semmai di sentimenti. La differenza è profonda: le emozioni sono esperienze epidermiche, che il linguaggio cinematografico (operando sul piano sensibile audio-visivo) può suscitare – e suscita – quando vuole, ottenendo così un consenso non razionale da parte dello spettatore. Anche la pubblicità opera in questo modo. Si pensi a un film emozionale come Magdalene: uscendo dal cinema siamo talmente indignati per ciò che abbiamo visto che ci verrebbe da prendere a schiaffi la prima suora che incontriamo. Eppure prima di aver visto il film magari non sapevamo nemmeno dell’esistenza di quella congregazione; invece dopo ci sembra di sapere tutto, di essere documentati su una realtà che non conosciamo affatto, al punto di arrivare a fare un’equivalenza del tutto senza senso: ciò che è accaduto alle quattro ragazze che sono mostrate in Magdalene, deve essere esteso alle altre 30.000 che, come ci avverte la scritta finale, sono passate in quei conventi. Un convento vale per tutti i conventi; 4 storie valgono per 30.000 storie... È il tipico approccio emotivo su cui fa leva la propaganda.

I sentimenti, invece, hanno radici più profonde nel nostro mondo valoriale, e appartengono alla sfera della razionalità. Pertanto se un film riesce a commuovermi anziché emozionarmi, significa che si tratta di un’opera comunicativa di valore – umano se non artistico, come in questo caso.

Attilio che recita il Padre nostro è un momento altissimo di spiritualità e religiosità (subito annacquate dalla gag e dal contesto paradossale in cui si svolge, ma questo fa parte della strategia di Benigni di cui parlavamo sopra: dire e dissimulare nel divertimento...) che penetra nei miei sentimenti di cristiano, senza farmi venire i brividi dell’emozione perché riesco a comprendere il senso profondo di quel gesto, senza avvertire l’impressione di qualcosa di magico.

Le emozioni preferisco provarle nella realtà, non nella finzione cinematografica. Se Benigni avesse voluto emozionare avrebbe usato i violini, il ralenti, il dettaglio della lacrimuccia... tutte cose da cui, fortunatamente, è alieno. Si pensi all’intuizione geniale ne La vita è bella di far morire Guido fuori campo, anziché mostrarcelo in una scena patetica... Sempre ammesso che Guido muoia in quel film.

Infatti, analizzando La vita è bella scopriamo che Benigni ci parla dell’amore divino che si dona senza pretendere nulla in cambio. Quando lo zio insegna a Guido il mestiere di cameriere lo avverte: «Tu stai servendo, però non sei un servo. Servire è l’arte suprema: Dio è il primo servitore. Dio serve gli uomini, ma non è servo degli uomini». Servire come Dio: e infatti il protagonista si chiama Guido. Cosa sosteneva nei suoi monologhi Benigni a proposito del nome di Dio?: «Gli altri dèi c’hanno un nome: Giove, Budda, Allah... Lui: Dio! Se si chiamava con un nome più umile era più simpatico a tutti no?! Che so: “Io sono Guido, non avrai altro Guido all’infuori di me”. Era più simpatico, no!? “Aiutati che Guido t’aiuta!”. “Piove come Guido la manda”. Sui ponti dell’autostrada “Guido c’è”. Insomma, era più simpatico...» (Tuttobenigni dal vivo, 1986).

Guido, quindi, è il nome prescelto da Benigni per un Dio più umile, più simpatico. Proprio come il Guido del film, sorta di incarnazione divina tesa a portare amore agli altri quasi senza farsene accorgere. La vita è bella quando si fa servizio volontario, come testimonia la nobiltà d’animo dello zio di Guido che, avviato alla camera a gas, sorregge la guardia nazista che sta per cadere a terra.

Che messaggio vuole offrire al suo pubblico l’autore?

Mi sembra evidente che Benigni da qualche anno si sta avvicinando sempre più ad una vita di fede. Temi religiosi ci sono sempre stati nei suoi film e nei suoi monologhi (si pensi a Tu mi turbi, o al già citato Tuttobenigni dal vivo o anche al monologo sul giudizio universale nel Pap’occhio), ma erano più dei paradossi morali, degli interrogativi burleschi che non delle affermazioni di fede.

Negli ultimi film, invece, ha fatto sua una prospettiva cristiana che è quella della vita donata agli altri per amore, un amore che libera l’amato senza aspettarsi niente in cambio. Un amore che è una forza incontenibile, che si esprime anche fisicamente sia con la sessualità sia con la prossimità; un amore che è già un’anticipazione, sulla terra, della pienezza della vita eterna.

Tornando a La vita è bella, è significativa la citazione fatta quasi per caso dall’amico di Guido quando, all’inizio del film, afferma: «Secondo quanto insegna Schopenhauer, io sono ciò che voglio». Guido resta colpito dal concetto e ne trae spunto per una serie di applicazioni tutt’altro che pessimistiche. In diverse occasioni (al teatro con Dora, nel lager quando il cane sta per scoprire Giosuè), quasi fosse un mago, riesce a piegare la realtà esterna alla sua volontà. Lasciandosi alle spalle l’aspirazione al nulla, Guido trasforma l’affermazione di Schopenhauer in volontà di vita e di amore. È la stessa cosa che fa Attilio nella Tigre e la neve. D’altra parte è lo stesso Schopenhauer a sostenere che: «Per l’uomo buono, il velo di Maya (l’illusione) è divenuto trasparente; egli vede che tutte le cose sono una cosa sola e che la distinzione tra sé ed un altro è solo apparente. Si giunge a veder ciò per mezzo dell’amore, che è sempre simpatia, e riguarda il dolore altrui. Quando il velo di Maya è sollevato, un uomo prende su di sé le sofferenze del mondo intero».

Questo, ritengo, sia il messaggio del film.
 

Torna indietro