la vita consacrata
e la famiglia
nelle parole di benedetto XVI

        
intervista a  Sandra Mazzolini


a cura di Rita Salerno
 
 

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English version

Sandra MazzoliniSandra Mazzolini è nata a Gorizia il 9 luglio del 1956 dove ha conseguito la laurea con una tesi su alcuni aspetti della pastorale dei gesuiti nei territori ereditari asburgici alla fine del XVI secolo. Ha conseguito la licenza in Teologia e il dottorato in teologia dogmatica presso la Pontificia Università Gregoriana. Dal maggio del 2004 è professore consociato presso la Facoltà di Missiologia della Pontificia Università Urbaniana. Collabora altresì con altre istituzioni teologiche romane come professore invitato. È membro del Consiglio d’Istituto dell’Istituto Superiore di catechesi e spiritualità missionaria della PUU (dall’anno accademico 2001-2002). Dal 2005 fa parte della commissione per la biblioteca della PUU; della commissione per gli istituti affiliati alla Facoltà di Missiologia della PUU; della commissione per l’attuazione del “Processo di Bologna” (PUU). Dal 2002 fa parte del Comitato Scientifico della rivista Ad Gentes. Dal 2005 fa parte del consiglio di presidenza del Coordinamento delle Teologhe Italiane. Pubblica inoltre stabilmente recensioni su La Civiltà Cattolica. A lei abbiamo rivolto alcune domande su tematiche riguardanti la vita consacrata e la famiglia in occasione del Congresso Mondiale delle Famiglie Cattoliche di Valencia in Spagna.

Il Pontefice ha definito quello della vita consacrata «un impegno sempre esigente e talvolta contrastato» che implica «una presenza costante», capace di «aiutare le persone a corrispondere con una fedeltà sempre rinnovata alla chiamata dello Spirito». Condivide questa affermazione di Papa Benedetto XVI?

Nel discorso di Benedetto XVI ai superiori e alle superiore generali degli Istituti di Vita Consacrata e delle Società di Vita Apostolica (22 maggio 2006) tali affermazioni sono più specificatamente riferite al servizio di autorità, «impegno sempre esigente e talvolta contrastato», che «richiede una presenza costante, capace di animare e di proporre, di ricordare la ragion d’essere della vita consacrata, di aiutare le persone a voi affidate a corrispondere con una fedeltà sempre rinnovata alla chiamata dello Spirito». Il riconoscimento del senso del servizio di autorità così espresso mette in luce, da un lato, ciò che qualifica tale impegno («sempre esigente e talvolta contrastato») e, dall’altro la sua modalità di attuazione nei termini di una «presenza costante», che si concretizza in una triplice capacità di animazione e di proposta, di richiamo alla memoria, di aiuto.

A mio modo di vedere, utilizzando tale lessico, il vescovo di Roma sottolinea in modo diretto che, nelle diverse forme della vita consacrata, non si può prescindere dal servizio di autorità; indirettamente si pone in risalto il fatto che esso non può mai essere in alcun modo compreso come sostitutivo della risposta personale di ciascun religiosa/religiosa alla chiamata dello Spirito. Emerge altresì il fatto che la vita consacrata e quella apostolica, proprio in quanto vita, sono un processo dinamico che implica una corrispondenza da parte dell’essere umano «con una fedeltà sempre rinnovata».

 Spesso la solitudine è la compagnia dell’esistenza della persona consacrata, è ancora il Papa a ribadirlo, ma questa condizione non deve far venire meno il senso della responsabilità nei confronti dell’altro. La solitudine della persona consacrata, a suo avviso, è elemento in grado di incidere nel profondo dei rapporti con il mondo esterno? E come capovolgere la situazione in positivo?

Anche il tema della solitudine, alla luce del summenzionato discorso di Benedetto XVI, rimanda al servizio di autorità, che, espletato secondo le coordinate indicate dal papa, è «spesso accompagnato dalla Croce e a volte anche da una solitudine che richiede un senso profondo di responsabilità, una generosità che non conosce smarrimenti e un costante oblio di voi stessi». Tuttavia non sembra impropria l’estensione della categoria della solitudine, con riferimento ai consacrati e alle consacrate complessivamente intesi. L’esperienza della solitudine, che accompagna ogni essere umano, di per sé non è negativa; lo diventa se essa si trasforma, o è trasformata, in isolamento, emarginazione, esclusione, ecc.

Per comprendere il senso della solitudine umana, si può far riferimento all’immagine ambivalente del deserto che, secondo il testo biblico vetero e neotestamentario, è luogo di privazioni, di pericolo, di attacchi e punizioni, ma è anche il luogo in cui Dio libera il suo popolo, provvede ad esso e gli si rivela. Elementi significativi in tal senso possono essere ritrovati nelle origini dell’esperienza monastica: la radicalità del vangelo vissuto sine glossa postula un contesto di solitudine, che ha sfaccettature diverse, ma che non è mai un fine in se stesso.

La solitudine è per contro un mezzo, che configura un itinerario di scoperta di se stessi, anche del male che è annidato nel proprio cuore, e di un progressivo lasciarsi possedere dallo Spirito; tale esperienza non trasforma il monaco in un solitario che si disinteressa dei suoi fratelli, ma in un vero e proprio padre spirituale, punto di riferimento non soltanto per coloro che condividono la sua medesima esperienza. A mio modo di vedere, la metafora biblica del deserto e l’esperienza dei primo monaci può offrire elementi utili per comprendere in senso positivo il valore della solitudine nella vita consacrata quale spazio e tempo peculiari di incontro con Dio e quale specifica modalità testimoniale del primato di quello stesso Dio al quale si è consegnata radicalmente la propria esistenza.

«In un’epoca segnata da molteplici insidie, i consacrati e le consacrate hanno il compito oggi di essere testimoni della trasfigurante presenza di Dio». Essere capaci di guardare questo nostro tempo con lo sguardo della fede: l’esigenza cui fa riferimento il Papa come deve essere tradotta secondo la sua sensibilità?

Oggi la Chiesa vive e opera in scenari assolutamente nuovi, frutto non soltanto della continuità con il passato, ma anche di fratture innegabili. In termini sintetici, la nostra contemporaneità è contrassegnata da processi di globalizzazione riferibili ai vari ambiti della vita umana, processi che di fatto interpellano anche la vita degli istituti di vita consacrata, inseriti nella storia degli uomini e delle donne. In senso positivo non c’è dubbio che tali processi costituiscono una modalità di conoscenza della diversità, che comporta una sua accettazione e integrazione in un sistema complesso non uniforme. Le difficoltà di tale accettazione e integrazione sono di fronte agli occhi di tutti e, quando si trasformano in scontro aperto e violento, occupano le prime pagine dei giornali, creando incertezze a paure, evocate da ipotetici o reali scontri di civiltà.

La dimensione comunionale della vita consacrata, concretizzata nella vita comunitaria in cui interagiscono soggetti differenti sotto diversi profili (età, cultura, formazione, appartenenza etnica, ecc), ci sembra assumere in tale contesto una rilevanza non secondaria, perché, a fronte della comprensione della diversità come elemento di divisione, essa testimonia che la diversità è al contrario condizione di possibilità per l’unità degli esseri umani. Le comunità di consacrati e di consacrate costituiscono quindi uno spazio privilegiato di visibilizzazione e di valorizzazione, sia pure in senso analogico, del modello relazionale trinitario, nel quale unità e diversità non sono subordinate, né tanto meno alternative e conflittuali.

Ma c’è un rivolto anche negativo inerente tali processi di globalizzazione, che comportano una privatizzazione della fede da parte di singoli soggetti e di gruppi; essa non è esente dal rischio di sincretismo, favorito anche dal diffondersi di sette e di nuove forme di religiosità. Tale privatizzazione si esprime almeno in tre ambiti: nella dichiarazione della propria appartenenza alla tradizione cattolica, pur ponendo riserve sui contenuti di singoli articoli del Credo cristiano; nella selezione dell’insegnamento morale della Chiesa; nel senso attribuito alla celebrazione dei sacramenti e alla mediazione ecclesiale con riferimento alla propria vita di fede. Le implicazioni negative della privatizzazione della fede sono evidenti; esse toccano tra l’altro la dimensione ecclesiale dell’atto di fede, principio di tutta l’esistenza ecclesiale, dal quale scaturisce la rete relazionale costitutiva della realtà della Chiesa che ne risulta essenzialmente determinata. Le analisi del profilo negativo della nostra contemporaneità non possono però limitarsi a sterili lamentazioni; al contrario, presuppongono, a nostro modo di vedere, un impegno maggiore per declinare nuove forme di presenza dei soggetti ecclesiali, quindi anche della vita consacrata, nei termini di una maggior esplicitazione del suo profilo più propriamente religioso e spirituale; di una maggiore attenzione al profilo della relazionalità, che consenta alla persona di uscire dall’anonimato soffocante; di una offerta, soprattutto agli adulti, di cammini formativi non omologanti, finalizzati alla formazione di persone libere, adulte nella fede, capaci di dialogo e di impegno.

 In base alla sua personale esperienza, nel nostro Paese le persone consacrate sono in grado di «guardare l’uomo, il mondo e la storia alla luce del Cristo crocifisso e risorto»?

Per più motivi, non è semplice rispondere a questa domanda. Occorre innanzitutto chiarire che la mia personale esperienza al riguardo ha un doppio profilo: è un’esperienza che deriva dai contatti sia con religiosi e religiose, sia con il mondo laicale. A seconda delle due prospettive, la risposta non può essere che parziale (essa riguarda cioè soltanto ciò che conosco in prima persona e non può essere declinata quindi in termini assoluti e generali) e differente (a seconda delle diverse angolature assunte) e deve considerare un dato di principio e un dato di fatto. Il dato di principio comporta che, a partire dal Concilio Vaticano II, il rapporto tra le diverse forme della vita consacrata con la Chiesa e con il mondo è stata declinato in termini differenti rispetto all’epoca preconciliare e che questo ha inciso, causando talvolta non poche difficoltà, nella stessa comprensione della vita consacrata e nei suoi cammini formativi.

Positivamente, a mio modo di vedere, è stata sottolineata la presenzialità della vita consacrata nella storia degli uomini e delle donne; un certo superamento della visione di tale vita come fuga mundi ha indubitabilmente comportato nuove modalità nelle relazioni dei consacrati con la Chiesa nel suo insieme e con il «mondo».

Oggettivamente sono state offerte nuove possibilità di guardare l’uomo, il mondo e la storia con gli occhi della fede nel Verbo Incarnato, morto e risorto per la salvezza dell’essere umano, di ogni essere umano. Il dato di fatto rimanda invece a una dimensione più soggettiva, ovvero al come tale possibilità offerta è stata accolta da ciascun consacrato, e alla percezione che gli altri battezzati hanno oggi della vita consacrata.

Le molte risposte possibili sono difficilmente riconducibili a denominatori comuni, pur dovendo riconoscere che permane ancora in molte persone l’idea che la vita consacrata sia aliena dalla quotidianità che gli uomini e le donne vivono spesso con fatica e preoccupazione. Ciò che determina tale percezione ha radici differenti; mi sembra che in parte esse possono essere individuate in un passaggio del già citato discorso di Benedetto XVI, il quale riconosce, accanto all’«indubbio slancio generoso, capace di testimonianza e di donazione totale, […] l’insidia della mediocrità, dell’imborghesimento e della mentalità consumistica».

Benedetto XVI prenderà parte all’incontro mondiale con le famiglie in programma a Valencia in Spagna a luglio. E su questo argomento ha avuto modo di tornare spesso chiedendo più attenzione per l’istituto familiare. Quale apporto può portare la vita consacrata al riguardo?

La reiterata richiesta di maggior attenzione per l’istituto familiare, spesso oggetto di interpretazioni pregiudizialmente non fondate, può essere invece adeguatamente compresa rileggendo i numeri che la Gaudium et Spes, costituzione pastorale del Vaticano II sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, dedica al matrimonio e alla famiglia (cf GS 47-52). L’illustrazione della dignità del matrimonio e della famiglia e la conseguente loro valorizzazione prende le mosse dall’asserzione che la «salvezza della persona e della società umana e cristiana è strettamente connessa con una felice situazione della comunità coniugale e familiare» (GS 47) e termina con il riferimento alla testimonianza «di quel mistero di amore che il Signore ha rivelato al mondo con la sua morte e risurrezione» (GS 52), testimonianza resa al mondo dai coniugi, creati a immagine di Dio e costituiti in un’autentica dignità personale e «uniti da un uguale mutuo affetto, dallo stesso modo di sentire, da comune santità» (ivi).

La rilevanza della famiglia incide anche sull’autocomprensione che la Chiesa ha della propria identità e missione. Ciò è verificabile, ad esempio, nel fatto che il modello ecclesiologico della Chiesa come famiglia di Dio è stato assunto, con riferimento anche a intere realtà continentali (è il caso della Chiesa africana), come configurante nella storia umana la presenza della comunità ecclesiale, nel suo insieme e nelle sue diverse articolazioni. Se, da un lato, è allora legittimo chiedersi quale possa essere l’apporto specifico che la famiglia offre alla vita consacrata, altrettanto lo è l’interrogarsi al contrario. Per brevità, limitandomi al movimento dalla vita consacrata a quella della famiglia, mi pare che un apporto indiscutibile possa essere individuato nella gratuità come elemento connotante l’amore, una gratuità che supera il «finché mi piace, finché me la sento, ecc».

Il senso della gratuità dei rapporti comunionali vissuti nelle diverse comunità di vita consacrata rimanda infatti alla gratuità dell’amore del Dio Unitrino, che crea l’uomo e la donna come esseri relazionali, capaci cioè di vivere e di realizzarsi entro un reticolo comunionale sempre più ampio e per sempre. Vissuto comunitariamente, tale senso di gratuità è verificato concretamente nella capacità di perdono reciproco, esigita dal limite creaturale, anche quello del peccato, che disegna ogni esistenza ed esperienza umane; in tale prospettiva, esso rimanda alla gratuità dell’amore di Dio Padre che non si stanca mai neppure del peccato dell’essere umano da Lui creato, che gli rinnova, definitivamente in Cristo e nello Spirito, innumerevoli possibilità di realizzare il senso ultimo e pieno della propria vita, ovvero la chiamata alla comunione con Sé e con gli altri esseri umani. Torna indietro