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Cristina
Carnicella ha conseguito nel 1977 il baccalaureato in filosofia e nel
1982 il baccalaureato in teologia alla Pontificia università Gregoriana.
Nel 1984 ha conseguito la laurea in filosofia all’università La Sapienza
di Roma con una dissertazione sulla Lettera ai Galati nei commenti di
Pelagio, dell’Ambrosiaster e di Girolamo. E’ del 1985 la licenza in
teologia presso la Pontificia università Gregoriana e nel 1986 il
diploma in comunicazioni sociali; nel 1988, il dottorato in teologia con
la tesi "La divina Rivelazione, la scienza della comunicazione e la
teologia". Impegnata nell’insegnamento scolastico della religione
cattolica dal 1982 e nella ricerca, Cristina Carnicella ha concentrato
la sua attenzione sul rapporto tra teologia e scienza delle
comunicazioni sociali. Dal 1991 fa parte della Sirt (Società Italiana
per la ricerca teologica), associazione che vanta in percentuale una
notevole presenza di donne e laici tra gli iscritti e che presta
un’attenzione particolare per trasformare questa presenza in
protagonismo. Nel 1998 ha pubblicato il volume Evangelizzazione e
comunicazione. Alla teologa pugliese che attribuisce un ruolo
determinante ai mezzi di comunicazione nell’evangelizzazione, abbiamo
rivolto alcune domande sui cambiamenti in atto nel settore della
comunicazione della Santa Sede.
Come nasce il suo
interesse per la teologia ed in particolare per il rapporto tra teologia
e scienze della comunicazione?
“Il mio interesse per la teologia è nato,
naturalmente, nel periodo in cui studiavo alla Pontificia Università
Gregoriana. Erano i primi anni in cui si parlava di comunicazione.
Nasceva allora, all’ateneo pontificio, l’istituto per le comunicazioni
sociali. Parlando con i fondatori, sotto l’effetto del Concilio
Ecumenico Vaticano II, sull’onda dell’entusiasmo di quei momenti si è
lentamente sviluppato in me questo interesse per la comunicazione.
Soprattutto grazie a padre Baragli. Fu lui, infatti, a promuovere alcuni
corsi sull’argomento in cui il tema di fondo era incentrato sulla crisi
della comunicazione in un’epoca orientata a questo valore. La tesi
prevalente era che l’uomo di oggi soffre perché non riesce a comunicare
pienamente. Da questo abisso che si crea tra gli strumenti della
comunicazione a disposizione e la difficoltà che l’umanità avverte
sempre di più in questo ambito, si è sviluppato tutto il mio interesse
in questo campo. È stata una naturale evoluzione coniugare i miei studi
di teologia con quelli sulla comunicazione”.
E’ recentissima
la nomina a direttore della Sala Stampa Vaticana di padre Federico
Lombardi, direttore generale della Radio Vaticana e direttore del Ctv.
Come leggere, a suo avviso, la scelta di affidare la comunicazione della
Santa Sede ad un religioso dopo 22 anni di servizio di un laico come
Navarro-Valls?
“Fondamentalmente, penso che in qualsiasi
ambito il cambiamento sia importante e necessario. Non conta tanto la
qualifica di religioso o di laico, quanto le competenze che si hanno nel
settore in cui si opera. Portare una mentalità e stimoli nuovi è da
leggere sempre positivamente. Se non c’è cambiamento, non c’è nemmeno
progresso ed evoluzione. Si rischia la stabilizzazione. E’ quindi una
nomina che leggo sicuramente come un fattore positivo, perché in grado
di offrire apporti e prospettive nuove per proseguire in un cammino già
intrapreso”.
Lo stile
comunicativo di Benedetto XVI è certamente diverso da quello di Giovanni
Paolo II. In che cosa si differenzia secondo lei?
“Credo che si tratti di due personalità
molto diverse e che quindi i modi comunicativi riflettano due modalità
differenti. Papa Wojtyla aveva la caratteristica di entrare in relazione
emotiva con l’altro, riusciva a comunicare con le persone a livello
empatico. Questa sua capacità massmediale di entrare in relazione in
rapporto ai bisogni di chi aveva davanti era molto accentuata. Era il
Papa dei mass media. Non a caso li ha utilizzati molto bene. Papa
Benedetto XVI è un teologo fondamentalmente. Una prerogativa, che, tra
virgolette è il suo peccato originale. Nel senso che, nonostante tutto,
il suo modo di comunicare è essenziale, etimologicamente parlando. È un
“habitus mentale”, legato proprio al suo essere teologo. Andare alla
sostanza, alle fondamenta e restare molto legati a questo discorso delle
basi è il suo tratto dominante. Penso che nel mondo contemporaneo siano
indispensabili sia l’uno che l’altro. Adesso è arrivato il momento di
riagganciarci a quella che è la nostra tradizione. A quelli che sono le
fondamenta del nostro essere cristiani. Questo modo di comunicare
risponde ad esigenze di un momento storico che in tutta questa
instabilità richiede punti fissi di riferimento. In questo senso, penso
che la prospettiva comunicativa di Papa Benedetto XVI sia validissima,
perché viene incontro a bisogni molto forti e che lo stesso Pontefice
avverte perfettamente”.
Quale contributo
possono offrire in questo versante cruciale le teologhe e le religiose?
“Nel versante della comunicazione vale lo
stesso discorso da applicare in altri ambiti. Parlerei piuttosto di
donne in rapporto con qualsiasi aspetto del mondo. La donna ha una sua
sensibilità, una sua capacità di cogliere aspetti di una questione, che
non va trascurata. Nel versante della comunicazione, il contributo può
essere esattamente lo stesso che in politica e nella medicina.
All’interno della Chiesa e nella società italiana è ancora relegata in
secondo piano. Non dimentichiamoci che abbiamo alle spalle una
situazione di emarginazione culturale della donna, che solo a parole
appare superato, mentre di fatto è più critica che mai. Non credo, pur
non avendo dati in proposito, che all’estero la situazione sia
nettamente migliore. Quotidianamente ci scontriamo con difficoltà
crescenti di realizzazione in campi che sono appannaggio prettamente
maschile”.
Esiste una teologia
della comunicazione?
“Sono state messe le basi per una teologia
della comunicazione nel corso di questi anni. I fondatori di questa
possibile teologia della comunicazione sono a mio avviso, il cardinale
Carlo Maria Martini con “L’effata e il lembo del mantello”, Pierre Babin
che ha lavorato in Francia e l’americano Paul Soukup. Il problema è che
una volta poste le basi per poterla sviluppare, in realtà questa
teologia non è mai nata. In parte perché l’interesse teologico non è
andato in questa direzione, in parte perché non ci sono stati spazi
sufficienti. In realtà, l’elaborazione successiva a questi tre autori
non è stata altro che la riproposizione di alcuni loro punti di arrivo.
La situazione odierna è quella di un campo teologico che potrebbe
svilupparsi, ma che di fatto è bloccato per mancanza di interesse e di
stimoli. Pochi teologi, a mio avviso, lavorano nella ricerca in questo
settore. Vedo tanti che lavorano sul già fatto, ma sul nuovo no”.
Il Concilio
Ecumenico Vaticano II, nell’ambito della comunicazione, rappresenta una
pietra miliare. Ma, a poco più di 40 anni dall’evento più importante
nella storia della Chiesa nel secolo passato, cosa resta?
“Resta tanto, ma resta ancora tanto da
fare. Nel senso che il cammino compiuto in questi quaranta anni
apparentemente sembra pochissimo e banale. Se noi andiamo ad analizzare
in profondità da dove siamo partiti, ci accorgiamo che sono stati fatti
passi da gigante. Anche se sono un po’ nell’ombra, non appaiono in tutta
la loro ampiezza. Perché ci sembra di lavorare su cose scontate, ormai
datate. In realtà Inter Mirifica, la Communio et
Progressio hanno portato stimoli e impulsi enormi, soprattutto a
livello di cambio di mentalità. Il cambio di mentalità che, a mio
avviso, si è manifestato di più nella prassi che non a livello teorico.
Cioè nelle realizzazioni e nelle manifestazioni pratiche che non nella
riflessione teorica e nell’approfondimento teologico in questo senso. A
livello pratico, è stato fatto tanto, tantissimo. Quello che ancora è
tanto da realizzare è fare entrare questa dimensione pratica dal vissuto
esistenziale ad una riflessione teorica per farla ricadere nuovamente
sul vissuto esistenziale perché il rischio che si corre è quello di dare
vita a tante attività ed iniziative entusiasmanti non incanalate verso
un obbiettivo comune di sviluppo. Soprattutto questo vale all’interno
della Chiesa.
I problemi sostanzialmente sono due: quello di armonizzare questi
sviluppi e il secondo è legato ad un rapporto con il mondo
extraecclesiastico. Cioè, il non cercare di ridurre tutto a quello che
viene fatto all’interno della Chiesa. Ma aprirsi a proposte non
necessariamente rientranti nell’etichetta ecclesiale. Applicare nel
campo della comunicazione lo stimolo alla base della nuova
evangelizzazione: evangelizzare dal di dentro quello che già esiste in
modo da non creare strutture nuove che siano della Chiesa per questa
esigenza, ma modificare dall’interno quello che già esiste per dare una
testimonianza di fede dall’interno alle realtà esterne, anche non
cattoliche.
In base alla mia esperienza di lavoro di insegnante ad un liceo
scientifico, posso dire che utilizzare una strada come quella che
teologicamente è nota come via pulchritudinis, far cogliere cioè i segni
e la presenza del mistero di Dio e dei grandi problemi esistenziali
all’interno dei capolavori, delle opere d’arte e di percorsi filmici di
spessore è validissimo. È questa da considerare la via privilegiata.
Anche se la più difficile da seguire. Parlo per esperienza personale, è
capace di superare le divergenze e le etichette, arriva al cuore delle
questioni. Il messaggio è recepito, specie in un giovane. Credo che oggi
occorra lavorare su due aspetti comunicativi fondamentali del messaggio
cristiano: il primo è far riscoprire la via puchritudinis, far
riscoprire il bello e il valore della positività, l’altro è legato alla
testimonianza. Non tanto comunicare attraverso le parole, perché viviamo
immersi in una società inquinata dalle parole, quanto piuttosto
attraverso la testimonianza. È necessario quindi creare testimonianze
molto forti e di forte impatto comunicativo”.
Tra i suoi lavori
c’è “Annunciare il Vangelo con il linguaggio dei mass media”. La sua
opinione sul panorama attuale, dal punto di vista dei mezzi di
comunicazione di ispirazione cattolica, e sullo spazio alle donne in
questo ambito.
“Avendone già parlato prima preferisco
sottolineare un altro aspetto che secondo me è da curare: quello del
comunicare profetico. La riscoperta cioè nel mondo contemporaneo della
profezia. Il nostro essere portatori della profezia. Va ricordato che
nelle pagine bibliche la comunicazione di Dio passa anche attraverso la
profezia che rappresenta una forte modalità comunicativa a livello di
rivelazione. Credo che questo oggi vada sottolineato, vada riscoperto.
Significa riscoprire anche il valore del silenzio. La comunicazione si
esplica anche attraverso gli spazi del silenzio. Molte volte, più che il
nostro dire comunica il nostro non dire. Il nostro tacere. Le parole
sono tante, si rende difficile discernere tra le parole e le immagini, è
necessario ritornare al silenzio, allo svuotare, al rimettere ordine.
Prendersi tempi di riflessione, anche per metabolizzare. Credo sia
fondamentale per la comunicazione”.
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