|
|
|
|
English version
Nato a Missaglia, in
provincia di Lecco nel 1949, don Franco Giulio Brambilla è sacerdote
della diocesi di Milano. Ordinato sacerdote nel 1975, ha perfezionato i
suoi studi alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, prima
ottenendo la Licenza nel 1977 e poi conseguendo la Laurea con un lavoro
su La cristologia di Schillebeeckx nel 1985. Ha insegnato S.
Scrittura, Teologia spirituale e Antropologia Teologica nel Seminario di
Seveso fino al 1985. Poi insegna Cristologia e Antropologia Teologica
alla Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale dal 1984. Nella
Sezione Parallela del Seminario di Venegono Inferiore in provincia di
Varese, dove risiede, ha insegnato Cristologia, mentre attualmente
insegna Antropologia Teologica, ed è Direttore di Sezione del Ciclo
Istituzionale della Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale. Tra le
sue pubblicazioni: Risurrezione di Gesù e fede dei discepoli
(1998); Esercizi di Cristianesimo (2000); Alla ricerca di Gesù
(2001); Edward Schillebeeckx (2001); La redenzione nella morte
di Gesù. In dialogo con Franco Giulio Brambilla (2001);
Antropologia Teologica. Chi è l’uomo perché te ne curi? (2004),
Cinque dialoghi su patrimonio e famiglia (2006) Infine, ha
pubblicato numerosi saggi su La Scuola Cattolica (di cui è Direttore),
Teologia e Rivista del Clero Italiano, Servizio della Parola e altre
Riviste su temi di cristologia, antropologia e pastorale. A don
Brambilla, che è preside della facoltà teologica dell’Italia
settentrionale di Milano dal mese scorso, abbiamo posto alcune domande
su tematiche pastorali di stretta attualità.
“Solo nella collaborazione con tutti, nel dialogo, nella cooperazione
comune, nella fede come ‘cooperatores veritatis’ possiamo fare insieme
il nostro servizio”. Dialogando con i sacerdoti della diocesi di Albano,
Benedetto XVI ha ricordato che per comporre il mosaico del lavoro
pastorale occorre lavorare insieme. Quanto è realmente assimilato nelle
comunità questo punto? A suo avviso è questa la priorità del lavoro
pastorale?
“Possiamo partire
da due dati. Oggi, in Italia, abbiamo un grande numero di parrocchie
molto piccole e, dall’altra parte, abbiamo una diminuzione del clero con
innalzamento dell’età media. Dunque, lavorare insieme si presenta anche
come una necessità impellente, soprattutto nel diagramma che si va
delineando dopo il duemila. L’importante è stabilire dei livelli comuni
di lavoro comune e altri livelli dove il sacerdote rimanendo pastore
della sua comunità non può immaginare di allargare il suo orizzonte
confondendo la sua azione pastorale, ad esempio, con quella delle
comunità vicine. In particolare, occorrerà distinguere due livelli del
lavoro insieme: un primo che chiameremo “domestico” dove il sacerdote
continuerà ad essere un punto di riferimento e a porre gesti che sono
alla base della comunità dei credenti. Anche per questi gesti dovrà in
qualche modo interagire con le comunità vicine.
E il secondo,
quello dell’azione pastorale, che risponde ai bisogni esistenziali sia
di carattere spirituale che materiale come quelli della Caritas, del
lavoro e della cultura, della sanità, della pastorale giovanile e delle
famiglie, su cui il lavoro comune rappresenterà la sfida del futuro. Se
a questo livello, legato alla risposta mirata sulle esigenze della vita
delle persone, anche tra le comunità cristiane non decolla un lavoro a
rete, è chiaro che non è possibile immaginare un futuro con le attuali
forze del clero. A questo proposito anche le energie offerte dal laicato
sarà bene inserirle all’interno di questo sforzo di lavoro comune.
Questa è la prospettiva che propone una rinnovata coscienza missionaria:
l’evangelizzazione può essere oggi solo un’opera corale e sinfonica”.
In
una recente intervista alla vigilia del viaggio apostolico in Baviera
il Santo Padre ha detto che “le donne con il loro slancio e la loro
forza sapranno farsi il loro spazio” e si è rallegrato per il fatto che
“l’elemento femminile ottenga nella Chiesa il posto operativo che gli
conviene”. Come valuta queste affermazioni? E come legge la situazione
attuale dal punto di vista femminile, sia sul versante laico che
religioso, e le prospettive al riguardo.
“Credo che
l’affermazione del Papa sia molto saggia, perché da un lato valorizza
già la presenza della donna nella Chiesa ed in particolare nella Chiesa
cattolica dove è una presenza numerosa. Spesso dimentichiamo questo
dato. Ad esempio, ho constatato personalmente avendo fatto incontri in
questi ultimi mesi a livello catechistico che la trasmissione della
fede, per il 90%, è opera femminile. Così anche la presenza delle
religiose. L’importante è, secondo me, sviluppare sempre di più sia in
termini di capacità che di luoghi strategici, per dirla con le parole
del Papa, uno spazio adeguato per il “genio femminile”. Come diceva
appunto Giovanni Paolo II nella Mulieris Dignitatem. Quanto alle
prospettive, è inevitabile che diversi modi di presenza si rafforzeranno
nel tempo. L’auspicio è che il genio femminile di cui la chiesa ha
bisogno sia l’intuizione tipica della donna, senza ridurre semplicemente
la sua figura alla sensibilità e alla capacità sintetica, allo sguardo
amorevole sulla comunità e alla sua dedizione nel servizio. Soprattutto
la presenza femminile di carattere religioso introdurrà una sensibilità
verso il momento contemplativo della vita che è certamente molto
importante per la chiesa di oggi e di domani e che, in una Chiesa dove
la componente maschile spesso tende a prevalere, viene a mancare.
Rendendola una Chiesa preoccupata dell’efficienza, ma di fatto priva di
buone relazioni e dello spirito di comunione. Questo, secondo me, è il
contributo più interessante che il genio femminile può offrire”.
Priorità del pontificato di Benedetto XVI è il dialogo a tutto campo con
gli esponenti delle fedi religiose, così come ha ribadito nel suo
incontro con gli esponenti musulmani invitati a Castel Gandolfo. In
questo contesto, dove non mancano testimoni coraggiosi che pagano con la
vita come suor Leonella Sgorbati, quale contributo ognuno è chiamato ad
offrire nel proprio ambito?
“Credo che
l’incontro tra le religioni o tra le culture religiose non debba
avvenire appiattendosi su una specie di comune denominatore religioso a
cui poi si aggiungono alcuni riti o alcune istituzioni propri di una
religione. Ciascuna fede, in particolare quella cristiana con la
coscienza che ha della singolarità di Gesù, deve mantenere la sua
identità religiosa precisa e la forma del dialogo può essere quella che
parte da una “identità aperta”. Da una identità, cioè, che non ha
bisogno di sminuire le proprie caratteristiche per dialogare con
l’altra. Ma quasi di accentuarle, sapendo che le proprie peculiarità si
propongono e si mostrano di fronte all’altra. Questo vale soprattutto
per la religione cristiana, perché il suo messaggio non può offrirsi che
in modo disarmato e disarmante. Infatti, al centro della fede cristiana
c’è la croce di Gesù, che è la forma della carità di Dio che si offre
all’altro, anche al credente di un’altra religione, in una modalità non
impositiva, ma neppure vagamente propositiva. Anzi, si può offrire solo
in una forma che deve essere affascinante. Chiamo questo modo di porsi
una “identità aperta”, che ha la forma del ialogo dove c’è un logos,
un senso, una ragione da trasmettere e da comunicare. Il concetto di
ientità aperta tiene insieme sia la preservazione delle proprie
tradizioni culturali e religiose, sia la forma del dialogo franco e
sincero”.
Quali aspettative ha nei confronti del IV Convegno ecclesiale di Verona?
“Credo che il
quarto convegno ecclesiale di Verona sia già molto importante come
evento in sé stesso, se sarà un evento di ascolto tra tutte le
componenti ecclesiali là rappresentate. Mi sembra che questo periodo
della storia della Chiesa italiana sia un momento magico, perché le
parrocchie e le associazioni, con i vari gruppi e movimenti, tutte le
figure sia personali che associate di presenza del laicato cattolico, si
trovino in un momento favorevole per ascoltarsi e confrontarsi. Forse,
nei convegni precedenti si sottolineavano di più i contrasti e le
differenziazioni. Oggi, siamo in una stagione che su questo punto ha un
certo vantaggio. Credo però che sarà molto importante ascoltarsi con due
sottolineature. La prima è quella della speranza, cioè mostrando la
dimensione di un cristianesimo che afferma quell’altro e quell’oltre che
non è ancora presente nei modi attuali di vivere la fede cristiana. La
Chiesa deve lasciarsi di nuovo evangelizzare dall’origine, dalla
sorgente della fede cristiana: Gesù risorto. E la seconda è che questa
speranza sia detta nella forma peculiare della testimonianza, che è
quella dimensione che unifica i cristiani prima di ciò che li distingue
nei ruoli o nella contrapposizione tra religiosi e laici, o tra laici e
preti. Forse, abbiamo troppo accentuato nella chiesa questa distinzione
delle figure e dei ruoli ecclesiali e si è prestata meno attenzione alla
comune radice battesimale della testimonianza da offrire agli altri a
partire dall’unico evangelo che ci genera”.
Si
parla molto di crisi di vocazioni, e non da oggi, specialmente in
Europa. Possiamo conoscere la situazione letta dal suo osservatorio
privilegiato che è il seminario di Milano?
“Credo che la
crisi delle vocazioni offra segnali molto diversi. Ad esempio, a Milano
avremo un anno molto basso dal punto di vista delle ordinazioni, a cui
fa da contrappeso un numero incoraggiante di iscrizioni al primo anno di
teologia. Probabilmente, l’anno prossimo avremo un segnale diverso.
Certamente, la linea di tendenza è quella di una diminuzione di
vocazioni che deriva da due fattori contingenti: la denatalità, da una
parte, e il maggiore attaccamento delle famiglie ai figli. Nelle
vocazioni di speciale consacrazione, sia religiosa che sacerdotale, le
famiglie trovano forse meno investimento ideale da proiettare sul
figlio. Dall’altra parte, abbiamo certamente anche un deperimento nella
normale coscienza, sia culturale che cristiana, del valore della
vocazione di speciale consacrazione. Ed è forse questo il punto
importante su cui lavorare. Ma questo deperimento della coscienza del
valore reale della vocazione di speciale consacrazione è una emergenza
da leggere all’interno di una difficoltà più grande, che è quella di
vivere la vita come “vocazione”, che è una difficoltà che tocca tutte le
vocazioni cristiane. Anche quella matrimoniale, oggi, fa fatica ad
essere vissuta come vocazione, sottoposta al clima attuale che stenta a
vivere la durata temporale. Oggi, si sente magari una vocazione
convinta, ma non si è più in grado di dire come la vocazione fa a
rimanere fedele, a quali condizioni e con quali strumenti e con quali
aiuti, essa permane nella scelta compiuta. Oggi, il problema della
fedeltà è la difficoltà più grave. Certo, nelle vocazioni di speciale
consacrazione questo si vede subito e perciò cala il numero; nelle altre
vocazioni, non potendo calare il numero, è la qualità a risentirne.
Pensiamo, ad esempio, alla grande difficoltà alla tenuta delle vocazioni
alla vita matrimoniale.
Con il caso Welby è tornato alla ribalta un tema che non manca di
infiammare le coscienze: quello dell’eutanasia. Al riguardo, la Chiesa è
considerata da molti una voce ammonitrice, se non pure frenante. Come
uscire da questa posizione difensiva per parlare con chiarezza sul tema
della vita a tutti gli uomini?
“Credo che
dobbiamo innanzitutto attenerci all’insegnamento del Pontefice. Ricordo
in particolare una frase pronunciata dal Papa Benedetto XVI su un tema
simile. Quando nell’intervista alle emittenti tedesche gli fu chiesto il
motivo del suo discorso sul matrimonio a Valencia in occasione del
convegno mondiale delle famiglie, non incentrato su divieti ma
sviluppato in chiave positiva, il Papa rispose: “Avevo due spazi di
venti minuti. Il cristiano deve sapere dire prima il valore positivo
piuttosto che dire dei no”. Credo che questa deve essere l’indicazione
per tutti gli altri temi della vita morale. Saper dire, dunque, il
valore positivo, il senso praticabile, illustrare una morale dei
significati, prima che far leva su una morale dei casi (del lecito e
dell’illecito). Prendiamo ad esempio il tema proposto dalla domanda:
l’eutanasia. È urgente problematizzare un trattamento prevalentemente
clinico della malattia e, dunque, anche del momento terminale della
malattia. Nel trattamento clinico la questione sta nello stabilire il
momento esatto in cui una persona non è più in grado di vivere in
condizioni di vita soddisfacenti. Il problema vero è però conoscere le
condizioni reali in cui una vita, magari con la previsione di un esito
infausto, possa però essere ritenuta degna di essere vissuta dentro
relazioni di affetto, di amicizia e di solidarietà. Questo riuscirà a
dare al malato anche un’immagine non devastante della propria malattia,
quanto piuttosto un’immagine rassicurante di sé. Occorre accompagnare
prima il malato, anche nel momento terminale: questo deve prevalere su
tutto e questo è il valore positivo da annunciare. Al centro sta la
persona malata, non la malattia come una “cosa” che non sfida la libertà
e lo spirito del malato e che richiede una prossimità e una vicinanza.
Anche nell’ultimo momento occorre far sentire attraverso una forte
prossimità, che è l’icona della carità, che il malato è un valore anche
nella condizione terminale. Ciò dà risorse al malato per vivere
serenamente il suo momento difficile, perché è circondato da una
presenza e da una speranza”.
Fede e cultura vanno di pari passo e non fede e violenza: questo
l’assunto del discorso pronunciato a Ratisbona dal Pontefice in
occasione della sua ultima visita pastorale in Baviera, sua terra
natale. Condivide l’opinione di quanti hanno denunciato
l’approssimazione e la superficialità con cui alcune agenzie italiane
hanno trattato le parole del Papa innescando fraintendimenti e
incomprensioni? A suo avviso, il linguaggio usato da Ratzinger è in
grado di essere pienamente compreso da tutti?
“Credo che
l’attuale Pontefice – l’ho sentito anche durante la catechesi del
mercoledì – abbia il dono di dire cose profonde in poche parole e con un
linguaggio semplice. Ovviamente, il tema di Ratisbona aveva un
destinatario che era un senato accademico e studenti universitari. In
ogni caso, in quel discorso si faceva valere il rapporto tra fede e
ragione; e si puntava sul fatto che non si potesse attribuire al nucleo
più profondo della fede una qualche violenza. La violenza è il modo con
cui uno fa valere il proprio convincimento di fede o la propria
opinione, non sollecitando l’adesione libera dell’altro, ma imponendola
con violenza. Anche la fede, che non può non avere una componente
ragionevole, si rende presente alla coscienza dell’altro e richiede
l’adesione della libertà. Nella classica teologia della fede, gli
elementi della libertà, della ragionevolezza e del dono di grazia
funzionavano insieme. Il fraintendimento che è avvenuto si è verificato
sulla frase iniziale che però era solo l’occasione per introdurre tutta
la sostanza del discorso che ho richiamato or ora”.
|