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Bruno
Secondin (1940), carmelitano, ha studiato a Roma, in Germania e a
Gerusalemme, è dottore in Teologia e ordinario di teologia spirituale
alla Pontificia Università Gregoriana di Roma. Svolge la sua attività
pastorale a Roma, ma ha anche una vasta esperienza internazionale. Ha
pubblicato una trentina di libri ed è impegnato attivamente nella
rielaborazione della spiritualità nei nuovi contesti ecclesiali e
culturali. Collaboratore della rivista Consacrazione e Servizio fin dal
1980, con la Unione dei Superiori Generali ha collaborato attivamente
per i due grandi Congressi mondiali (1993; 2004), per il Sinodo sulla
Vita consacrata (1994) e in molte assemblee semestrali come teologo. A
lui abbiamo rivolto alcune domande su tematiche di attualità ecclesiale.
In
questo periodo assistiamo ad una rinnovata attenzione nei confronti
delle Sacre Scritture,che saranno al centro dei lavori del prossimo
Sinodo de i Vescovi. In che modo la Bibbia può essere strumento di un
rapporto tra laici e religiosi più fecondo?
“Questa attenzione alla Sacra Scrittura dura ormai da un
secolo, e certamente con il Concilio Vaticano II si è rafforzata e
collaudata, sia dal punto di vista della teologia biblica e sia dal
punto di vista dalla pastorale biblica. In particolare il cap. VI della
Dei Verbum resta un testo ancora oggi ispirativo. La novità degli
ultimi decenni consiste in una sinergia fra laici e religiosi
nell’accostamento alla Bibbia: ormai tanti sono i laici e le laiche che
conoscono bene la Scrittura e la sanno commentare in maniera egregia, e
anche fruttuosa per la vita spirituale. Anche tante suore sono capaci di
fare questo: penso alle molte testimonianze di lectio divina, per
esempio. Credo che questa comune esperienza, in passato del tutto
sconosciuta, possa dare ulteriori frutti se verranno implementate
letture appunto femminili e dalla prospettiva non clericale: la Bibbia
svela ricchezze insospettate con queste chiavi ermeneutiche. Provare per
credere!”
Benedetto XVI ha spesso esortato a non vivere la fede come una serie di
proibizioni moralistiche: nella quotidianità come farlo comprendere ai
laici?
“Siamo eredi di una tradizione di educazione cristiana che
ha fatto molta enfasi sui precetti e sui divieti, sulle osservanze e le
trasgressioni. Di conseguenza il moralismo era la sintassi comune a
tutta l’esistenza cristiana. Oggi le cose sono molto cambiate, almeno
nella teoria (o nelle teorie), ma nella vita concreta strascichi ce ne
sono ancora tanti. Per una vita quotidiana non coartata dal moralismo,
ma dinamica e liberante, dal punto di vista della fede, credo che
bisogna dar valore diverso alla stessa fede: come una adesione amorosa e
fiduciosa, come un cammino di guarigione e di trasformazione, come una
avventura aperta a nuove stagioni e a nuovi incontri, con Dio e con gli
altri.
Se c’è un cuore che ama e indaga con amore, allora la
Parola non sarà marginale, la celebrazione liturgica avrà lo spessore
del mistero vivo, la comunità sarà il luogo delle relazioni calde e
creative e non puro scenario di fondo, la presenza nella storia sarà
animata dalla sapienza orientatrice dei criteri evangelici, i segni dei
tempi saranno letti e interpretati con la passione per il Regno e non
con il gusto della catastrofe o della rivendicazione. Prima che agli
stessi laici, questi atteggiamenti devono essere insegnati anche a tanti
religiosi, troppo chiusi nel mondo ‘religioso’, fatto di rimasugli poco
essenziali!”.
Nella sua prolusione in occasione dell’ultima assemblea generale
l’Arcivescovo di Genova, Mons. Angelo Bagnasco ha trattato il tema delle
famiglie a rischio povertà. In questo quadro le religiose come possono
svolgere un’opera di apostolato realmente efficace?
“L’avvertimento
lanciato da mons. Angelo Bagnasco nell’ultima Assemblea CEI rende
pubblico ciò che tutti da tempo constatiamo nel quotidiano. C’è una
pauperizzazione in atto delle fasce meno protette, che sta devastando
la vita di milioni di famiglie. Ora questo fenomeno dalle dimensioni
forse più ampie di quanto sospettiamo, richiede sia una visualizzazione
adeguata dei contorni del fenomeno stesso, sia una strategia di
interpretazione, in vista di una sollecitazione ad interventi sia di
tipo volontario e di benevolenza, sia di tipo strutturale e politico. Le
religiose possono e debbono a livello locale responsabilizzarsi
nell’immediato e nel concreto, ma anche operare con sinergia assieme a
tanti altri organismi che sono sensibili a questo problema, per una
strategia di interventi che mentre alleviano la sofferenza e la
umiliazione, mettano in cantiere anche mediazioni nuove e favoriscano il
superamento di questi disagi con una azione lungimirante. Se non si
interviene con proposte strutturali a lungo termine (per es. fondi per
emergenze sociali di questo tipo, rivalutazione delle pensioni di
anzianità, ridistribuzione delle risorse a sostegno delle fasce deboli,
ecc.) si avrà sempre da fare con un nugolo di casi, senza vederne una
via di uscita”.
Nel
messaggio scritto per la giornata missionaria mondiale 2007 che ricorre
il prossimo 21 ottobre, Benedetto XVI ha messo l’accento sull’”urgente
necessità di rilanciare l’azione missionaria di fronte alle molteplici
e gravi sfide del nostro tempo”. In che modo?
“Che lo slancio
missionario sia sempre da rilanciare, mi pare una cosa ovvia. Non perché
sia venuto meno – cosa che anche potrebbe in certe circostanze essere
vera – ma perché sempre nuove sono le sfide a cui si deve far fronte. E
allora non bastano le vecchie risposte, che hanno relazione con vecchie
sfide e vecchie domande religiose. Oggi di fronte alle nuove situazioni
religiose – dialogo e mescolanza di religioni; esplosione di mille
credenze fosforescenti fai-da te-; rigurgiti fondamentalisti che
arrivano fino alla violenza sacra; nuove correnti culturali che sfidano
vecchie categorie religiose; l’idolatria del mercato e della
globalizzazione istantanea e shoccante; appartenenze religiose multiple
e a puzzle; perdita della memoria cristiana di intere nazioni; ecc. –
bisogna mettersi seriamente in processo di conoscenza e discernimento,
di elaborazione di risposte nuove e di attuazione di progetti coerenti e
rispondenti.
Bisogna sempre dare
all’attività missionaria un cuore innamorato, una passione che sa
sfidare ostacoli e barriere, paure e intolleranze. Direi che bisogna
anche domandarsi se certe modalità di attività missionaria
ereditate e conservate con molta cura davvero abbiano forza
evangelizzatrice. Penso ai molti istituti religiosi che sono accorsi
all’est europeo, con mezzi potenti e aria da evangelizzatori sicuri di
sé: davvero quelle popolazioni avevano bisogno delle nostre opere
“occidentali” per riprendere il cammino della fede? Davvero abbiamo
saputo rispettare i valori di comunione e di testimonianza che in quei
paesi erano sopravvissuti raso terra, tramite i vecchi, i laici,
le persone minori, eppure con efficacia avevano conservato semi di fede
vera e sofferta? Ora, arrivando questi bulldozer delle opere
delle varie congregazioni quelle esperienze di sinergia e di comunione,
di fraternità e di parresia tenace sono schiacciate come l’erba in un
prato dove passa il camion. Troppa gente è accorsa all’est europeo con
l’animo del conquistatore e dell’ammaestratore, senza alcun rispetto
della cultura, della sofferenza e delle tradizioni locali. E lo stesso
discorso, per altri aspetti, si potrebbe fare per altri continenti.
Credo che sia giunto il tempo di una rivoluzione copernicana anche per
l’attività missionaria di tanti istituti religiosi: ma avranno il
coraggio e l’audacia di mettersi in questione, di ripensare radicalmente
tutto?”.
Lo
scorso 7 maggio il Papa ricevendo le partecipanti alla plenaria della
UISG ha parlato delle non poche sfide sociali, economiche e religiose
che la vita consacrata deve affrontare nel tempo presente. Quale è a suo
avviso il nodo più complesso e al tempo stesso più urgente da
affrontare?
“Di sfide sociali ce
ne sono a decine. Enumerarle non sarebbe difficile. Quello che invece fa
molta più difficoltà è la strategia con cui si riconoscono, si
interpretano e si inseriscono in una strategia di nuova testimonianza
evangelica. Troppo facilmente diamo per scontato di aver capito le sfide
nuove, per il fatto che abbiamo sentito qualche relatore parlarne,
abbiamo letto in qualche giornale o rivista “nostra” delle diagnosi
generiche e superficiali, ma che a noi sembrano rivelazioni angeliche.
Manca l’abitudine, e ancor più la mentalità culturale, per una diagnosi
seria ed esaustiva, perché l’impegno culturale è parecchio in ribasso in
questi anni fra i religiosi e le religiose. Si adottano interpretazioni
e soluzioni così per sentito dire, con una superficialità accompagnata
dalla presunzione che tanto le cose si capiscono lo stesso anche senza
tante teorie, e poi in fondo quando c’è buona intenzione tutto si
aggiusta. Questo fideismo che vorrebbe far onore a Dio, di fatto lo
offende: lo stile che ci vuole oggi è una fede pensante e interrogante,
una lettura seria, documentata e non a spanne dei fenomeni sociali e
culturali, una elaborazione intelligente, professionale ed efficace
(anche dla punto di vista razionale) delle reazioni e dei rimedi, dei
progetti e delle iniziative. Troppa irrazionalità, ammantata di
soprannaturalismo bigotto, una irrefrenabile banalizzazione della
complessità dei fatti e dei fenomeni, caratterizzano molte attività dei
religiosi e delle religiose, nonostante tutto l’aggiornamento. Investire
in cultura seria e robusta, in capacità di analisi e diagnosi, in
progettualità non improvvisata né arroccata, in sinergia col territorio
e le istituzioni, questa è la premessa secondo me per rispondere alla
sfide del tempo in misura adeguata e di valore”.
“Chiamate a tessere una nuova spiritualità che generi speranza e vita
per tutta l’umanità” è stato il tema dei lavori dell’ultima assemblea
delle religiose. Il simbolo scelto, cioè, del tessere. Cosa le
suggerisce in rapporto al contributo religioso femminile?
“Il linguaggio della
tessitura mi piace, e anch’io l’ho usato tante volte in questi anni. Più
che facitori di opere già complete, mi piace considerare i religiosi
come tessitori di incontri e dialoghi, di risposte provvisorie e
soluzioni parziali, quali interpreti sapienti e orientatori flessibili.
Solo a lungo andare e lavorare certe trame dei tessuti prendono forma e
bellezza. Ma bisogna lavorare nel provvisorio, con certezze appena
intuite, che si fanno mature lungo il cammino, prendono splendore e
forma proprio nel loro intrecciarsi con altri punti di vista e di
azione. Occorre liberare il nostro immaginario collettivo dalla
convinzione che possediamo già tutta la soluzione ben confezionata e
inquadrata, basta metterla in esecuzione; questo esige uno sforzo non
indifferente e anche risorse di persone e di mentalità che forse non
abbondano tra noi.
E non potrebbe essere
che proprio la mancanza di progettualità aperta ai mille protagonismi, e
di fatto controllata invece in partenza nei minimi particolari per non
perdere il dominio, sia proprio la causa di scarse disponibilità da
parte dei giovani di mettersi insieme con noi? Troppo sacra per molti di
noi è la manutenzione ordinaria dell’esistente, con una paura
paralizzante per avventure creative ed esploratrici. Ci ripariamo sotto
il guscio del noto e ripetuto, come il paguro sotto il suo guscio,
vivendo di rendite di posizione.
Mentre in tutto il
mondo la nuova coscienza femminile sta spingendo le donne verso un
protagonismo sempre più coraggioso e liberatore, le religiose hanno
ancora paura perfino ad usare la terminologia propria di questa visione
culturale, temendo di offendere o irritare i “maschi” (e ancor più i
chierici) che invece detengono schemi e valutazioni, linguaggi e simboli
da secoli, e non li dismettono mai. Perfino Giovanni Paolo II ha parlato
di “nuovo femminismo”, anche per le religiose (cf. VC 58) ma questa
coscienza – nel senso migliore e propositivo – decolla a bassa quota
ancora in tantissime religiose, che anzi si colpevolizzano se talora si
sentono attratte verso qualche posizione “femminista”, anche la più mite
e innocente. Se una volta per le ragazze erano le religiose il simbolo
di una emancipazione e di un protagonismo autonomo, rispetto al
maschilismo tossico, oggi le ragazze vedono nelle suore tutt’altra
simbologia e niente affatto il simbolo di una emancipazione
affascinante. E se proprio da questa allergia delle giovani si partisse
per una revisione seria, profonda, che diventi percorso euristico di
nuove imprese? In certe nazioni che conosco questo processo è in atto sa
decenni; in Italia non decolla mai, tutto è senza originalità”.
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