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“Il
legame tra Eucaristia e carità”, “Il sì di Dio all’uomo” ed “Evangelizzazione
e servizio” sono le tre scelte di fondo che caratterizzano la nota
pastorale dei vescovi italiani a conclusione del quarto convegno
ecclesiale nazionale che si è svolto a Verona lo scorso mese di ottobre.
Il documento, che è stato reso noto alla fine del mese di giugno, si
propone di rilanciare le piste di lavoro emerse a Verona e s’inserisce –
come ha spiegato monsignor Angelo Bagnasco presidente della Cei e
arcivescovo di Genova intervenendo al convegno nazionale delle Caritas
diocesane a Montecatini Terme – nel solco dell’enciclica sull’amore
cristiano di Benedetto XVI. Sugli spunti più interessanti della nota
abbiamo interpellato monsignor Vittorio Peri, della diocesi di Assisi -
Nocera Umbra - Gualdo Tadino, nella quale ha svolto anche l'ufficio
di Vicario generale. Già ordinario di diritto canonico e preside
dell'Istituto teologico di Assisi e assistente nazionale del Centro
sportivo italiano. Attualmente è presidente nazionale dell'Unione
apostolica del clero e, in diocesi, vicario episcopale per la cultura.
“E’ essenziale in questo cantiere aperto il
contributo di credenti sul piano etico, spirituale, culturale, economico
e politico”: è quanto si legge nella nota pastorale sul quarto convegno
ecclesiale di Verona dello scorso ottobre che è stata recentemente
diffusa. A Suo avviso, in che modo e con quali modalità mettere in
pratica questo invito della Cei? E come accoglierlo specie per quanto
riguarda le religiose?
L’immagine del
cantiere aperto, usata da Giovanni Paolo II nella Giornata mondiale di
preghiera per la pace (Assisi, 1986) per invitare tutti a costruire la
pace, torna ora nella Nota pastorale dei vescovi a conclusione del 4°
convegno ecclesiale di Verona. L’immagine è suggestiva. Dice infatti che
nel cantiere della nuova evangelizzazione, comprendente i tre principali
ambiti dell’annuncio-catechesi, liturgia e carità, tutti debbano
trovare il loro posto.
Anche le
religiose, ovviamente, secondo modalità coerenti con la loro peculiare
forma di vita. Su questa modalità sono state scritte montagne di pagine,
e non è qui il caso di aggiungerne altre.
Credo invece più
utile cercare risposte non scontate o di maniera ad alcune domande. I
cicli formativi delle giovani suore, ad esempio, sono impostati
sull’urgentissimo compito della comunicazione del Vangelo in un mondo
del tutto cambiato anche solo rispetto a qualche decennio fa, oppure
sono sostanzialmente modellati sui bisogni di una cultura del tutto
tramontata? E ancora, il loro futuro è visto in termini di impieghi per
lo più casalinghi casalinghi o intra moenia, oppure nella
ineludibile prospettiva di qualificati servizi pastorali? e in questo
caso, è adeguata l’offerta formativa culturale e teologica per un
adeguato svolgimento di tali compiti? E inoltre, i tradizionali segni
esteriori della vita religiosa sono significativi di che cosa? Che
valenza hanno i loro codici comunicativi?
Si tratta di
interrogativi forse scomodi. Ma, come dicono i vescovi nel Catechismo
degli adulti, “l’assenza di domanda e di ricerca è più pericolosa
delle risposte sbagliate” (p. 42).
Nel documento intitolato “Rigenerato per una
speranza viva. Testimoni del grande sì di Dio all’uomo” si invoca il
rispetto della dignità della persona umana e della sua centralità in
ogni momento della vita a partire dalle scelte economiche e dalle
politiche sociali del Paese. Si tratta di un punto centrale per il
futuro del sistema Italia su cui, in base al suo osservatorio
privilegiato, si punta con una precisa strategia?
Potrebbe sembrare
perfino superfluo ribadire la centralità e la dignità della persona,
viste le apodittiche affermazioni, ad esempio, della Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite (1948) o
dell’enciclica Mater et Magistra di Giovanni XXIII (1961).
La Nota torna
invece su questo tema al n. 16 ponendo, anzitutto, la “questione
antropologica”, ossia la domanda su che cosa sia l’uomo e che cosa
significhi essere uomo. Quando infatti si accantonano le cosiddette
“domande di senso”, il valore della vita umana è sempre a rischio. C’è
poi la più ampia “questione della verità”: è possibile raggiungere una
verità che non sia soggettiva e provvisoria, ma oggettiva e impegnativa,
così da fondare comportamenti etici universalmente condivisi? Risposte
divergenti a tali domande non possono che generare divergenti scelte
politiche, economiche, scientifiche ecc.
Anche da qui
risalta la necessità che le comunità ecclesiali – tutte! - diventino
anche scuole ove s’impara a riflettere sui grandi problemi della cultura
contemporanea.
Una parte non secondaria è dedicata
all’azione dei laici di cui si rilancia l’impegno ecclesiale. In questo
senso, quale strategia è secondo lei la più opportuna per questo
rilancio?
Potrebbe una Nota
pastorale mettere in seconda fila i laici che, nel cantiere della nuova
evangelizzazione, dovrebbero essere 98% dei lavoratori? Si affermano
alcune urgenze, quali: “accelerare l’ora dei laici”; riconoscere il
“ruolo specifico che spetta agli sposi cristiani”; “creare nelle
comunità cristiane luoghi in cui possano prendere la parola”; promuovere
“forme di spiritualità tipiche della vita laicale”; rivitalizzare le
“consulte delle aggregazioni laicali”, ad ogni livello.
Si potrebbe
perfino dire che non c’è nulla di nuovo, in tutto questo; ed è vero. Ma
se siamo ancora qui a rimestare nel mortaio è perché non abbiamo preso
nella dovuta considerazione il basilare documento Christifideles
laici di Giovanni Paolo II (1988). Bisogna tuttavia perseverare,
perché gutta cavat lapidem come dicevano gli antenati latini, e
perché prima o poi il “gigante addormentato”, come taluno ha definito il
laicato, si risveglierà.
Nel suo ruolo di vicario episcopale per la
cultura della diocesi umbra – inedito perché ancora poco presente nelle
226 diocesi italiane – quali problemi si trova ad affrontare? E quali
gli obbiettivi che persegue?
L’ufficio è di
recente costituzione e ancora scarsamente presente nelle nostre diocesi;
non ci sono dunque molti riferimenti sui compiti da svolgere.
Direi tuttavia che
suo compito primario è quello di favorire lo spessore culturale di tutta
l’azione pastorale della Chiesa, Più che programmare ulteriori
iniziative pastorali, tende ad evidenziare la necessità che ogni
attività pastorale faccia crescere nei battezzati la capacità di
pensare, di riflettere sui fondamenti e sulle esigenze della fede. “Una
fede che non diventa cultura – come disse nel 1982 Giovanni Paolo II - ,
non è pienamente accolta e non fedelmente vissuta”. Un cristiano che non
pensa è incapace di dare ragione della propria speranza, di confrontarsi
con altre correnti di pensiero, di fare opinione. In breve: è tagliato
fuori.
Da qui la
necessità che tutte le comunità ecclesiali – anche le istituzioni
religiose! – siano luoghi dove s’impara certo ad agire, ma anche a
pensare la fede, in modo da poterla vivere e testimoniare adeguatamente.
La difficoltà sta proprio in questo: che organizzare è più facile che
riflettere, confrontarsi e verificare; che l’urgenza delle cose da fare
prevale sempre sull’esigenza della riflessione, senza contare che non di
rado il pensare è ritenuto un’attività astratta.
Più che opportuno
dunque il ripetuto invito di Benedetto XVI, riportato anche dalla Nota
dei vescovi, ad “allargare gli spazi della razionalità”.
Favorire la crescita culturale dei fedeli non
è impresa facile. Come si propone di raggiungere lo scopo? La recente
visita del Papa in questo senso è stata proficua?
Venendo in visita
ad Assisi per l’ottavo centenario della conversione di Francesco, il
papa non solo ha incontrato varie comunità religiose, ma ha detto loro
cose molto esigenti. Con riferimento al nuovo assetto unitario da lui
voluto per la diocesi, Benedetto XVI ha rilevato “la necessità che le
persone e le comunità di vita consacrata, anche di diritto pontificio,
si inseriscano in modo organico, in conformità alle loro Costituzioni e
alle leggi della Chiesa, nella vita della Chiesa particolare. Tali
comunità, se hanno diritto di aspettarsi accoglienza e rispetto per il
proprio carisma, devono tuttavia evitare di vivere come ‘isole’, ma
integrarsi con convinzione e generosità nel servizio e nel piano
pastorale adottato dal vescovo per tutta la comunità diocesana”.
Parole di grande
attualità per le comunità religiose di Assisi come di ogni altra Chiesa
particolare, e in perfetta sintonia con l’ecclesiologia di comunione del
Vaticano II.
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