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English version
Tempo di dibattiti e di
bilanci quarant’anni dopo il 1968 e il vento della contestazione.
Benedetto XVI ha ravvisato nel ’68 una “cesura storica” e una “crisi
della cultura in Occidente”. Il teologo Ratzinger interpretò il ’68 come
un conflitto tra visione religiosa e opzione secolaristica ed ebbe modo
di scriverne nella sua autobiografia. Il carmelitano Bruno Secondin è
docente di Spiritualità all'Università Gregoriana di Roma e da molti
anni è impegnato nell'animazione spirituale di gruppi e di comunità.
Esperto in temi di vita religiosa, relatore a convegni nazionali e
internazionali, collabora a varie riviste per i temi di spiritualità,
vita consacrata e nuove esperienze pastorali. A lui abbiamo rivolto
alcune domande su questo periodo storico, ricco di spunti e di fermenti
culturali.
Nel 1968 l’allora giovane professore Joseph
Ratzinger scrisse il libro “Introduzione al cristianesimo” tradotto in
oltre trenta lingue. Il saggio di Papa Benedetto XVI fu pubblicato in un
anno di grandi rivoluzioni culturali e sociali. Possiamo considerarlo
ancora oggi, attuale e rivelatore del suo pensiero teologico?
“Quel libro fu una
rivelazione per tutti noi, perché poneva in una luce nuova le eterne
questioni dell’identità del Cristianesimo. Erano tempi di grandi fervori
teologici, e di nuove proposte: come la teologia della speranza (J.
Moltman), la teologia politica (J.B. Metz), una nuova sacramentaria (E.
Schillebeeckx), un ripensamento sulla giustificazione (H. Küng), ecc. Ed
erano anche i primi anni di Concilium, la rivista internazionale
di teologia alla quale lo stesso Ratzinger partecipava: davvero furono
anni formidabili, e quel testo di Ratzinger, seppur giovane teologo,
fece una enorme impressione, per la chiarezza, la efficacia, la
sensibilità culturale nuova. Stavamo tutti cercando di orientarci con
sapienza e intelligenza nel nuovo che stava vorticosamente emergendo.
Ancora oggi si legge con soddisfazione e sorpresa.”
Recentemente Papa Benedetto XVI ha definito
l’enciclica di Papa Paolo VI Humanae Vitae, pubblicata il 25
luglio 1968, “segno di contraddizione” straordinariamente attuale.
Quarant’anni dopo la promulgazione, la ritiene ancora attuale?
“Paolo VI ebbe il
coraggio e l’audacia di pubblicare quella enciclica contro il parere
della maggioranza dei membri della speciale commissione da lui stesso
istituita. E si trovò anche degli interi episcopati nazionali che
sollevarono riserve e tentarono delle mediazioni pratiche che
orientavano in maniera meno rigida quelle indicazioni. Furono anni di
non poche sofferenze per Paolo VI, ma egli portò la croce della sua
scelta con umiltà e fermezza. A distanza di quattro decenni si deve
riconoscere non solo la sapienza di quella scelta, ma anche la grande
rivoluzione avvenuta in tutto il campo della bio-etica: con problemi che
sono ben più grandi della contraccezione di allora, ma intaccano alle
radici le sorgenti della vita. Le minacce che derivano dalla
manipolazione selvaggia – ammantata di esigenze scientifiche pure – di
queste radici sono sotto gli occhi di tutti. Certamente oggi ci sarebbe
bisogno di fare un ripensamento molto complesso, di fronte alle
emergenze in atto. La morale cattolica si trova ad inseguire quasi con
spasmo uno sviluppo selvaggio, con conseguenze rischiosissime, neppure
pensabili al tempo di Paolo VI. E Benedetto XVI sta percorrendo strade
simili a quelle di Paolo VI, vigilando con intelligenza e intervenendo
con libertà coraggiosa in un campo che certo non manca di complessità e
ambiguità”.
Benedetto XVI, a proposito dell’anno della
grande contestazione, ha parlato della ‘crisi della lotta culturale
scatenata nel ’68 dove sembrava passata l’era storica del cristianesimo…
promesse del ’68 non mantenute’. Come si pone la Chiesa nei confronti
dei fermenti dell’epoca?
“A distanza di tanti
anni, certamente si possono fare bilanci ed enumerare perdite e guadagni
e di questi tempi bilanci ne ho letti parecchi. In genere mi pare che in
questa impostazione dei bilanci si manchi di prospettiva. Chi ha vissuto
quella fase storica – io l’ho vissuta in pieno sulla mia stessa pelle e
nella mia anima, e anche nella mia esperienza di consacrato, da poco
sacerdote – sa che le convulsioni erano parecchie, ma anche la
sensazione di una specie di palingenesi (una rinascita dalle fondamenta)
era comune sentire. Veramente io dico benedetto quel maggio ’68 anche
per la Chiesa: non per quello che ha distrutto e per i detriti che ha
lasciato (che non sono pochi), ma perché ci ha dato la possibilità di
vivere una focosa stagione di utopie e di esperimenti, di rotture e di
nuove esplorazioni, di passioni non tristi e di rimescolamento di ogni
carta. Molti si sono persi per strada, molti non avevano la robustezza
d’animo per discernere e orientarsi.
Ma certamente c’è
stato anche molto dello Spirito santo in quel contesto: ne sono prova i
movimenti ecclesiali che in quegli anni nascevano o si rinnovavano, ne
sono prova gli enormi sforzi per una ricomprensione originale delle
ispirazioni carismatiche delle origini di tanti istituti religiosi, ne
sono prova le nuove esperienze ecclesiali che su quell’humus hanno preso
slancio e parresia, come per es. le Comunità ecclesiali di base
dell’America latina. E potrei aggiungere molte altre cose. Certamente
nel marasma del periodo – a cui hanno dato buona mano anche le
resistenze sorde e stupide di alcuni conservatorismi ottusi – abbiamo
anche conosciuto perdite secche di valori e di patrimoni esperienziali
secolari. Ma è normale in questi frangenti che ci siano anche perdite
gravi, accanto a innovazioni carismatiche e scoperte originali. Non
parlerei di promesse non mantenute: ma di logica e dolorosa selezione
fra le utopie e i sogni, per cui non tutto ha potuto venire alla luce,
realizzarsi, rinnovarsi. Demonizzare quel periodo, anzi ridicolizzarlo,
vuol dire non conoscere le dinamiche storiche e illudersi che i cambi
epocali avvengano secondo gradualità sagge e sapienti architetture.
Invece avvengono nella confusione e nel marasma, sempre. Meglio comunque
allora rispetto al caos calmo attuale”.
Condivide l’osservazione di Edmondo Berselli
pubblicata su Repubblica secondo cui “il ’68 non ha avviato una
rivoluzione politica, ha piuttosto innescato una trasformazione
spirituale, ponendosi come un evento di crisi”?
“Se prendiamo la
parola krisis nel senso etimologico, di percorso di giudizio e di
valutazione, di discernimento e selezione fra polarità diverse, possiamo
dire che oltre alla fenomenologia spettacolare di tante “contestazioni”,
al fondo c’è stato davvero uno scotimento non superficiale di tutto il
sistema, specie dell’ethos culturale e spirituale. E che ne
sarebbe stato di tutto il nostro sentire religioso collettivo se non ci
fosse stata proprio questa messa in crisi, per una nuova
esplorazione inventiva e creativa, per una passione non triste, per una
utopia, seppure esagerata, ma di cui avevamo bisogno? Certamente tra i
sussulti della rotture di un sistema più duro del cemento armato e la
ricomposizione di un nuovo paradigma, come frutto maturo e stabile, non
bastano neppure questi quaranta anni. Tutto si è messo a correre, tutto
ancora assomiglia (certo sto esagerando) alle macerie di ground zero,
ma grazie al cielo che siamo stati costretti ad abitare nuovi orizzonti,
a vivere di certezze provvisorie, a incendiare catafalchi polverosi di
stili di vita e di istituzioni sacralizzate indebitamente. Non siamo
ancora arrivati alla ricomposizione matura e condivisa. E chi può
illudersi che mai ci arriveremo in una fase storica di così ampi e
ravvicinati cambiamenti? Siamo in un’epoca non solo di cambiamenti, ma
nella fase di cambio d’epoca, di paradigma. Il terremoto sussultorio e
ondulatorio nei nuclei vitali e vincolanti del vivere e dello sperare
non è ancora concluso. Anche Giovanni Paolo II ha dato degli spintoni
non lievi per far ballare la cristianità e la realtà. Ora Benedetto XVI
sente più urgente offrire delle scosse di assestamento, per dirla con
l’immagine del terremoto, ma certamente anch’esse non sempre senza
panico”.
Nel 1968 la Chiesa era reduce dal grande
evento del Concilio Ecumenico Vaticano II, i cui lavori si erano
conclusi tre anni prima. Quanto degli spunti conciliari sono stati
assimilati, oggi, nella Chiesa e quali in particolare si sono rivelati
preziosi per le religiose?
“Prima ancora che
terminasse, il Concilio aveva provocato già degli sconquassi, mostrando
che di cose obsolete, di modelli di vita deculturati, di linguaggi
sfocati e vacui, di imposture ammantate di sacro ne avevamo una caterva,
e bisognava darsi da fare per una rigenerazione seria e urgente, non più
rimandabile. E come per tutti i Concili della storia, anche il Vaticano
II ha dato prova certa che ci vogliono almeno alcune generazioni perché
gli orientamenti e le proposte diventino realtà, abitudini acquisite,
identità qualificante. Ognuno dei quattro decenni ha avuto i suoi punti
focali positivi, ma anche le sue catastrofi, i profeti audaci e le
vittime di carnefici custodi dello statu quo, impauriti e confusi. Fra
le acquisizioni che possiamo riconoscere consolidate per la vita
consacrata – nel lungo periodo, ma penso che ci vogliano altre due
generazioni ancora – la centralità della Parola di Dio come alimento
della vera spiritualità, la coscienza di avere una funzione ecclesiale
non di puro supporto, ma di audacia e genialità (il “genio femminile”),
l’acquisizione di una cultura adeguata per abitare questa storia e
discernere con libertà e non con supina sottomissione, la solidarietà
con i flagellati della terra, ma non solo per compassione, ma anche con
strategie intelligenti e la partecipazione nei grandi organismi
decisionali, la solidarietà con i fermenti del mondo laicale più che con
le preoccupazioni della mentalità “clericale” e le propaggini polverose
della “fuga mundi”, la coscienza di dover abitare le emergenze con
audacia e profezia, più che limitarsi alla gestione di opere
tradizionali pesanti e dagli effetti spesso ambigui. E potrei continuare
parlando delle nuove forme di itinerari formativi, della nuova coscienza
missionaria, della nuova generazione di teologhe, della preghiera più
contemplativa e meno intasata di devozioni e pratiche pie, ecc. ecc”.
Dossetti, don Milani, don Mazzolari: a quale icona di sacerdote associa
il 1968?
“Io non li assocerei
al ’68 in linea diretta. Don Milani e don Mazzolari non vi sono neppure
arrivati. Ognuno nel suo genere ha alimentato per vie proprie le radici
che hanno dato linfa al ’68, ma certamente ci sono stati altri sacerdoti
che sono stati in prima linea in quegli anni, senza diventare per questo
gli unici modelli. Molti ricordano per esempio p. Balducci, p. Turoldo,
fr. Carretto, ma anche mons. Bettazzi, don Giussani, mons. Riva, p.
Sorge, tanto per citare il minimo. Ma anche nomi un po’ “sospetti” –
come dom Franzoni, don Mazzi, don Cuminetti, p. Brugnoli , don Barbero,
ecc. – hanno dato in quegli anni apporti, forse anche aggressivi e
taglienti, che hanno lasciato il segno. Certo la storia oggi è altra, ma
ci sono ancora questi audaci esploratori, interpreti geniali, veggenti
dallo sguardo penetrante? Ne abbiamo bisogno urgente, per non morire di
tristezza. Quanto a Dossetti egli rimane un esempio di probità culturale
ed ecclesiale, che ha accompagnato quella fase sussultoria, ma rimanendo
ancorato alle grandi linee del Concilio, e scavando dentro quelle
intuizioni, senza troppo mescolarsi con le contingenze momentanee. Anche
di questi “saggi” c’è bisogno nei momenti di burrasca. Lo stesso hanno
fatto altri, quasi defilandosi dalle convulsioni, ma mantenendo accesa
la lampada della verità più profonda, senza disprezzare l’affanno
momentaneo, anzi ascoltandolo con sapiente pazienza”.
Alla luce del movimento femminile che si farà
notare con una mobilitazione collettiva e cortei, come muta il ruolo
della donna e delle religiose in particolare nel 1968?
“È fuor di dubbio
che il ’68 ha portato uno sconquasso senza misura anche nella identità e
nella posizione sociale della donna. Non dobbiamo vedere solo le
esagerazioni delle femministe spregiudicate, che si liberavano non solo
dalle repressioni e dalle oppressioni maschiliste, ma anche da una
cultura secolare che le aveva relegate al margine delle istituzioni
sociali e delle responsabilità pubbliche, dentro stereotipi (maternità,
fragilità, subalternità, emotività, ecc.) sacralizzati e ancora,
purtroppo, molto diffusi. Vediamo anche il maturare di una nuova
identità, un nuovo protagonismo, una nuova corresponsabilità, una nuova
“genialità” complementare e non dipendente. Certo ci sono state delle
esagerazioni e delle mitologie autoreferenziali (es. “ l’utero è mio e
lo gestisco io”) dissacranti; ma anche il mondo intero è stato
rivoluzionato dalle fondamenta attraverso le spinte migliori del
femminismo non aggressivo, e anche per le suore questo è stato un
orizzonte nuovo di senso e di valori che si è aperto e le ha coinvolte.
Di strada da fare ce
n’è ancora parecchia: ma non è importante che sia stata percorsa tutta,
ma che ci si muova e non si ritorni indietro, magari per paura o
autocensura, per minacce clericali o perché impaurite dalla perdita di
identità dei maschi. Questa sì che è una vera tragedia: la perdita di
sicurezza e di identità dei maschi, di fronte alla nuova donna, alla sua
autonomia, alla sua genialità culturale e manageriale. A mio parere
anche nella vita religiosa la crisi di identità affetta più i maschi che
le femmine, perché quelli non hanno ancora metabolizzato la nuova
identità femminile, per porsi di fronte ad essa con autenticità.
Troppe paure (conscie o inconscie) emergono dal vissuto e si
cristallizzano in certe prese di posizione rigide e paternalistiche
insieme, segno di una incertezza che va curata e non sacralizzata con
ricorsi magici all’autoritarismo o all’allarmismo ammantato di prudenza,
che non riesce a nascondere lo sconcerto di una nuova identità liberata.
Eppure la Chiesa avrebbe tutto da guadagnare da una matura coscienza
liberata e liberante – in comunione ecclesiale si capisce – delle donne
e anche delle donne consacrate”.
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