La Chiesa e la società oggi
        
nelle parole di Mons. Guerino Di Tora
 
 


Rita Salerno (a cura di)


 

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Monsignor Guerino Di Tora è nato a Roma il 2 agosto 1946, ha preso nel 1971 la licenza in teologia presso la Pontificia Università Lateranense. Prima vicario parrocchiale a San Policarpo all’Appio Claudio, poi parroco e prefetto della XXI Prefettura. Dal 1997 è direttore della Caritas diocesana di Roma e rettore della Basilica di Santa Cecilia in Trastevere.

Nell’ambito dell’incarico di Direttore della Caritas Diocesana presiede l’Arciconfraternita del SS.mo Sacramento, Maria SS.ma e S. Gregorio Taumaturgo, il Consorzio Roma Solidarietà e la Fondazione Antiusura, “Salus Populi Romani”. E’ inoltre membro del Consiglio di Amministrazione dell’Istituto Interdiocesano per il sostentamento del Clero e del Collegio del Consiglio Presbiterale. A lui abbiamo rivolto alcune domande su tematiche sociali in relazione alla Chiesa.

La Chiesa di fronte alla società globalizzata e alle prese con il fenomeno del marcato invecchiamento della popolazione e della crisi del lavoro. In che modo la Chiesa può e deve inserirsi in questo contesto?

“Più che ragionare su come inserirsi, preferisco approfondire il modo con cui è possibile dare testimonianza e prova della capacità della Chiesa di farsi prossima a tutti nel contesto storico e sociale. Mi rifaccio alla Gaudium et spes nella quale è ritratta una Chiesa che è fermento nel contesto storico. Uno dei primi documenti del cristianesimo, “La lettera a Diogneto”, parla proprio dei cristiani, di coloro che vivono nelle stesse città e nelle stesse realtà degli uomini in una maniera diversa. Non facendo le stesse cose, ma puntando sulla loro cultura e sulla loro fede. Del resto, anche analizzando la storia del cristianesimo e studiando come la Chiesa ha modellato le sue necessità e anche le azioni dei papi e dei vescovi messe in atto come misure per fronteggiare nuovi stili di vita o per difendersi contro le invasioni barbariche, è possibile capirne il valore. Immagino che oggi occorra un’accoglienza esterna, un nuovo modo di inserirsi che deve essere improntato ad offrire un senso di profonda accoglienza a quelle che sono le nuove problematiche, a cominciare dal fenomeno della globalizzazione, alle problematiche dell’immigrazione, dell’ecumenismo in campo cristiano. Sempre con una particolare attenzione alla persona”.

La difesa della vita dalle origini fino alla naturale conclusione è uno dei punti cardinale del magistero della Chiesa. Con quali modalità fornire il necessario sostegno a questo tema tanto importante e come annunciarlo ad una società poco attenta al rispetto della dignità umana?

“Penso anzitutto con una grande e rinnovata attenzione alla famiglia. La realtà della famiglia che è sempre stata il fondamento della società umana vive momenti di difficoltà. Si parla di ‘famiglia aperta’ e di ‘famiglie al di là delle istituzioni’. Tutte realtà che non hanno un valore fondamentale.  Occorre tenere presente la famiglia nel suo contesto, sia esso mononucleare che patriarcale e non perdere di vista tutte le implicazioni che queste differenze comportano. Ma non va dimenticato l’aspetto economico e le esigenze delle famiglie che non arrivano a fine mese. E la questione educativa, partendo proprio dagli asili nido, con il suo enorme carico di responsabilità specie per il futuro del sistema paese. Sono tutte esigenze concrete a cui dare risposte, traendo spunto dalla fantasia della carità. Immaginiamo, per esempio, una parrocchia della borgata Ottavia a Roma dove le famiglie soprattutto degli immigrati sono costrette a lavorare e non sanno a chi lasciare i propri figli. L’idea è venuta alle mamme di quel territorio che insieme ad una suora a decidere di mettere su all’interno della parrocchia un asilo nido. È una storia esemplare della capacità di valorizzare i carismi familiari.

Pensiamo ancora alle famiglie in difficoltà, fragili psicologicamente – ed è il caso ad esempio delle giovani coppie – che hanno bisogno di poter contare su una rete di assistenza, di prossimità all’interno dei quartieri e nei palazzi. Qualcosa che faccia superare il senso della solitudine e dell’abbandono da parte degli altri”.

Come può la Chiesa fornire tutte le risposte alternative ad una società sempre più spinta da meccanismi di mercato e da un individualismo esasperato che rifiuta i valori della solidarietà e della cooperazione, come pure la famiglia fondata sul matrimonio?

“Bisogna puntare sulla formazione di cristiani credenti in questi valori. Oggi come oggi, non c’è bisogno di buonismo, ma di fermezza. Essere saldi nei valori cristiani. Tutto ciò implica un passaggio, ad esempio, da quella che può essere una vita di religiosità sacramentale – impostata sulla partecipazione alla messa della domenica o quando c’è da assistere ad un funerale – a quella che deve essere invece una formazione per vivere nel mondo e nella società da missionari.

A Roma, ad esempio, si è parlato molto di missione cittadina in questi ultimi tempi. Giovanni Paolo II in passato puntò molto sulla parrocchia che riscopre se stessa uscendo dal suo recinto e quindi l’attenzione alla formazione delle persone che gravitano attorno alla parrocchia che possono trasformarsi in occasione di rinnovamento. Sono sorte così diverse interessanti iniziative come i gruppi di Vangelo, incontri di preghiera in famiglia e via di questo passo. L’importante è ritrovare la centralità della vita cristiana fondata su un’esperienza di incontro personale con Cristo e non su una semplice tradizione. Quante volte da una semplice tradizione come il battesimo e l’andare a messa la domenica ne è derivato poi un tipo di cristiano che di tale non ha nulla. Ci vuole gente che abbia idee chiare e sappia testimoniarle agli altri. Come diceva Paolo VI, abbiamo bisogno di testimoni e non di maestri, persone che nel loro contesto di vita sociale sappiano esprimere questa realtà di coerenza con la loro fede”.

Che tipo di cooperazione possono mettere in atto la Chiesa e i religiosi e le religiose alla luce dei nodi critici della società attuale? E in che modo debbono dialogare con le altre associazioni no profit?

“Il Concilio ha fatto riscoprire la presenza dei laici, come membra vive della Chiesa. Prima si pensava che il laicato fosse un apparato quasi di supporto. Il Concilio ci ha fatto riscoprire che ogni cristiano, in quanto battezzato, è testimone del Vangelo, missionario, è colui che nella sua famiglia celebra nella preghiera il mistero della redenzione e l’incontro con Cristo. È da riportare a chiarezza il fatto che i laici hanno in tutto questo un loro ruolo fondamentale. La testimonianza nella famiglia e sul lavoro è data dal laico, non tanto dalla persona religiosa. Ognuno nel suo ruolo e nel suo carisma mirano ad un progetto che è quello dell’annuncio di Gesù Cristo salvatore.

Oggi assistiamo alla nascita di nuovi ordini religiosi e ad una nuova forma di associazionismo ognuno con una sua peculiarità, capace di rispondere alle attese che la società propone. Qui si vede l’effetto e la vivacità dello Spirito Santo. Lo Spirito che ci chiama ad una unità di intenti attraverso una pluralità di forme. Occorre il riconoscimento di questi diversi carismi – che oggi non è sempre facile specie in parrocchia tra i diversi movimenti – tenendo presente che sono mezzi diversi per arrivare ad un solo fine. Siamo chiamati, come religiosi, a collaborare con queste nuove realtà e a superare le istintive diffidenze. Chi, come me è prete da quarant’anni, capisce quanto sia complesso e non facile questo meccanismo. Specie quando si parla d’inserimento nelle attività parrocchiali di appartenenti a nuovi movimenti o di impostazione della pastorale. Proprio perché la Chiesa vive nel tempo e nella storia c’è sempre un continuo rinnovamento. Il segreto è collaborare”.

Dalla Rerum novarum alla Centesimus annus, la strada intrapresa dalla Chiesa nel settore delle politiche sociali, fin dalla nascita dell’industrializzazione, si è rivelata vincente?

“Più che vincente io parlerei del fatto che si è rivelata all’altezza dei tempi. Si è rivelata profetica. Si è rivelata attenta all’uomo. Tre elementi fondamentali, inscindibili tra di loro, che dicono se è o no vincente. Si è rivelata tale da saper manifestare il senso della presenza salvifica della Chiesa anche in un contesto difficile come è quello sociale. Pensiamo solo alla capacità di intuire e di proporre una gestione della complessità delle situazioni. Da Giovanni XXIII a Paolo VI fino a Giovanni Paolo II: ognuno ha saputo cogliere determinati aspetti che erano in quel momento un segno di profezia. Soprattutto questo contesto delle encicliche sociali della Chiesa hanno rivelato una antropologia che era non semplicemente attenzione all’uomo nella sua concretezza, all’uomo che cambia pur rimanendo sempre identico. L’uomo di oggi non è certo lontanamente paragonabile a quello delle miniere e delle poche tutele sociali e del relativo sfruttamento. Saper portare la distinzione che il lavoro è il tramite per e non viceversa è la prova della grandezza della Chiesa. Riportare il discorso del salario ad un livello familiare che serve al benessere della famiglia. Nella capacità profetica di sapere prevenire le situazioni si rivela la Chiesa. Pensiamo solo alle denunce contenute nella Populorum progressio di Paolo VI che hanno saputo gettare luce, prima di altre, in alcune distorsioni oggi sotto gli occhi di tutti. Nella capacità di proporre soluzioni a tematiche attualissime come la pace nel mondo o la mondialità risiede la sua grandezza”.

Sulla scorta della Centesimus annus al numero 48, come la Chiesa intende mettere in atto il principio di sussidiarietà sulla base delle nuove patologie del sociale?

“La Chiesa, secondo me, propone il discorso come quello della sussidiarietà e quella della capacità della persona, presa singolarmente che nelle sue abilità corporative. Qui sta il fatto che la Chiesa offre principi attraverso i quali le persone possono trovare le modalità per realizzare il bene della società. Il principio della sussidiarietà è un principio molto forte oggi in una società come l’attuale, dove si è verificato tante volte l’annullamento della persona. Perdendo di vista i più deboli e gli emarginati, considerati non solo nella loro fase iniziale di vita ma anche al tramonto. L’attenzione alla vita in tutti i suoi momenti, sulla base di un rispetto profondo.”

Negli ultimi tempi, l’interventismo statale è stato piuttosto carente con il risultato di far coincidere il principio di sussidiarietà con una politica liberista di privatizzazioni e di ridimensionamento dell’intervento statale. La Chiesa può sollecitare la risposta degli stati in caso di ipertrofia? Ed eventualmente rispondere sulla base delle nuove esigenze che si vanno delineando?

“Penso che la Chiesa con la sua dottrina e con la teologia su Cristo in quanto attenzione all’uomo è una coscienza critica nei confronti dell’umanità. Non offre soluzioni immediate in tal senso, ma si fa vicina. Si fa prossima nel cammino dell’uomo soprattutto nella ricerca continua di risposte a questi problemi. Non esistono ricette preconfezionate a quelle problematiche che la società pone davanti. E spesso la tecnologia può andare a danno del pensiero e della riflessione sulle tematiche da affrontare ogni giorno. Di qui l’importanza di essere vicino all’uomo. La Chiesa, amava dire Paolo VI, è maestra di umanità. Non si tratta di parole vuote, ma di chi ha l’umanità più completa che è quella di Gesù Cristo. Spetta alle chiese locali offrire aiuto in quello specifico contesto in cui sono chiamate ad operare”.

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