L'attuale crisi finanziaria
e le sue interpellanze
per la vita consacrata

        
nelle parole di Alessandra Smerilli


Rita Salerno (a cura di)


 

trasp.gif (814 byte) trasp.gif (814 byte) trasp.gif (814 byte) trasp.gif (814 byte)

English version

Suor Alessandra Smerilli, Figlia di Maria Ausiliatrice, insegna Economia politica presso la Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione Auxilium, ed Economia della cooperazione presso l’Università Cattolica di Roma. Le abbiamo chiesto di aiutarci a comprendere meglio il significato dell’attuale crisi finanziaria che coinvolge tutto il mondo.

Stiamo vivendo in un momento non facile per l’economia e le borse di tutto il mondo. Quali, a suo avviso, le cause di questa crisi che ha messo in ginocchio famiglie, banche e multinazionali, negli Stati Uniti e non solo?

La situazione di turbolenza che è sotto i nostri occhi in questi giorni, è ormai una crisi economica e non solo finanziaria: interessa cioè l’economia reale, le famiglie, i lavoratori, tutti noi. Le cause più evidenti sono di natura finanziaria e politica, ma tra le cause remote non possiamo non citare quelle di natura etica. In generale, una delle cose che questa crisi – la prima crisi dell’economia globalizzata – è che non è possibile più distinguere tra economia reale ed economia finanziaria: l’economia reale è finanziaria!

Per questa ragione, la crisi non è originata solo dalle banche e dagli investitori finanziari, che stanno diventando il capro espiatorio, ma alla base di tutto c’è, come vedremo, anche una cultura ‘drogata’ del consumo.

Partiamo comunque dalle banche. Le parole più gettonate di questi ultimi tempi sono ‘mutui’ e ‘mercato immobiliare’. Vediamo perché. Un tempo, le banche che emettevano prestiti e mutui, erano poi quelle che li incassavano. Da circa dieci anni nel mercato del credito americano, sono state introdotte delle innovazioni. Una banca può erogare un mutuo a un cittadino e ricevere in cambio un impegno di pagamento accompagnato da un’ipoteca (un bene che viene impegnato in caso non si riesca a restituire il prestito). La stessa banca, poi, può vendere quell’impegno di pagamento agli investitori, i quali in pratica comprano i flussi finanziari (le rate dei mutui) che i cittadini devono restituire. La banca che ha venduto l’impegno di pagamento ha così altri soldi da prestare, e così via, in un gioco di carta dove ci si allontana sempre più dall’economia reale. Gli investitori compongono portafogli di titoli (gli impegni di pagamento) diversificati, anche in base alla qualità: quelli più sicuri rendono meno, quelli più incerti e rischiosi rendono di più perché incorporano un maggior rischio. Questi portafogli di titoli cosiddetti derivati, vengono a loro volta rivenduti, e ovviamente i titoli più rischiosi e redditizi attrarranno gli speculatori senza scrupoli.

Ora, se la banca che valuta l’affidabilità di un cliente per concedere un mutuo non dovrà poi incassare quel mutuo, ha un minor incentivo a selezionare clienti affidabili. E se a questo uniamo che i titoli rischiosi sono richiesti sul mercato, si fa presto a capire come la qualità dei clienti si sia deteriorata alquanto. A tutto ciò si aggiunge che le banche, per approfittare al massimo di queste opportunità, hanno creato degli strumenti ad hoc fuori bilancio, i cosiddetti SIV, in modo da poter aggirare le norme che vincolano gli istituti di credito ad un rapporto ben definito tra risorse proprie e risorse investite. Pensiamo solo che nel settore dei prestiti tradizionali alla clientela le regole limitano il rischio che le banche possono correre all’8%, mentre nel mercato dei derivati le operazioni si svolgono senza regolamentazione. Per inciso qui il paradosso è che le norme di Basilea II, l’accordo internazionale con cui si cerca di tenere sotto controllo il rischio delle banche, fa passare questi prodotti in maniera inosservata e decreta allo stesso tempo che i prestiti nel sociale (per il no-profit e per gli enti ecclesiastici e religiosi) sono ad alto rischio!

Per avere un’idea delle cifre, mentre il PIL (Prodotto Interno Lordo) mondiale è di circa 56 trilioni di dollari, il valore dei prodotti derivati  sui crediti è di 58 trilioni di dollari, mentre quello complessivo di tutti i prodotti derivati è di 1288 trilioni di dollari.

In questo quadro finanziario, la facilità di avere denaro a prestito a fatto aumentare la domanda di case, e quindi i prezzi, per aumento della domanda, sono aumentati: dal 1997 al 2006 il valore delle case negli USA è cresciuto del 124%.  Tutto ciò va bene per chi si è impegnato in un mutuo: se i prezzi delle case vanno via via aumentando e io mi rendo conto di non riuscire più a pagare il mutuo, rivendo la casa, estinguo il mutuo e mi avanza qualcosa! Tutto funziona fino a quando i prezzi continuano a crescere. Quando invece i prezzi scendono (ed è quello che si è verificato nel mercato statunitense a partire dal 2006), ecco che il valore del mutuo eccede il valore della casa, e quindi le famiglie che non riescono a pagare il mutuo perdono tutto. Negli Stati Uniti la caduta del prezzo delle case ha ormai raggiunto un tasso medio del 10% annuo. Si è quindi avviato un circolo vizioso, la bolla è scoppiata: molte famiglie non riescono a pagare e dichiarano bancarotta, le case sono vendute all’asta e questo contribuisce a diminuire ulteriormente i prezzi…vanno in crisi le istituzioni finanziarie che avevano fatto di questo mercato il cavallo di battaglia. E con esse vanno in crisi tutte le istituzioni e organizzazioni, ma anche privati cittadini che avevano in mano titoli appartenenti alle istituzioni che falliscono. Questo vuol dire che l’economia comincia a rallentare e si entra in una fase di recessione, dove aumenta la disoccupazione, diminuisce il commercio, in poche parole ecco la crisi che a detta di molti economisti sarà (o forse già è) la più grave dopo la recessione degli anni Trenta.

Ma non possiamo fermarci qui, per delineare le cause della crisi, non possiamo solo accusare le banche. La crisi si è amplificata sì a causa di speculatori senza scrupoli, ma anche a causa di una cultura consumistica che ha ‘dopato’ il consumo: si è andata negli anni creando l’illusione che non è necessario legare il consumo al proprio reddito.

Lei chiama in causa una cultura consumistica ‘dopata. Perché?

“Un tempo per comprare un bene durevole (una automobile, una lavatrice, ecc.) prima si mettevano i soldi da parte, si facevano sacrifici, e poi si comprava . Oggi le famiglie, in particolare nel mondo occidentale, non risparmiano più: il “compra oggi e inizi a pagare nel 2010” è diventato uno stile consueto. E questo ha contribuito ad ampliare la crisi, perché fino a quando tutto funziona, cioè fino a quando l’economia è in crescita questo castello di carta si sostiene, ma ai primi problemi l’effetto domino si scatena e trascina tutti con sé.

E invece, come ci ricorda anche la DSC, il risparmio è importante, è un collegamento tra le varie componenti della società: tra generazioni nel tempo (i risparmi di un genitore diventano la laurea per il figlio), e tra famiglie e imprenditori oggi (le famiglie risparmiavano e grazie al sistema bancario gli imprenditori possono investire)”.

Chi ci rimette in questa situazione di turbolenza? Le economie dei paesi in via di sviluppo o anche quelle occidentali?

“In un mondo globalizzato, nel bene e nel male, gli effetti delle turbolenze si ripercuotono ovunque e su tutti. Il fatto poi che la crisi abbia avuto il suo epicentro negli Stati Uniti, che sono al centro di fitte reti di relazioni internazionali, fa in modo che, direttamente o indirettamente, tutto il mondo avrà a risentirne. Sicuramente molti paesi emergenti e in via di sviluppo, data la poca internazionalizzazione delle proprie strutture finanziarie non sono stati ancora direttamente travolti dalla crisi. Ma sono proprio questi paesi quelli che risentiranno di più degli effetti della crisi sull’economia reale. Come rivelano gli studi della Banca Mondiale,  in questi paesi innanzitutto, come per il resto del mondo, si registrerà una diminuzione del tasso di crescita delle economie: se prima della crisi il tasso stimato per i paesi in via di sviluppo era del 6,4%  per il 2009, ora le stime riviste parlano del 4,5%. Accanto a questo si stima una riduzione del commercio internazionale e una diminuzione dei prezzi delle materie prime, quindi si registreranno problemi per chi le esporta. Diminuiranno anche le rimesse degli emigranti, e sarà più difficile trovare lavoro nei paesi più sviluppati, perchè saranno quelli maggiormente colpiti dalla crisi. Nello stesso tempo, però sarà più facile ottenere prestiti e ci saranno tassi di interesse più bassi, e questo è positivo. Effetti di più lungo periodo, e che bisogna adoperarsi per evitare potrebbero essere un aumento della malnutrizione e la diminuzione della scolarizzazione. In questo momento delicato la Chiesa (cfr. la nota di Iustitia et Pax sull’Assemblea delle Nazioni Unite a Doha) si sta adoperando per ricordare a tutti di coordinare le iniziative per la soluzione della crisi dentro una prospettiva globale e non tenendo conto solo delle urgenze dei paesi occidentali. Un segnale di speranza è che i paesi in via di sviluppo potrebbero, per effetto di questa crisi, in qualche modo liberarsi dalla ‘dipendenza’ dall’occidente, trovando nuove vie e risorse per nuovi modelli di sviluppo”.

Quale deve essere il ruolo che spetta alle religiose nel mondo contemporaneo oggi?

Sono convinta che non c’è vita buona, nella sfera privata come in quella pubblica, senza gratuità. E non c’è gratuità senza carismi (vengono entrambi da “charis”). E’ questa la ragione per la quale l’indigenza di una società, come la nostra, che emargina i carismi (dalla politica, dall’economia, dai mass media …) è soprattutto indigenza di gratuità, carestia di un tocco umano che sia fine a se stesso, carestia di gente che ci incontra e ci avvicina perché gli interessiamo come persone. E basta. Un “e basta” che la società della ricerca del profitto, dell’efficienza e del merito, non conosce più. L’economia di mercato è il frutto di oltre quindici secoli di civiltà e di carismi (se non vogliamo partire già nel mondo greco), è un albero con radici profonde. Ma oggi questo albero secolare, se non millenario è minacciato da una crisi che è soprattutto crisi morale e antropologica. Il mercato funziona bene quando è irrorato anche dalla linfa dei carismi, una linfa che  si chiama gratuità. Ma un'economia di mercato che perde contatto con la dimensione carismatica (che oggi si esprime tanto nell'economia sociale, solidale, di comunione ...), diventa dis-ecomia, luogo di vita non-buona, perché perdendo contatto con la gratuità, perde contatto con l'umano. A. McIntyre, dopo aver riconosciuto a Benedetto un ruolo decisivo nella salvezza della cultura europea dopo la crisi dell’impero romano (l’età oscura), così commenta: “Se la tradizione delle virtù è stata in grado di sopravvivere agli orrori dell’ultima età oscura, non siamo del tutto privi di fondamenti per la speranza. Questa volta, però, i barbari non aspettano di là dalle frontiere: ci hanno già governato per parecchio tempo. Ed è la nostra inconsapevolezza di questo fatto a costituire parte delle nostre difficoltà. Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro San Benedetto”. Mi auguro che come religiose sappiamo cogliere l’importanza di questo momento storico: un momento favorevole, perché oggi più che mai la gente aspetta la linfa della gratuità, un momento di scelte coraggiose, un momento in cui siamo chiamate ad essere “segno” che i beni più preziosi non passano per il mercato, perché hanno un valore inestimabile”.

Si parla tanto di questione morale nella politica e nella società. Esiste a suo avviso una ricetta eticamente praticabile in questo contesto non facile’?

Credo che oggi tutti, o almeno i più avveduti, abbiano capito che etica ed economia non sono due mondi distinti: l’etica è una dimensione dell’economia (e l’economia dell’etica). Quando l’economia perde questa dimensione, allora oltre a combinare danni, distrugge anche se stessa. Ne è prova questa crisi, così come il malessere crescente nelle società occidentali, dovuto ad un aumento costante di beni di comfort, che in qualche modo stanno spiazzando i beni relazionali. La strada etica, e culturale, è anzitutto quella di riportare l’uomo al centro dell’economia: le prime banche popolari, non dimentichiamocelo, sono state fondate dai francescani per alleviare la povertà (i monti di pietà e i monti frumentari). Non dobbiamo immaginare un mondo senza finanza, ma occorre che anche oggi fioriscano imprenditori animati da scopi ideali e più grandi del solo profitto. E’ sempre più chiaro che la dimensione etica deve stare dentro i processi produttivi e decisionali delle organizzazioni e delle imprese e non va relegata alla redistribuzione fatta dallo Stato, tanto più che gli Stati in un mondo globalizzato stanno perdendo i loro poteri in campo economico e fiscale. Esistono già esperienze ormai consolidate che in questo momento possono diventare dei modelli: penso ad esempio a banca etica, le imprese di economia di comunione, il commercio equo e solidale e in generale tutte le esperienze di economia civile. In secondo luogo, la sfida è antropologica e culturale: la crisi attuale può essere una occasione per una riflessione profonda sugli stili di vita occidentali, diventati insostenibili. La sobrietà (che io, in continuità con la tradizione dei carismi, chiamerei con più coraggio – di quanto non faccia la stessa chiesa istituzione – “povertà”, bella parola del vangelo), la comunione e la condivisione dei beni sono la strada per re-innescare un circolo virtuoso: è il tempo dell’impegno di tutti, tempo favorevole per un ritorno all’essenzialità”.

Tra le priorità del pontificato di Benedetto XVI c’è quella dell’emergenza educativa. Come le FMA affrontano questo urgente problema della società del nostro tempo? Come educare le giovani generazioni a vivere con il giusto senza lasciarsi tentare da eccessi che in economia possono rivelarsi fatali?

 “Occorre mostrare la bellezza di una vita semplice e povera, far vedere che la felicità passa anche da queste dimensioni della vita. Francesco era attratto da “sorella povertà” perché il suo carisma gli consentiva di vedere un dono dietro quella che altri chiamavano maledizione. Dobbiamo essere attratti dalla povertà perché in essa vediamo una via di maggiore felicità.

Due percorsi mi sembrano importanti. Innanzitutto dobbiamo aiutare i giovani ad aprire gli occhi sugli squilibri a livello mondiale e sulla “povertà non scelta” di miliardi di persone. Ma qui c’è il rischio di pensare a queste cose come molto lontane, che in fondo non ci “sfiorano”. Allora è importante conoscere la povertà che c’è dietro l’angolo, il precariato, gli anziani che rubano nei supermercati perché non riescono ad arrivare a fine mese, le città nascoste delle persone che vivono sotto i ponti… In secondo luogo, studi recenti fatti da noti economisti e premi nobel dimostrano che nelle società occidentali, ad un costante aumento del reddito pro-capite, si è accompagnata una diminuzione della felicità e della soddisfazione di vita. Questi dati sono importanti, perché è luogo comune credere che maggior benessere economico porta sempre a maggior “well-being” (bene-stare) delle persone. Se così non è c’è qualcosa che non funziona. Quasi tutti gli economisti sono d’accordo nel dire che il nodo cruciale è a livello relazionale. Se, per esempio, l’impegno per aumentare il reddito produce sistematicamente effetti negativi sulla qualità e quantità delle nostre relazioni (fa cioè diminuire la felicità che traiamo dal “consumo” di beni relazionali), poiché le ore dedicate al lavoro sono sottratte alla vita relazionale e familiare, l’effetto complessivo di un aumento di reddito sulla felicità può essere negativo a causa delle conseguenze negative che quell’aumento di reddito produce indirettamente sulla qualità delle nostre relazioni, a causa delle risorse (eccessive) che impieghiamo per aumentare il reddito, e che sottraiamo ai rapporti umani. Aiutare i giovani a prendere coscienza di questi meccanismi li aiuta a liberarsi dalla “fame” del possesso”.

Giovanni Paolo II parlò di ‘genio femminile’. Il papa polacco scrisse una toccante Lettera indirizzata a tutte le donne nel 1995, anno della Conferenza Internazionale dedicata alla condizione della donna a Pechino. Benedetto XVI in diverse circostanze ha riconosciuto il valore e il ruolo chiave delle donne e delle religiose in particolare. Recentemente delle ematiche femminili si è discusso anche in occasione del recente Sinodo sulla Bibbia, suggerendo una maggiore apertura del Lettorato alle donne, quale spazio ha oggi la donna e la religiosa nella Chiesa?

 L'uomo nasce libero, e ovunque è in catene”, scriveva Rousseau nel suo Contratto sociale. Ma se questo è vero per l’uomo, lo è soprattutto per le donne, che spesso sono le prime vittime di rapporti sociali, politici, ed economici sbagliati. Io credo che oggi alla donna vada riconosciuto il proprio ruolo co-essenziale non concedendole parzialmente alcuni ministeri che gli uomini hanno in pienezza: così si resta sempre in una posizione subalterna. La donna sarà se stessa nella chiesa, e la chiesa ancor più se stessa, quando si andrà oltre questa visione “concessoria” verso le donne da parte dell’istituzione ecclesiastica, e si riconoscerà ai carismi (c’è un rapporto speciale tra carisma e genio femminile) il loro ruolo co-essenziale, in reciprocità con il profilo istituzionale, senza dimenticare la governance della Chiesa e le questioni del comando e del potere. La teologia di Von Balthasar e dei “profili” della chiesa, è ancora tutta attuale e davanti a noi”.

Che importanza ha, in questo contesto, la comunicazione?

“La comunicazione, in questi momenti in cui ci sentiamo tutti appesi ad un filo e interdipendenti, è importantissima. I mezzi di comunicazione sono anzitutto una potente cassa di risonanza mediatica di quello che accade e si profila all’orizzonte, andando in qualche modo a orientare le scelte dei consumatori, dei risparmiatori, ecc.  Una sana comunicazione potrebbe aiutare anche a rivedere gli stili di vita. Il problema della comunicazione in questo momento non facile è che raramente si presenta chiara: siamo messi quotidianamente di fronte a opinioni di esperti più che a fatti concreti. Non so se le persone attraverso le notizie siano riuscite a farsi un’idea chiara di quello che è successo e di quello che sta accadendo all’economia e alla società. C’è bisogno di una comunicazione che sia chiara, non si concentri solo su una parte del mondo, crei allarmismi, ma aiuti a percepire la serietà del momento che stiamo vivendo e che richiede l’impegno di tutti e di ciascuno”.

 Torna indietro