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Sr.
Anna Caiazza, napoletana, laureata in legge e licenziata in diritto
canonico è Figlia di San Paolo dal 1985. Si è occupata di animazione e
diffusione, di redazione alla radio e all’Editoriale Libri. Ha svolto il
servizio di Consigliera provinciale per sei anni. Attualmente è
Consigliera generale.
Cosa può dire all’uomo di oggi Paolo di
Tarso?
Credo che abbia molte
cose da dire agli uomini e alle donne di oggi, l’Apostolo delle genti.
Mai definizione mi è parsa più appropriata di questa per evidenziare la
straordinaria attualità della sua figura e del suo messaggio per la
variegata umanità dei nostri giorni. Come ripete spesso Benedetto XVI,
«Paolo non è una figura del passato». Anzi, oserei dire, è figura di
tutti i tempi perché incarna le aspirazioni più profonde dell’essere
umano, il suo bisogno di trascendenza, la sua nostalgia di autenticità,
di stabilità, di comunione. Chi si avvicina a Paolo – e l’Anno Paolino
sta contribuendo molto a questo – vincendo l’ostacolo dell’apparente
difficoltà dei suoi scritti, scopre prima di tutto un uomo “solido” e
determinato, perché proteso verso un unico centro: Gesù Cristo; un uomo
appassionato, autentico nel manifestare i propri sentimenti. Il suo
linguaggio è franco, a volte pungente, spesso carico di tenerezza e,
sempre, di profonda partecipazione. A Paolo sta a cuore l’altro,
qualsiasi altro. Nessun ostacolo lo frena; nessuna appartenenza etnica,
sociale, religiosa, di genere, lo spaventa. Egli attraversa ogni
differenza, condivide, si coinvolge fino in fondo, si fa carico
dell’altro, si fa “tutto a tutti”, senza mai cedere a compromessi troppo
facili. E proprio perché gli interessa l’uomo, a 360°, non può esimersi
dal proporgli – con carità e rispetto – ciò che costituisce il motivo
della sua felicità: la fede in Gesù Cristo.
Le
religiose quale insegnamento possono trarre e mettere a frutto
quotidianamente?
Penso che non sia
sbagliato pensare a Paolo come “padre e modello” dei consacrati,
soprattutto per il suo radicamento a Cristo, per la sua vita totalmente
dedicata a Lui e all’annuncio del Vangelo. Vorrei, tuttavia,
sottolineare alcuni “segreti” dell’Apostolo che, a mio parere, devono
essere custoditi e coltivati sempre più da noi religiose e religiosi.
Prima di tutto la
profonda e sempre rinnovata consapevolezza di essere state scelti fin
dal seno materno (cfr. Gal 1,15), “afferrati”, conquistati da Dio. Ed è
questo amore di predilezione che ci spinge alla missione (cfr. 2Cor
5,14); comunicare questo amore è una necessità che ci “costringe” (cfr.
1Cor 9,16). Paolo ci ricorda che dobbiamo vivere di fede (cfr. Rm 1,17)
e che il “successo” dell’evangelizzazione non è opera nostra, non
dipende dalla nostra “professionalità”, dai nostri mezzi. Ciò ci aiuterà
anche a liberarci dalla tentazione di abbandonare il campo perché non
vediamo i risultati sperati… Credo che, oggi, testimoniare il primato di
Dio nella nostra vita sia la vera profezia della vita consacrata.
Paolo, ancora, ci
insegna che non si può concepire la vita apostolica senza la luce che
proviene dalla preghiera. Una preghiera che nasce da un cuore sollecito
e grato, che abbracci persone, situazioni, problemi, gioie, e che
esprima l’assillo di portare a tutti la Buona Notizia, il Cristo stesso.
Una preghiera, sull’esempio dell’Apostolo, che non dimentichi i nostri
“collaboratori per il Vangelo”.
C’è, infine, un’altra
dimensione interiore di Paolo che noi consacrati dobbiamo coltivare:
l’accoglienza della fatica, della sofferenza e dell’insuccesso
dell’apostolato. Si tratta, in altre parole, di portare in noi la croce
di Cristo perché tutti abbiano la vita (cfr. 2Cor 4,10-12).
Far
conoscere meglio san Paolo e inserirlo in un progetto ecumenico di
crescita e dialogo, sono gli scopi dell’Anno Paolino. Secondo lei in che
modo è possibile proporlo alle giovani generazioni?
Sono convinta che
l’apostolo Paolo sia davvero in grado di entusiasmare i giovani, in
genere attratti da quanti incarnano grandi ideali, da testimoni che li
aprono a orizzonti sconfinati e misteriosi. Paolo è un uomo audace, che
ha lottato per ciò in cui ha creduto, che si è spinto sempre “oltre”,
obbedendo alla forza imperiosa dello Spirito. Ha lottato anche con se
stesso, e ha saputo confessare le sue debolezze, ammettere i suoi
fallimenti. Ha creduto nell’amicizia e nella collaborazione, nel calore
che può donare l’appartenenza a una comunità, ma non si è mai chiuso
all’incontro con quelli “di fuori”… Come proporre Paolo ai giovani?
Prima di tutto aiutandoli ad accostare direttamente questo grande
Apostolo, attraverso il racconto degli Atti e poi, gradualmente,
attraverso i suoi stessi scritti. Sì, è vero, il contenuto è denso, il
linguaggio spesso ermetico e difficile, il pensiero vulcanico e
talvolta, a una prima lettura, non lineare. Ma, fidiamoci: se entreranno
con pazienza, e con una buona guida, nel mondo di Paolo, si lasceranno
coinvolgere dalla sua prorompente personalità, dalle sue incrollabili
certezze e, chissà, magari scopriranno di condividerne gli ideali.
In
che modo raccontare oggi ai ragazzi la conversione di Saulo di Tarso, il
più grande missionario di tutti i tempi?
I modi possono essere
tanti. Comincerei dai racconti dell’evento di Damasco, per esempio
quelli riportati negli Atti degli Apostoli, estremamente affascinanti,
costruiti su un registro “cinematografico”: la luce, la voce che chiama,
il dialogo: «“Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”... “Chi sei, o
Signore?”... “Io sono quel Gesù che tu perseguiti!”». Quello che mi
sembra importante è che si trasmetta ai ragazzi il significato profondo
di ciò che avvenne a Damasco: il Cristo, che si identifica con i
cristiani perseguitati da Paolo, irrompe nel mondo di Paolo e lo
sconvolge; niente più, da quel momento, è come prima… Solo in questo
senso si può parlare di “conversione”.
Se
vivesse oggi, secondo lei, san Paolo a quale tipo di iniziativa
massmediatica penserebbe?
Nel 1914 il mio
Fondatore, il beato Giacomo Alberione, riferiva, condividendola, una
espressione usata circa un secolo prima da mons. Ketteler, arcivescovo
di Magonza: “Se san Paolo tornasse al mondo si farebbe giornalista”. Può
darsi. Magari sarebbe un inviato “speciale”, realista, ispirato e…
appassionato di internet, per una comunicazione “globale” del Vangelo.
La
figura di san Paolo, definito dal papa “ambasciatore itinerante di
Cristo” ed “evangelizzatore di popoli e culture”, è un simbolo di unione
nel variegato mosaico ecumenico. In questo scenario le religiose e le
paoline in particolare che ruolo possono ritagliarsi?
Paolo è stato un
evangelizzatore di frontiera, lui che, a motivo delle sue origini e
della sua formazione, ha vissuto alla frontiera tra il mondo giudaico e
quello greco-ellenistico. Ha sperimentato nella sua carne la lacerazione
delle divisioni e ha pregato e operato per l’unità, costruendo
pazientemente comunione, una comunione che relativizza le diversità ma
le mantiene, perché in Cristo il greco, il libero, l’uomo contano quanto
il gentile, lo schiavo, la donna… Il suo stile “ecumenico” è una forte
provocazione per le consacrate e i consacrati. È invito a sentirci
davvero debitori del Vangelo verso tutti, senza alcuna distinzione e
discriminazione; è stimolo a coltivare una mentalità aperta alla
diversità, al dialogo, al confronto a tutti i livelli, nel rispetto
dell’altro e nella carità.
In particolare, per
noi Figlie di San Paolo, che consideriamo l’Apostolo “forma” del nostro
essere discepole e apostole, tutto ciò si traduce in un’apertura
ecumenica più convinta e più attenta, nella sollecitudine pastorale che
ci fa “trattare gli uomini secondo le loro condizioni fisiche,
intellettuali, morali, religiose e civili” (beato G. Alberione),
nell’impegno di farsi “tutto a tutti”, ma senza svuotare il Vangelo
della sua forza e della sua verità, dovunque valorizzando il vero, il
bello, il bene, i semi del Verbo presenti in ogni persona, in ogni
popolo, in ogni cultura, in ogni religione.
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