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English version
Sono rientrate in
Italia da pochi giorni, ma il cuore è rimasto là, in Africa. Nel Paese
dove hanno trascorso praticamente un’intera esistenza - entrambe sono in
Kenya da circa trentacinque anni - accanto ai diseredati, ai dimenticati
da tutti, specialmente dalla comunità internazionale. Sono
suor Maria Teresa Olivero e
suor Caterina Giraudo,
rispettivamente sessantotto e sessanta anni, le missionarie del
Movimento Contemplativo di padre Charles de Foucauld, sequestrate la
notte tra il nove e dieci novembre 2008 nella struttura di El Wak,
piccolo villaggio all’estremo nord-est del Kenya, quasi al confine con
la Somalia, da una banda composta da decine di uomini armati. Sono state
trattate bene, hanno subito raccontato entrambe, anche se non sono
mancati i momenti di angoscia.
In questa sede non ci
interessa parlare della dinamica della liberazione o se è stato pagato o
meno un riscatto. E nemmeno soffermarci sull’assenza delle autorità al
loro arrivo la sera del 27 febbraio scorso all’aeroporto torinese di
Caselle. Ma offrire a chi vorrà fermarsi a leggere queste pagine una
storia, anzi due, di fede al servizio dei più piccoli e indifesi: le
popolazioni che vivono in una terra dimenticata da tutti, in una zona di
confine tra Somalia e Kenya. “È stata dura, tanto dura – sono state le
loro prime parole –; senza l’aiuto del Signore non ce l’avremmo fatta”.
La prima a rispondere
al telefono è suor Maria Teresa Olivero, originaria di Centallo, in
provincia di Cuneo, che per ben trentacinque anni ha prestato la sua
opera in Kenya. Voce limpida, sicura, che si emoziona quando “ringrazia
tutti coloro che in questi centodue giorni di prigionia hanno pregato
per la nostra sorte, abbiamo sentito la loro invisibile presenza”.
Ci
sono stati momenti difficili nel corso di questi 102 giorni di
prigionia? Avete temuto per la vostra vita?
“Tanti. Non sono
mancati i momenti in cui abbiamo sentito la tensione nell’aria.
Personalmente ho provato molta angoscia. Ma non disperazione. Fin dai
primi momenti del rapimento, quando eravamo in macchina con i nostri
sequestratori alla volta della Somalia, ho colto con chiarezza questo:
il mondo soffre, il mondo soffre. C’è tanta gente che soffre. E quel che
stava succedendo a noi era parte di quella sofferenza. In cuor mio ho
provato questi sentimenti. Abbiamo sempre provato paura all’idea di
essere prese in ostaggio. Sapevamo di non poter neanche prevedere quando
tutto ciò sarebbe accaduto. E adesso che c’eravamo dentro questa
vicenda, dovevamo viverla. Non potevamo sottrarci a questa situazione.
Non potevamo non subirla. Certo che abbiamo avuto paura per la nostra
vita. Pur essendo state profondamente rispettate dai nostri rapitori,
non potevamo davvero conoscere quello che avevano in mente. In più nel
cuore della Somalia, in una zona di accesi scontri non era chiaro quale
sarebbe stato l’epilogo della storia”.
In
un’intervista rilasciata alla Radio Vaticana, entrambe avete dichiarato
che è la fede che vi ha sostenuto in tutto questo lungo periodo. È vero?
“La fede è sempre
stata il nostro sostegno, la roccia a cui aggrapparci. La fede nel
Signore ci ha sorretto lungo questi centodue giorni di prigionia. In
questa esperienza di fede, Dio ci ha fatto scoprire quanto siamo povere.
Molto povere. Ho sentito molta povertà. In certi momenti ci sentivamo
spogliate di tutto. Di sicurezze, di certezze. Soprattutto perché senza
notizie e senza comunicazione con il mondo esterno. Sia io che suor
Caterina a volte ci guardavamo in viso e vedevamo il nostro volto
trasformato dalla sofferenza che portavamo addosso.
Sento che questa
esperienza ci ha molto purificate. Ci ha obbligate a vivere la
semplicità di questa prova. E anche la sua durezza, al tempo stesso,
senza ripiegamenti o egoismi. Ci ha aiutate a capire e a prestare
attenzione a vivere una esistenza momento per momento, di vivere l’una
per l’altra nella nostra realtà quotidiana, nel nome di Dio. In questa
nuda realtà sentivo chiaramente in cuore la voce di Cristo che diceva:
‘Io sono vivo e risorto in mezzo a voi’. Questa era la frase che eravamo
solite ripetere tra noi. Anche nei momenti peggiori. ‘Gesù è risorto ed
è qui in mezzo a noi. Io sono l’agnello di Dio mite ed umile, Colui che
guarisce la durezza del vostro cuore e di chi vi tiene in ostaggio’.
Dal giorno del
nostro rilascio porto in cuore una riconoscenza senza misura nei
confronti dei mediatori che hanno lavorato e sofferto insieme con noi
con passione e senza sosta durante tutto il periodo delle trattative per
la nostra liberazione. Ringrazio tutti voi per la preghiera, il sostegno
e la vicinanza. L’abbiamo saputo e sentito che ci siete stati tutti
vicini. Dal momento della liberazione fino ad oggi sono stupita dalla
scoperta della tanta solidarietà nei nostri confronti che avete vissuto
in questi mesi. Questo mi rallegra il cuore perché la sensibilità è
prova del bene che alberga nel cuore di ogni persona e di tanti uomini.
Suor Caterina ed io ci sentiamo sostenute grazie a questa catena di
solidarietà. E questa corrente di fratellanza continuerà ad essere
sostegno per le persone sottoposte alle prove dure della vita. Ed è
quello che mi dà tanta forza dentro per continuare giorno dopo giorno il
nostro servizio”.
Ritornerà in Africa?
“E’ da tanto tempo
che vivo lì, avevo ventiquattro anni quando ci ho messo piede. Sono
contenta di tornare in Kenya. In quell’area abbiamo tre fraternità.
Siamo in contatto con i nostri che sono giù. Vedremo come fare. Certo,
non abbiamo intenzione di riprovare l’esperienza vissuta. Ma una cosa è
certa: il cuore è rimasto là. Desidero tornare. Ma non come eroina.
Così, semplicemente, da sorella per svolgere la mia missione al fianco
dei miei fratelli”.
Cosa le ha insegnato questa esperienza? E dal contatto con le persone
incontrate nel corso della prigionia?
“Che la preghiera
costante, da soli o insieme, vissuta in unione costante con il Signore
può tutto. È stato questo il nostro pensiero costante. Senza la fede non
si vive un’esperienza come questa. Lo sapevamo già prima, ma oggi dopo i
difficili momenti trascorsi è una certezza indubitabile. La fede è stata
davvero il nostro sostegno e la nostra gioia, pur tra tante lacrime e
tra tanta angoscia. Provo tanta gratitudine al pensiero che il Signore è
fedele. A volte mi sono sentita molto povera. E per questo chiedevo al
Signore di liberarci. Lo chiedevamo spesso insieme. Il Signore ci ha
liberato, non subito, in maniere diverse. Ora ho voglia di camminare,
con più energia e con più fiducia, vivendo attimo per attimo, finché Lui
lo vorrà”.
Perché ha scelto di entrare a far parte del movimento contemplativo che
fa capo a padre De Foucauld?
“Il primo pensiero
che mi è venuto in mente leggendo la domanda è stato quello di tornare
indietro nel tempo. Sono venuta qui per un ritiro che ero molto giovane
e padre Andrea Gasparino, che è il nostro fondatore, si era soffermato
su questa frase del Vangelo che dice: ‘quando invitate qualcuno, non
fatelo con i ricchi, con quelli che possono tornarvi utili, pensate a
chi non vi può restituire niente. Siate aperti a questa gratuità’. Ed è
proprio la gratuità che ho scoperto in questa comunità sin dall’inizio.
È stato questo che mi ha attirata. L’altro aspetto è stata la preghiera,
lo stare davanti al Signore che ti trasforma e plasma il cuore, anche
quello più duro. E lo fa diventare più accogliente”.
Il
senso della vostra presenza in quella zona si richiama al carisma del
fondatore del vostro movimento?
“Sì. Siamo sempre
andate alla ricerca delle frange più povere della popolazione. Godevo
tanto di andarli a trovare a casa, specialmente quelli che non potevano
più muoversi o quelli che non osavano perché erano troppo poveri. Li
porto tanto in cuore. Sento in cuor mio che negli ultimi tempi il
Signore mi ha chiamato alla benevolenza, cioè a vedere il bene negli
altri e nel farglielo notare. Si è creata un’amicizia molto salda con
queste persone musulmane, per me fratelli e sorelle in Dio”.
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Suor Caterina
Girando, per tutti suor Rinuccia, anche lei cuneese di Boves,
sessantasette anni, è missionaria in Kenya da trentacinque anni. Si
sofferma sulla sua missione al servizio dei più poveri.
“La zona di Elwak è
un territorio deserto, abitato da popolazioni per lo più nomadi, dedite
all’allevamento. Per questo dipendono totalmente dalle piogge stagionali
e dall’acqua dei pozzi, che costituisce la ricchezza più grande. Ed è
anche per il controlli dei pozzi che tante volte si creano tensioni tra
diversi gruppi. A Novembre abbiamo vissuto davvero un momento di
conflitto abbastanza forte tra due tribù.. Noi abbiamo cercato in quel
momento di star vicino ai più poveri, ai più indifesi, a quelli che
pativano di più per la violenza di quella situazione. Come ha già detto
Maria Teresa, la nostra comunità cerca di vivere un po’ quello che è
espresso dal nome stesso del nostro movimento: essere “contemplativi”,
cioè credere che la preghiera è il nostro primo “lavoro”, la nostra
prima missione, il senso di tutto quello che viviamo; “missionari”,
cioè mandati ai poveri, mandati a quelli che soffrono di più in tanti
modi, perché emarginati, disprezzati, non amati e condividere con loro
l’amore di Dio ; secondo lo stile di P. De Foucauld, cioè in un servizio
semplice, vicino alla gente, che cerca, al di là del lavoro stesso, di
offrire amicizia e uno spazio accogliente, dove l’altro può riscoprire
la sua dignità.
La nostra
fraternità vuole appunto essere una piccola presenza di preghiera nel
mondo dell’Islam. E poi una presenza di servizio ai tanti poveri che
arrivano a casa nostra, specialmente bambini denutriti, mamme anemiche,
malati di epilessia, anziani soli….sono davvero tanti i volti incontrati
in questi anni, che hanno trovato un aiuto nella fraternità.
Abbiamo anche una piccola comunità cristiana che cammina
insieme con noi, costituita da impiegati del governo keniota, che sono
mandati a El Wak, dalle altre parti del Kenya, per motivi di lavoro. Con
loro ci troviamo a pregare insieme, a condividere la Parola di Dio: per
tanti è davvero una possibilità di andare un po’ alle radici della
propria fede”.
Pensa di tornare in Africa?
“È troppo presto per rispondere a questa domanda!!! Quello
che so è che il Kenya lo porto nel cuore. Quello che so è che ho sentito
uno strappo molto forte a dovermi allontanare dalla fraternità di El Wak
al momento del rapimento… e poi anche dopo, alla liberazione, ho sentito
la sofferenza di partire senza neppure poter andare a salutare la nostra
gente a El Wak. Ma la certezza è che il Signore, come ci ha guidato
fin’ora, continuerà a guidare la nostra vita”.
Cosa le è rimasto di questa esperienza? Che cosa le ha insegnato?
“Ho dentro questa
esperienza: nel momento in cui ci siamo trovate spoglie di tutto, ma
proprio di tutto (e non solo di cose materiali, ma anche del nostro
lavoro, della gente che ti cerca , che ha bisogno di te, del bisogno di
fare bella figura, del desiderio di aver ragione, ecc…) lì abbiamo
riscoperto in maniera più forte l’essenziale e la ricchezza una
dell’altra: non c’era più nulla che ci divideva, ma eravamo davvero
profondamente sorelle, in un essere continuamente tese una ad aiutare, a
sollevare l’altra. È stata un’esperienza molto forte per me. E lì scopri
come soltanto la fede dà senso e ti sostiene”.
Riguardo ai nostri
rapitori…. certo erano terroristi, ma abbiamo anche tantissimi ricordi
di gentilezze, di attenzioni che abbiamo ricevuto da loro, di momenti
nei quali emergeva il loro cuore buono. Per questo davvero non riusciamo
a portare loro rancore, ma sofferenza, per quello che vivono e
continuiamo a pregare per loro”.
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