Il dialogo ebraico-cristiano oggi
 

nelle parole del
rabbino Jack Bemborad
  
 


Rita Salerno (a cura di)


 

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È forse, tra gli ebrei, una delle personalità che meglio ha conosciuto i pontefici dell’ultimo scorcio del secolo passato. Il rabbino Jack Bemporad, direttore del Center for Interreligious Understanding, ha alle spalle una vita particolarmente intensa. Scampato all’Olocausto, da undici anni viene periodicamente in Italia per tenere i suoi seminari alla Pontificia Università s. Tommaso d’Aquino e per partecipare a diversi incontri tra cui quello organizzato il 2 marzo scorso a Roma dalla Russel Barrie Foundation e dalla Pontificia Università S. Tommaso d’Aquino dedicato al dialogo interreligioso. Iniziativa, questa, inserita nell’ambito di un vasto programma che prevede, tra l’altro, l’assegnazione di una borsa di studio biennale destinata a preti e laici sul dialogo interreligioso per formare una nuova generazione di leader religiosi in grado di dedicarsi alla costruzione di un futuro all’insegna del dialogo e della pace.

Bemporad, che vive stabilmente negli Stati Uniti, è stato l’artefice del documento elaborato nel gennaio 2003 in occasione del simposio svoltosi in Vaticano sulle “risorse spirituali delle religioni per la pace”. Prima ancora, nel 1992 ha collaborato con i cardinali Johannes WiIlebrands e Edward Cassidy per stabilire relazioni diplomatiche tra il Vaticano e lo stato d’Israele. 

Alla vigilia dell’udienza di Benedetto XVI con il gran Rabbinato d’Israele, dopo la ferma condanna del Papa di ogni forma di negazionismo o revisionismo sulla Shoàh che ha fatto seguito alle dichiarazioni dei vescovi lefebvriani, il rabbino ha avuto parole di grande stima per Papa Ratzinger.

A che punto è il dialogo ebraico-cristiano?

“In un certo senso abbiamo attraversato un periodo di stallo. Posso dire che Benedetto XVI è ben conscio dell’importanza del dialogo tra ebrei e cristiani. In diverse circostanze, come testimonia la sua visita in Germania in occasione della giornata mondiale della gioventù del 2005, ha dato prova della sua volontà di perseguire nel cammino tracciato dai suoi predecessori. Specie nel discorso tenuto nella sinagoga. Credo che stia impegnandosi con tutte le sue forze per un dialogo sincero ed improntato a comprensione reciproca. È evidente che ci tiene ad un legame cordiale e amichevoli con gli ebrei di tutto il mondo, specialmente ora che si accinge ad andare in Medio Oriente. Una visita che coincide con un momento non facile per Israele, alle prese con un governo nuovo, la situazione di Gaza e dei palestinesi.

Ritengo che la scelta di visitare oggi Israele sia frutto di una decisione motivata dal desiderio di dimostrare tutta la sua simpatia nei confronti dello stato di Israele. Lo prova il fatto che quando è venuto negli Stati Uniti, si è recato anche in una sinagoga. Da notare che Giovanni Paolo II non è mai stato in una sinagoga all’estero. L’unica in cui ha messo piede è stata quella di Roma, in occasione della storica visita dell’aprile 1986. Non ha mai accettato l’invito di recarsi nelle sinagoghe delle città estere che nel corso degli anni ha visitato. Al contrario, Benedetto XVI ha sempre scelto di andare nelle sinagoghe dei paesi mete dei suoi viaggio apostolici, a riprova del suo desiderio di amicizia nei confronti del popolo ebreo. Sul piano teologico, sappiamo bene che il suo pensiero ritiene la religione ebraica la premessa indispensabile di quella cattolica. E tutto il suo impegno nei confronti degli ebrei è da leggere in questa chiave”. 

Quali differenze intravede, dal punto di vista del dialogo, tra Papa Giovanni Paolo II e Benedetto XVI?

“Occorre tenere conto che Benedetto XVI è sulla cattedra di Pietro da soli quattro anni, mentre il predecessore ha avuto quasi ventisette anni di governo della Chiesa cattolica. È troppo presto quindi per affrontare sotto tutti gli aspetti la questione. Fatta questa premessa, mi sembra che il Papa tedesco abbia dato prova di stima e di riconoscenza nei confronti degli ebrei. È evidente che è conscio del contributo del popolo ebraico all’umanità. Esattamente come Giovanni Paolo II. Quest’ultimo, però, aveva un modo più amichevole di affrontare la questione.

Voglio dire che dovunque andava, incontrava rappresentanti della locale comunità israelita, in Polonia aveva amici ebrei, l’appartamento dove visse con il padre era di ebrei. Perfino i suoi professori all’università polacca che frequentò erano ebrei. Aveva sviluppato una conoscenza tutt’altro che superficiale dell’appartenenza ebraica. Me ne sono reso conto durante una delle tante udienze che mi concesse. Alla presenza di otto persone, mi disse che tutta la vita intellettuale polacca era in mano ad ebrei.

La stessa cosa non si può dire di Benedetto XVI. Ratzinger non ha avuto lo stesso tipo di formazione, né è stato così legato agli ebrei. Wojtyla è stato fianco a fianco con amici ebrei, ha vissuto con suo padre in una casa di proprietà di ebrei, perfino all’università che frequentò i suoi professori erano ebrei. Ratzinger non ha avuto un legame così stretto con ebrei. Ma al pari di Wojtyla, ha sofferto le conseguenze del nazismo, la sua famiglia era contro il nazismo. È stato prigioniero di guerra, unico Papa nella storia recente. Scappò dall’esercito nazista. Su questo piano, i due hanno molto in comune.

Posso dire con certezza che Benedetto XVI è un grande amico degli ebrei. Quando è diventato Pontefice ha detto chiaramente di voler proseguire nel cammino intrapreso da Giovanni Paolo II. Specialmente nel dialogo con i fratelli ebrei. Non dimentichiamo che nel corso della sua visita a Colonia per la giornata mondiale della gioventù ha voluto incontrare la comunità locale nella sinagoga ed ha avuto parole di stima per gli ebrei, citando il predecessore. Anche quando è stato in pellegrinaggio ad Auschwitz, non ha dimenticato di rimarcare le sofferenze patite dagli ebrei nel corso della seconda guerra mondiale. E recentemente in occasione del viaggio negli Stati Uniti, si è fermato a New York in una sinagoga ed ha voluto incontrare la delegazione proprio per manifestare la sua volontà di continuare nel dialogo avviato in precedenza. Tutti fatti che mi portano a concludere che Benedetto XVI crede fermamente nel legame forte che unisce ebrei a cristiani e che non si può spezzare.

Però ritengo anche che, sul piano teologico, Benedetto XVI diverge nel suo pensiero da Giovanni Paolo II per il modo di affrontare la religione musulmana. Intendo dire che il Papa polacco non vedeva la questione nello stesso modo con cui l’affronta il Pontefice tedesco. Ad esempio, quando Benedetto XVI parla delle radici cristiane dell’Europa e mette in guardia dai pericoli del secolarismo il vecchio continente, siamo davanti ad una questione centrale per il suo pontificato. Un punto, questo, che di certo non era assente tra le priorità del pontificato wojtyliano, ma non affrontato con la stessa urgenza e sullo stesso piano. Il concetto di una Europa cristiana, che non deve diventare musulmana, è un tema centrale del pontificato di Joseph Ratzinger. Credo che questo sia per il Papa motivo di grande preoccupazione. In questo senso, il suo papato è più irto di difficoltà di quello del suo predecessore. Perché oggi si comprende quanto sia complesso il problema del dialogo interreligioso”.

Risale ad un anno fa la visita negli Stati Uniti di Papa Benedetto XVI dove ha incontrato la comunità ebraica. Cosa l’ha colpito di questo viaggio e come è stato visto dalla comunità ebraica?

“Mi sembra che Benedetto XVI ha detto esplicitamente quello che Giovanni Paolo II aveva lasciato intuitivamente comprendere. In che senso?

Giovanni Paolo II durante il primo incontro con la comunità ebraica nel 1979 disse che si sarebbe impegnato per un dialogo fruttuoso tra ebrei e cattolici. Ma quel che molti non dicono è che aggiunse anche che il suo auspicio era di una comprensione reciproca per un confronto davvero costruttivo tra le parti. Mi sono occupato di questi temi per più di trent’anni e posso dire che i rappresentanti della religione cattolica, forse per la Shoà e per il documento conciliare ‘Nostra Aetate’, hanno svolto un ruolo primario in questo dialogo, privilegiando a tal punto questo aspetto da mettere in secondo piano quei punti che li dividono dagli altri cristiani.

Giovanni Paolo II nella sua prima visita a Washington ha fatto proprio un punto che mi sono domandato spesso per più di vent’anni. E cioè, come posso essere fedele alla mia religione, senza essere infedele a quella di un altro? Come posso far conoscere la mia fede ad una persona di religione diversa dalla mia senza tradirla?

Non è un punto secondario questo perché siamo tutti interessati alla fede dell’altro, ma dobbiamo parlare nel dialogo anche della nostra fede religiosa, ma in una maniera esplicita. Ritengo che abbia fatto bene a dire questo.

"Papa Giovanni Paolo II sarà ricordato dalla comunità ebraica mondiale come una figura coraggiosa e innovatrice che più di ogni altro Papa nella storia si è adoperato per sanare le ferite del passato e per gettare ponti per il futuro tra le nostre due religioni. Nei miei scritti ho cercato di mettere in evidenza l’azione del Papa polacco a favore degli ebrei verso i quali sentiva di essere unito da un legame speciale”.  

E’ imminente il viaggio di Benedetto XVI in Israele e Giordania che giunge a nove anni da quello compiuto in occasione del giubileo del 2000 da Giovanni Paolo II. Cosa si aspetta da questa visita?

“Per me Benedetto XVI è un uomo di pace, un Papa che vuole fortemente la pace. Apprezzo molto i suoi tentativi di parlare di pace anche in un contesto non facile come quello dell’area mediorientale”.

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