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English version
“Un servizio alla Chiesa
e al popolo cristiano che esige una profonda spiritualità”: così il
Papa, nel discorso rivolto il mese scorso ai presuli italiani durante la
59ma assemblea generale svoltasi in Vaticano, ha definito l’Anno
sacerdotale, che ha preso il via il 19 giugno. “Siamo chiamati, insieme
ai nostri sacerdoti – le parole di Benedetto XVI - a riscoprire la
grazia e il compito del ministero presbiterale. Esso è un servizio alla
Chiesa e al popolo cristiano che esige una profonda spiritualità”. “In
risposta alla vocazione divina – l’esortazione del Papa all’assise
episcopale - tale spiritualità deve nutrirsi della preghiera e di una
intensa unione personale con il Signore per poterlo servire nei fratelli
attraverso la predicazione, i sacramenti, una ordinata vita di comunità
e l’aiuto ai poveri”. “In tutto il ministero sacerdotale risalta – ha
aggiunto il Pontefice - l’importanza dell’impegno educativo, perché
crescano persone libere e responsabili, cristiani maturi e consapevoli”.
Benedetto XVI ha indetto questo speciale “Anno Sacerdotale” che si
concluderà il 19 giugno 2010 nel 150.esimo della morte del Santo Curato
d’Ars, Giovanni Maria Vianney, “vero esempio di Pastore a servizio del
gregge di Cristo”.
A padre Amedeo
Cencini, canossiano, psicologo esperto di formazione religiosa e docente
alla Pontificia Università Salesiana, autore di diversi libri
sull’argomento, abbiamo chiesto di guidarci nella riflessione sulla
missione del sacerdote nella Chiesa e nella società attuale.
Quale
il significato di questo anno sacerdotale, a suo avviso?
“C’è un significato
ufficiale, che è quello che emerge dalle parole del Santo Padre che l’ha
ideato e indetto “per favorire la tensione dei sacerdoti verso la
perfezione spirituale dalla quale soprattutto dipende l’efficacia del
loro ministero”. Sembra dunque di capire che Benedetto XVI pensi a un
evento non spettacolare, ma che dovrebbe esser vissuto “soprattutto come
rinnovamento interiore, nella riscoperta gioiosa della propria identità,
della fraternità del proprio presbiterio, del rapporto sacramentale con
il proprio Vescovo” (Hummes). Il titolo poi dato sempre dal Papa a
questo anno (“Fedeltà di Cristo, fedeltà del Sacerdote”) lascia pensare
a una specifica attenzione a un aspetto problematico della vita del
prete oggi, alla fatica della sua fedeltà.
C’è dunque
all’origine di quest’anno un significato ideale che spinge a
riscoprire la bellezza e l’importanza del sacerdozio, ma c’è pure una
considerazione molto realistica che invita il prete a riflettere
sul proprio vissuto personale, non poche volte segnato da difficoltà,
crisi, contraddizioni, tentazioni…. Oggi come ieri, oggi forse più di
ieri”.
L’anno
sacerdotale è l’occasione per riscoprire il sacerdozio cattolico.
Secondo lei che cosa è e cosa non è?
“Bella domanda, cui
senz’altro non sarei capace di rispondere in modo esaustivo. Oggi il
problema dell’identità del prete non si pone forse a livello teologico,
e nemmeno spirituale; in tal senso il prete è l’uomo di Dio, il ministro
dell’Eucaristia, l’annunciatore della Parola, il pastore delle pecore a
immagine di Cristo, ovvero col suo cuore e i suoi sentimenti… E va anche
detto che la figura del parroco rimane dominante nel costruire
l’identità del prete diocesano, capace di dare un ruolo e una
consistenza all’identità del singolo (coprendone, almeno fino a un certo
punto, debolezze, fatiche e fragilità), col rischio, però, di sviluppare
un’identità fortemente ancorata al ruolo che si è chiamati a rivestire.
Tale ambiguità
resta nascosta finché il ruolo propone compiti chiari, facilmente
gestibili dal soggetto (non chiedono troppa fatica) e soprattutto
remunerativi in termini psicologici (che dunque non faticherà a trovare
nel ruolo sacerdotale la propria positività, un certo successo), ma è
destinata a emergere e a volte a esplodere (ecco le crisi) quando i
compiti cominciano a esser poco definiti, da discernere di volta in
volta secondo la libertà e responsabilità del singolo (=cioè secondo il
suo livello di maturità) e, soprattutto, poco remunerativi in termini di
resa positiva per l’io (per cui uno si dà e si spende, ma non ne ricava
stima e apprezzamento dagli altri). Oggi, per di più, sta capitando
questo: che alla parrocchia fa ancora ricorso in maniera massiccia molta
gente, mentre i preti si ritrovano con un sovraccarico progressivo di
lavoro, senza materialmente riuscire a seguire con lo stesso impegno
tutti gli ambiti, né saper bene cosa privilegiare, col rischio che
“ognuno scelga a quale ambito dedicarsi, sfaldando l’identità del
sacerdote in mille rivoli” (Castegnaro).
Dunque occorre
ripensare quel delicato punto di contatto tra identità
teologico-spirituale e compiti pastorali da specificare e precisare
meglio, quel punto di contatto che – alla radice - è costituito dalla
personalità del singolo, dal suo grado di consistenza interiore”.
I
sacerdoti “sono importanti non solo per ciò che fanno, ma anche per ciò
che sono”, ha scritto nella lettera scritta dal cardinale Claudio Hummes
prefetto della congregazione per il clero inviata agli oltre 400mila
presbiteri. Quale immagine devono offrire al popolo di fedeli nel loro
servizio quotidiano alla missione?
“Chissà se questa
affermazione del cardinale Prefetto è anche un modo di rispondere alla
difficoltà che abbiamo appena denunciato, o di indicare ciò che è
prioritario in questo servizio (l’essere sul fare). Certo è che se
parliamo di immagine, inevitabilmente siamo ricondotti a quel punto di
contatto tra chiarezza teorica (teologica) relativa al ministero e
identificazione dei modi concreti o delle forme attraverso cui render
fecondo il ministero stesso, cioè alla personalità e maturità del
singolo prete di cui l’immagine sociale è segno.
Provo allora a dire
alcuni segni di questa maturità presbiterale particolarmente
significativi oggi: la testimonianza d’una vita vissuta come vocazione,
senza risparmio e senza calcoli, ma con la gioia pacata di chi si sente
ogni giorno chiamato da Dio; l’attaccamento del prete alla “sua” gente,
quella che gli è stata affidata e cui si consegna con una dedizione non
misurata su ritmi professionali, ma legata all’affetto che riempie
sempre più il suo cuore di celibe; un ministero esercitato non a titolo
personale, ma come espressione della vitalità e maternità della chiesa e
pure d’un presbiterio del quale il don è contento di far parte; un
intelligente equilibrio, senza ambigui unilateralismi, tra dimensione
rituale-liturgica (verticale) e quella più pastorale-relazionale
(orizzontale) come due dimensioni della stessa identità e spiritualità,
che rendono l’uomo-prete totalmente appartenente a Dio e il pastore
sinceramente appassionato per le sue pecore, specie le malate e
disperse…”
Curare
la santità dei chierici, la specificità e l’integralità del loro
ministero significa – sono sempre parole del cardinale Hummes – curare
l’intera opera di evangelizzazione. Eppure, mai come oggi, le cronache
sono piene di storie non edificanti che hanno al centro religiosi. Forse
la missione sacerdotale attraversa oggi un momento di crisi?
“Suppongo che lei
si riferisca alle tristissime vicende di abusi sessuali a opera di
sacerdoti su minori e adolescenti. A tal riguardo, da un lato ha ragione
il cardinale a ricordare che la grande maggioranza dei preti vive
fedelmente la propria vocazione; d’altro canto foss’anche una per quanto
esigua minoranza a essersi macchiata di certi crimini il fenomeno è
sconcertante e vergognoso, e chiede il massimo dell’attenzione a livello
soprattutto di formazione, e non solo iniziale, badiamo bene, ma anche
permanente.
Il vero problema
circa le crisi, però, è che non esistono solo quelle relative alla
sessualità, ma pure altre. Vorrei qui accennare a un paio d’esse.
Anzitutto esiste oggi una specifica area o situazione di disagio
clericale probabilmente legato a quel corto circuito tra identità
teologica e pastorale di cui abbiamo detto prima. È il fenomeno del
burn-out, cosiddetto o anche chiamato “sindrome del buon samaritano
deluso”, che sembra interessare un discreto numero di presbiteri, dai
più giovani alla mezza età, e che si manifesta in generale con questi
segni-sintomi: stress lavorativo, esaurimento emotivo e professionale
con conseguente demotivazione, che porta a una forma di
spersonalizzazione e disimpegno nel proprio lavoro, riducendo al minimo
il proprio investimento emotivo.
Tra i preti si sono
evidenziate queste sei cause scatenanti la sindrome: mancanza d’un senso
comunitario, sovraccarico di lavoro, attrito tra i propri valori e
quelli dell’organizzazione, mancanza di controllo sul proprio lavoro (e
i suoi risultati), gratificazione insufficiente, mancanza di equità
percepita nel proprio trattamento. Atteggiamenti-sentinella d’un
possibile rischio di burn-out possono essere la difficoltà di
saper definire i limiti nell’àmbito della relazione d’aiuto, confondendo
il piano personale con quello professionale; la debolezza o la
dipendenza nei rapporti con gli altri; la ricerca di soddisfazione
esclusivamente nel lavoro; la necessità di controllare tutto e tutti,
rifiutando deleghe e condivisioni di responsabilità (Ronzoni).
Altra situazione di
disagio oggi particolarmente evidente è quella relativa alla solitudine
del prete. Solitudine non… da celibato o essenzialmente affettiva, ma
ecclesiale, potremmo dire (così definita dal 55% di preti
intervistati in un’indagine sul clero (del Triveneto), che in termini
più concreti significa: carenza di relazione e sostegno all’interno del
mondo ecclesiale, isolamento pastorale, difficoltà del prete a
condividere adeguatamente le proprie preoccupazioni pastorali
quotidiane, il sentirsi solo nel decidere: “al di là del cameratismo
molto radicato soprattutto tra preti della stessa generazione, sembra
non vi sia molta condivisione tra preti, soprattutto tra coloro i quali
operano in parrocchie vicine: ognuno tende ad agire un po’ come una
monade isolata, senza effettivo confronto ed elaborazione comune” (Castegnaro).
Vizio antico, per altro”.
Quale
è il segreto dell’indispensabilità e della bellezza del ministero
sacerdotale?
“Credo che un prete
sperimenti la bellezza del proprio sacerdozio nella misura in cui
davvero persegue questo obiettivo formativo: l’avere in sé i sentimenti
del Figlio. Notiamo bene, abbiamo detto “i sentimenti”, non
semplicemente alcuni comportamenti o gesti, riti o prestazioni
professionali, no, troppo poco e persino ambiguo. Il prete è chiamato ad
avere un cuore simile a quello di Gesù in croce, cioè nel momento della
massima dimostrazione d’amore per l’uomo. Se il prete non giunge a
convertire i propri sentimenti, a evangelizzare le proprie emozioni
rendendole simili a quelle di Cristo, diventa un mestierante o un
faccendiere, o -peggio ancora- un facchino o un dipendente qualsiasi. La
bellezza ha radici profonde e una visibilità misteriosa, e chiede – per
essere sperimentata - una sensibilità corrispondente, frutto di radicale
coerenza di vita”.
Per
avere buoni laici e buoni vescovi è necessario avere i buoni sacerdoti.
Ritiene che questa affermazione risponde a verità e che quindi ognuno
deve sentirsi coinvolto in questo impegno al servizio dell’uomo?
“Certo che è vera,
anche perché nella chiesa di Dio o si cresce tutti insieme, tutte le
vocazioni, o non cresce nessuno. Ciò detto la sua affermazione riconosce
una certa centralità al ruolo e alla figura del presbitero. È ovvio che
la formazione del laico dipenda in buona parte dalla qualità della
proposta educativa che viene dal presbitero, e dunque in ultima analisi
dalla qualità della sua vita e testimonianza. In tale prospettiva credo
vada letto anche il fenomeno della contrazione numerica dei sacerdoti.
È vero che tale
fenomeno sta creando seri problemi alla pastorale (nel 1971 i preti
diocesani in Italia erano 42.000; nel 2023 si calcola che saranno
25.000), ma potrebbe anche “costringere” la pastorale e il prete pastore
a pensare finalmente un nuovo tipo di pastorale e in particolare di
ministeri al suo servizio, tanti – in teoria- quanti sono i credenti
all’interno d’una parrocchia, perché ognuno come credente ha la sua
vocazione, ed è perciò chiamato a dare il suo apporto al servizio della
comunità. Diminuiscono le vocazioni al sacerdozio? Non è necessariamente
un dramma, se i preti che ci sono e ci saranno diventano animatori ed
educatori vocazionali dei loro laici perché si assumano le loro
responsabilità di credenti, perché decidano di vivere con maggior
consapevolezza e radicalità la loro vocazione di laici, di padri e
madri, di professionisti, d’impegnati nella politica, nell’istruzione,
nell’economia…
C’è chi teme che
questa attenzione alla vocazione del laico comporti una minore cura di
quella sacerdotale; ebbene, è esattamente il contrario. Se il sacerdote
diventa vero animatore vocazionale di tutte le vocazioni crea in altre
parole una cultura vocazionale nella mentalità credente, per cui nessuno
può pensare più la propria fede indipendentemente da una chiamata cui
rispondere e che lo rende responsabile, non solo fruitore, della
salvezza, e responsabile non solo della sua, ma anche dell’altrui
salvezza. Di fatto, nella misura in cui si crea una cultura vocazionale
si creano le premesse per una aumentata sensibilità vocazionale, di
tutti e d’ognuno per la sua vocazione e per quella dell’altro. E io sono
convinto che aumenteranno anche le vocazioni al sacerdozio”.
Quale
immagine di sacerdote per l’uomo di oggi propone il Papa nella
celebrazione di questo anno?
“A me pare sia
soprattutto un uomo di profonda spiritualità e grande zelo pastorale,
con un amore intenso per Cristo e la chiesa, e uno spiccato culto e
passione per la verità. Il fatto che modello proposto per questo Anno
Sacerdotale sia il santo Curato d’Ars (e s’accinga a proclamarlo patrono
dei preti) è molto rivelatore della sensibilità del Papa-teologo al
riguardo. Ma a tal riguardo è illuminante quanto Benedetto XVI ha
ricordato nel discorso rivolto ai membri della Congregazione per il
clero.
Anzitutto il Papa
guarda il ministero presbiterale nell’orizzonte della dimensione
missionaria e di questa mette a fuoco il radicamento sacramentale che
configura il sacerdote a Cristo e al suo cuore: tutta la sua vita è
protesa verso questa conformazione (come vuole ricordare lo stesso Anno
sacerdotale). Della missione del prete Benedetto XVI prende in esame 4
caratteristiche: ecclesiale, comunionale, gerarchica e dottrinale,
soffermandosi prevalentemente sull’ultima. Dottrina come fedeltà alla
tradizione ecclesiale e anche come consapevolezza d’una verità che dà il
coraggio d’esser presenti nel mondo, “identificabili e riconoscibili sia
per il giudizio di fede, sia per le virtù personali sia anche per
l’abito, negli ambiti della cultura e della carità, da sempre al cuore
della missione della chiesa” (Benedetto XVI). Il termine “dottrina” non
va dunque inteso solo o prevalentemente in senso intellettuale, da
studioso, ma soprattutto come riaffermazione della centralità di Cristo
crocifisso e risorto, che il sacerdote annuncia e celebra come verità
della vita e della sua vita, come passione che lo investe, come
intelligenza amorosa.
Forse dice bene
l’immagine che il Papa ha del prete
questo profilo del presbitero che
Benedetto XVI pochi giorni fa ha
tracciato citando una descrizione del Cardinale Emmanuel Suhard,
(1874-1949): "Eterno paradosso del sacerdote. Egli ha in sé i contrari.
Concilia, a prezzo della sua vita, la fedeltà a Dio con la fedeltà
all'uomo. Ha l'aria povera e senza forze... Non ha in mano né i mezzi
politici, né le risorse finanziarie, né la forza delle armi, di cui
altri si servono per conquistare la terra. La sua forza è di essere
disarmato e di 'potere ogni cosa in Colui che lo fortifica'".
Come
sarà vissuto questo anno sacerdotale e come deve essere vissuto?
“I preti in genere
hanno molto goduto alla notizia di questo Anno a loro dedicato, anche se
non l’hanno dato a vedere. In fondo si sono sentiti e si sentono al
centro dell’attenzione del Papa e della chiesa. Credo che lo vivranno
molto intensamente, a condizione, però, che nelle rispettive diocesi i
vescovi sappiano inserire armonicamente la proposta e il senso della
proposta del Papa nelle iniziative varie d’ogni diocesi. Insomma, il
prete è sempre dinanzi a un “sovraccarico”: non solo di lavoro, ma anche
di proposte, d’iniziative pastorali e a volte anche spirituali. La vera
sfida sarà quella di non creare sovrapposizioni o confusioni, o quel
senso di saturazione che produce insensibilità, ma di coordinare e
coniugare il tutto, dando il messaggio, davvero centrale, che non c’è
alcuna dicotomia tra vita spirituale e attività pastorale, quando il
cuore è formato a vibrare degli stessi sentimenti del Cristo”.
Quali
frutti potrà offrire alla Chiesa l’anno sacerdotale?
“Io mi auguro
soprattutto questi: in tempi di preoccupazione per la quantità, vorrei
che da questo anno venisse una rinnovata attenzione alla qualità della
vita del prete, e più in particolare alla qualità della formazione
iniziale, che va un po’ ripensata, e ancor più della formazione
permanente, che va inventata addirittura.
All’interno di
questa attenzione per la qualità della vita del prete, mi auguro che
aumenti nel clero il senso del presbiterio e della fraternità
presbiterale, e che questo risulti anche più visibile, sia nello stile
di conduzione delle parrocchie, sia nell’evidenza d’una delle cose più
belle che il prete può mostrare di sé e della sua vita: le amicizie
presbiterali.
Inoltre, anche se
ignoro se sia realistico attenderselo, ma certamente sarebbe frutto
rilevante riuscire a ridefinire il versante più concretamente pastorale
del sacerdote, perché il povero prete non sia in continuazione
strattonato in mille direzioni e oberato da obblighi, attenzioni,
incombenze… che non gli spettano o che possono esser condivise con o da
altre figure ministeriali, e che non raramente sono causa di fenomeni
pericolosi, come abbiamo visto.
E un altro frutto,
che non sarà tanto originale, ma che ognuno credo si porti in cuore: mi
aspetto un aumento delle vocazioni al sacerdozio”.
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