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English version
E’ stata tra le
prime ad accorrere e a prestare soccorso alla popolazione abruzzese
colpita dal devastante terremoto del sei aprile scorso. Ha toccato con
mano cosa significa vivere sulla propria pelle la quotidianità sconvolta
da un evento imprevisto e lacerante come quello del sisma e delle scosse
che si susseguono imprevedibili e profonde a lacerare l’intimità delle
persone e delle cose. Suor Pasqualina
Zambrano, trentasei anni, cresciuta a Battipaglia, attratta
dalla radicalità del messaggio francescano, che vive la sua
consacrazione come una donazione – “servire il servo e non il padrone” è
la frase evangelica che le piace evocare quando parla della sua scelta
di vita – non dimenticherà mai quei momenti vissuti a contatto con la
realtà abruzzese messa in ginocchio dal sisma.
Suor Zambrano, della
Congregazione delle Francescane Alcantarine, famiglia religiosa che non
conosce crisi di vocazioni, è impegnata sul fronte della pastorale
carceraria a contatto con le detenute dell’istituto di pena di Trani. Ma
anche il dialogo con i giovani, ambito particolarmente caro alle
alcantarine che ad Assisi hanno un centro vocazionale dove a fine anno
si vive una esperienza indimenticabile per i ragazzi in cerca di un
senso stabile nella propria vita.
“Da qualche anno ho
la gioia – racconta suor Pasqualina – di condividere nel mio istituto
l’impegno sul versante della pastorale giovanile. in sostanza, significa
accompagnare i giovani nei loro percorsi di vita a partire dai semplici
incontri di adolescenti o preadolescenti, che nascono e si sviluppano in
un contesto parrocchiale, alla conoscenza con il mondo giovanile che si
avvicina quotidianamente sulla strada. Lavoro in un centro diurno per
minori a rischio a Bisceglie in Puglia. In questo modo posso venire a
contatto sia con i ragazzi che vivono all’interno del centro che con i
loro coetanei nel contesto scolastico. Ambito questo che vivo con
passione, anche perché è nel nostro carisma quello di stare accanto ai
giovani, sostenendoli nel loro itinerario di vita a partire dalla realtà
vissuta, a cominciare dalle difficoltà quotidiane. Entrare nelle loro
storie vuol dire prenderli per mano giorno per giorno per aiutarli ad
entrare nella realtà più grande che le comprende tutte, che è quella di
Dio. Esperienze bellissime, che mi hanno arricchito molto e nelle quali
leggo le modalità della pedagogia del Signore per entrare nell’uomo. Mi
sono resa conto da tutto questo che se i giovani riescono a cogliere la
presenza del Signore nella loro vita, pian piano si lasciano
accompagnare e sono in grado di offrire in maniera costruttiva la
straordinaria ricchezza di cui sono dotati. C’è una potenzialità che non
va sprecata, che non deve essere buttata via. Mai come oggi i giovani
sono alla ricerca di un senso della loro vita. E mai come oggi c’è
questo desiderio di vita nel mondo giovanile, perché siamo talmente
circondati di morte. Desiderio di libertà, di non essere condizionati,
di non stare solo dietro alle mode del momento che alla fine si rivelano
troppo strette e soffocanti. È la voglia di poter essere se stessi,
nella propria identità e unicità per non più conformarsi ai diktat
attuali per soffocare il proprio io. Quando i giovani mi incontrano ed
entrano a contatto con i miei centotrenta chili di peso, con la serenità
e la gioia del fare, si rendono conto che si può vivere senza complessi
ed in piena libertà. E’ bello vederli ogni volta, vivere la nostra
realtà di Santa Maria degli Angeli, vicino Assisi, con l’animo di chi sa
di trovarsi finalmente a casa. Ma non è l’impatto di chi vive con un
tetto sulla testa semplicemente, ma di chi ha consapevolezza di vivere
una esperienza di libertà e di amore. Liberi di intervenire, di stare
insieme, di condividere pensieri e progetti. Questo, a mio avviso,
dovrebbe essere oggi la vita consacrata: la possibilità di aiutare
l’uomo ad affermarsi per quello che è. Solo così è possibile gestire
anche i conflitti e le difficoltà della vita perché sa che può farlo in
una libertà che gli appartiene e che nessuno può togliere, perché sta
bene con se stesso e con gli altri. Il rifugiarsi in una virtualità
nasce proprio, secondo me, nell’incapacità di riuscire a vivere
liberamente con l’io e dunque anche in relazione con l’altro. Ed è una
grande domanda quella di essere accanto a chi ti chiede aiuto che tocca
tutti noi consacrati e consacrate”.
E’ la stessa forza a cui ha attinto nel caso
dell’esperienza vissuta in Abruzzo?
“Nel caso
dell’Aquila si tratta di una esperienza davvero particolare. Alle prime
ore di quel lunedì sei aprile ci è arrivata una telefonata dalla nostra
comunità composta di anziane suore e di giovani studentesse. Sono
arrivata il lunedì mattina a mezzogiorno. Ricordo perfettamente i
messaggi a mezzo radio e televisione che invitavano a non muoversi per
non ostacolare il lavoro dei soccorritori. Ma come fai a stare fermo
quando sai che la tua comunità di anziane religiose, incapaci di
scappare per la paura, si era rifugiata in un posto dove nessuno sarebbe
venuto a liberarle?
Io e un’altra
consorella, senza pensarci un attimo, abbiamo preso il pullmino e siamo
subito venute all’Aquila. La prima sensazione, una volta giunta, è stata
quella di rivivere le stesse emozioni vissute a sette anni in occasione
del terremoto che colpì l’Irpinia nel 1980 e in particolare la mia
città, Battipaglia. Per tre mesi ho vissuto nei vagoni dei treni in
stazione. Ricordo perfettamente la molla che è scattata in quel momento
in me: non me ne vado, voglio condividere questo momento con le persone
che stanno soffrendo. Ricordavo l’arrivo dei camion dei militari alla
stazione di Battipaglia con generi di conforto e cioccolato. Ho deciso
in cuor mio che potevo essere, io, un segno di speranza e di conforto in
un momento tanto buio. Ho portato via le anziane suore e al mercoledì in
cui prendeva l’avvio la settimana santa abbiamo fatto la scelta di
chiudere la nostra fraternità di cinque sorelle per aiutare la
popolazione. Siamo arrivate il giovedì santo, ci hanno accolto alla
tendopoli di Collemaggio. Abbiamo vissuto un periodo di tempo insieme ai
terremotati perché ci era stata data una tenda per stare accanto alla
comunità locale.
Quanto tempo siete state accanto ai
terremotati?
“Abbiamo prestato la
nostra opera a turni di dieci giorni. Ci davamo il cambio formando una
catena. Ma siamo state sempre accanto alle persone, praticamente fino a
poco tempo fa. Abbiamo il dono – e ci tengo a sottolinearlo – di
condividere i primi giorni. Quelli più duri. Il primo impatto non è
stato facile: tra le macerie, gli uomini che scavavano per estrarre i
morti. L’immagine che mi è rimasta impressa tra le prime è il corpo
senza vita di una studentessa estratta dal palazzo degli universitari e
la madre di questa giovane che si è girata verso di noi e si è messa a
gridare: Dov’è Dio? Dov’è il vostro Dio? Suor Francesca ed anch’io, non
ho vergogna di dirlo, mi sono posta la stessa domanda. Non credo di
aver pensato nulla di blasfemo se anche Gesù in croce chiese al Signore
perché l’avesse abbandonato. Ho sentito che in quel momento non dovevo
dare nessuna risposta. Sono andata incontro a questa mamma disperata e
l’ho abbracciata forte. Abbiamo pianto insieme a lungo. Ma non mi sono
permessa assolutamente di dirle che bisogna avere fede. Perché, in quel
momento, non aveva bisogno di sentirsi dire questo e poi perché la mia
fede, in quel momento, ha subìto un forte scossone di fronte ad una
tragedia come quella. Non lo ritengo una sconfitta, ma la prova di chi
anche nel dubbio sa poi ritrovare la forza di credere.
La domenica di
Pasqua ho vissuto un’altra difficile situazione: eravamo in un paesino
poco distante, c’era un sacerdote don Danilo che mi ha chiamato prima di
celebrare messa. Tra le lacrime mi ha detto: non te andare durante il
rito, stammi a fianco, perché per celebrare questa Pasqua ho bisogno che
un’altra persona creda per me. Aveva vissuto la notte del terremoto, era
molto scosso, era impaurito, non riusciva a celebrare la santa Pasqua.
Sono i segni veri di quell’umanità che Gesù ha incarnato e che poi
riesce a trovare senso e fiducia in Dio, malgrado queste difficili ed in
apparenza insormontabili prove. Vive e sperimenta sulla propria pelle un
grande senso di impotenza.
Con i giovani è
stato bello. Ricordo in particolare a Paganica, mi hanno impressionato
tantissimo. Insieme hanno vissuto una settimana santa davvero speciale,
pur in tanto dolore, e unendo le forze hanno fatto tanto per la comunità
locale. Il giorno di Pasqua abbiamo cantato e ballato tutti insieme.
Tutti hanno partecipato, anche quelli che hanno perso i loro cari. Per
me è stato un segno molto bello. Perché se riesci a condividere la
sofferenza nel silenzio, l’altro riesce a condividere la gioia e la
vita, anche nel dolore.
Un altro momento
molto forte è stato in occasione delle esequie del venerdì santo.
Ricordo di aver girato tra le bare e di aver pianto a lungo. Ma non
perché non credo alla Resurrezione, ma perché mi sono fatta la domanda:
che senso ha la vita? E ti chiedi anche: perché non a me?
Vedere, toccare le
bare bianche dei piccoli defunti inevitabilmente costringe a farti
domande importanti e a chiederti perché a lui e non a me?
Ti porta alla
memoria quella frase del Vangelo in cui si dice: “verrò e prenderò una
donna sì e una no”. Piangi perché ti chiedi anche come stai vivendo
questa esistenza che da un momento all’altro ti può essere tolta. E se
la stai vivendo conformemente al dettato evangelico.
Avevo una nonna,
Elvira si chiamava, che mi ripeteva che per lei era una nipotina. Aveva
perso tutto, affetti e casa. Ma lei diceva sempre: ho perso tutto, ma ho
acquistato una nipotina. Mi lasciava senza parole. Mi ricordo anche il
piccolo Giuliano, che all’inizio non parlava per la paura, a cui ho
regalato il cellulare e mi chiamava poi continuamente per sapere dove
ero e che stavo facendo. Questo è creare vita, in una situazione di
morte e di macerie. Ma io non ho fatto niente. Dormivo nelle tende
insieme agli altri, con i quali condividevo anche i pasti, facendo file
di ore e ore. E loro ci chiedevano il perché di questa scelta,
incomprensibile a prima vista se si pensa anche al susseguirsi delle
scosse. Ma chiaro agli occhi e al cuore di chi comprende che è
condividere una esperienza di vita e di morte”.
Sono passati sette mesi dal sisma che ha
colpito duramente l’Abruzzo. In che modo questa esperienza ha arricchito
la tua scelta di vita religiosa?
“Ho detto anche
prima che è stata un dono. Perché la vita se non è donata, non ha senso.
Qualsiasi possa essere lo stato, laico o religioso. Questa esperienza mi
ha arricchito nella fecondità. Mi ha fatto sentire madre, sposa, figlia.
Credo senza alcun dubbio che siano le cose più belle che si possono
vivere anche nella nostra natura di donne. A volte noi consacrate
rischiamo di perdere questo aspetto. Sono tornata da questa esperienza
pensando che non voglio mai smettere di essere innamorata. Perché chi
ama, dona.
E mi ha arricchito
anche da un altro punto di vista. Fondamentalmente, tendiamo tutti – chi
più chi meno – a credere di avere potere. Da questa esperienza ho tratto
la convinzione e la conferma che non abbiamo potere.
Anzi, uno solo:
quello di condividere con gli altri il potere dell’amore di Dio.
Le esperienze, in
questo senso, restano dentro di noi solo se vissute come un salto che ti
rimette in gioco. In quelle situazioni, o ti ricordi che c’è un Padre o
è finita per tutti”.
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