I cento anni del Segretariato        
Attività Ecumeniche
 

nelle parole di
MEO GNOCCHI
 


Rita Salerno (a cura di)


 

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English version

“Sognare la comunione, costruire il dialogo” è il tema scelto dal Sae, Segretariato Attività Ecumeniche, per la 47.esima Sessione di formazione ecumenica che come ogni anno riunisce addetti ai lavori e non a Chianciano Terme nel mese di luglio. Ai lavori dedicati ai cento anni di speranza ecumenica, hanno preso parte tra gli altri il biblista Piero Stefani, la pastora valdese Letizia Tomassone e Amos Luzzatto, già presidente Ucei.

A Mario Gnocchi, nato a Cremona l’8 settembre 1934, che dal 1968 frequenta il SAE, di cui è stato eletto presidente nazionale nel 2004, abbiamo rivolto alcune domande sull’argomento.

 

Quale è il contributo del Sae ed in particolare delle sessioni di formazione ecumenica al cammino di unità tra le religioni?

“Il campo d’impegno prioritario del SAE è l’ecumenismo inteso nel suo più specifico senso di incontro e dialogo intercristiano, interconfessionale. E la sessione di quest’anno, incentrata com’è nella memoria dei cent’anni del movimento ecumenico, privilegia necessariamente questo ambito specifico.

Ma è altrettanto certo che il dialogo ecumenico non può non affacciandosi al più ampio orizzonte interreligioso, sia perché l’esperienza del dialogo ha in sé stessa una potenzialità e una fecondità che non possono essere bloccate entro rigide frontiere, ma tendono ad espandersi a ogni dimensione della vita intellettuale e spirituale, sia anche perché l’ecumenismo, quanto più induce i cristiani a convergere al centro e a scavare al profondo della propria fede, tanto più li apre e li abilita a un confronto sereno e libero con le altre tradizioni religiose. Se, insomma, l’ecumenismo aiuta tutti i cristiani, come dice l’enciclica Ut unum sint di Giovanni Paolo II, “a scoprire l’insondabile ricchezza della verità”, li dispone al tempo stesso a rintracciare i riverberi e gli echi di questa verità in ogni autentica esperienza spirituale.

Anche alla nostra prossima sessione ecumenica ci sarà un’apertura al dialogo interreligioso, soprattutto in relazione ai tre grandi monoteismi. Tale tematica sarà oggetto di una delle giornate dei lavori assembleari e di uno dei gruppi di studio. Ma, anche al di là di questi specifici momenti, l’attenzione all’orizzonte interreligioso sarà garantita come sempre dalla presenza di alcuni amici d’area non cristiana che fanno ormai parte della “famiglia” del SAE”.

 

Di quale immagine si servirebbe oggi per delineare la situazione, da questo punto di vista?

“Qualche tempo fa, quando innanzi alle difficoltà insorte sulle vie del dialogo ecumenico si cominciava a parlare di inverno o di gelata ecumenica, io talvolta rovesciavo l’immagine, e dicevo che stavamo vivendo le conseguenze del disgelo ecumenico. La vera stagione invernale, la vera gelata, era quella che avevamo alle spalle, quando ogni relazione era impedita dal ghiaccio che bloccava l’intero territorio. Il disgelo sopravvenuto con l’inizio dei rapporti ecumenici ha riaperto le vie di comunicazione e di incontro, ma ha anche messo a nudo le asperità e i dislivelli del terreno che prima erano coperti dal ghiaccio. E ora questi dislivelli e queste asperità sono di inciampo e rendono gli approcci più difficoltosi di quanto in un primo momento si potesse pensare. Ma è proprio qui che ora l’ecumenismo è messo alla prova, nella capacità di affrontare questi inciampi con realismo ma senza disperazione, con lucidità critica ma senza rinunciare alla visione profetica e alla forza della speranza. Con la costanza dei piccoli passi e dei parziali avanzamenti, sapendo che ogni anche piccolo ostacolo sormontato riapre ed allarga l’orizzonte.

Credo che qualcosa di simile, pur in contesto differente, si possa riferire alle relazioni interreligiose. Anche in questo caso stiamo vivendo un tempo di avvicinamenti, di contatti, di nuove possibilità di conoscenza e di confronto. Ma anche in questo caso, nella misura in cui il rapporto con l’altro passa dall’immagine ideale alla concretezza della realtà, ci si accorge che non è sempre facile – anzi talvolta è assai difficile – comprendersi, riconoscersi, accogliersi così come si è. E, come sempre in questi casi, all’impulso iniziale di apertura può seguire la tentazione di retrocedere e di rinchiudersi nei propri confini (la tentazione di una “identità” intesa in modo statico e rigido). Anche a questo proposito, dunque, stiamo percorrendo un crinale delicato, che richiede limpidezza di cuore e saldezza di mente. E soprattutto la forza della speranza”.

 

Parafrasando il titolo della sessione 2010, la speranza può farsi realtà?

“Io direi che la speranza è già realtà. La speranza infatti non è inerte aspettazione, ma tensione attiva. Chi spera non si affida all’incerta probabilità di eventi esterni, ma si mette in via verso una meta: la grande figura biblica della speranza è Abramo. Che parte “senza sapere dove andava” (Eb 11,8), ma per ciò stesso, come scrive Gregorio di Nissa, sapeva di essere sulla strada buona, perché si affidava non ai propri calcoli, ma alla parola e alla promessa del Signore. Chi spera è già in cammino verso la realtà sperata, già ne tocca un lembo. E in questo senso la speranza illumina già il presente, ne trasfigura l’aspetto e il senso. Come ci insegna l’apostolo Paolo, si spera ciò che ancora non si vede (quanto è vero, nell’esperienza ecumenica!), ma “nella speranza noi siamo stati salvati”, e perciò “attendiamo con perseveranza”. In questa tensione, non priva di fatica ma anche fonte di intima gioia, vive chi ha accolto la vocazione ecumenica”.

 

La sensibilità ecumenica va risvegliata fin dalla tenera età. E’ per questo che sono stati pensati i corsi per bambini ed adolescenti previsti nel corso della sessione?

“La decisione di proporre un’attività di gruppo a bambini e ragazzi mira in effetti a un duplice scopo: da una parte, offrire ai genitori la possibilità di seguire liberamente i lavori della sessione, e quindi favorire la partecipazione delle famiglie; dall’altra, coinvolgere i bambini e i ragazzi in un’esperienza formativa, calibrata sulle loro capacità e sensibilità. Un’esperienza che non esclude il gioco e il divertimento, ma che comporta anche momenti di riflessione, in sintonia con quanto stanno facendo gli adulti, e momenti di partecipazione all’attività comune (ad esempio, alle liturgie o a certe espressioni simboliche); e che soprattutto induce alla reciproca conoscenza e alla collaborazione. Quando poi l’incontro avviene tra persone di diversa tradizione culturale e religiosa, è evidente che si ha una vera e propria, seppur embrionale, esperienza ecumenica o interreligiosa. Che si può tradurre – come è avvenuto – in durevoli amicizie”.

 

In questo contesto quale ruolo possono giocare religiose e religiosi per favorire il cammino ecumenico ed una maggiore sensibilità da parte della comunità di credenti nei riguardi di questo tema?

“Il contributo che religiose e religiosi possono recare e hanno di fatto recato all’esperienza ecumenica generale, e al cammino particolare del SAE, è di valore inestimabile. Non dimentichiamo che l’ecumenismo procede su diverse strade, dalla ricerca e dal dialogo teologico all’impegno etico, ma attinge innanzi tutto e soprattutto a sorgenti spirituali. L’intuizione e l’appassionata testimonianza di Paul Couturier si rivelano sempre più vere ed attuali: come dice il Concilio proprio sulla scia di Couturier, “anima di tutto il movimento ecumenico” è l’ecumenismo spirituale. Da non scambiare, beninteso, con un vaporoso ed evasivo spiritualismo in cui compensare le frustrazioni subite in altri campi, ma da intendere nel suo vero valore, come fonte di un rinnovamento e di una conversione radicale del cuore e della mente, che investa non solo la vita personale, ma anche quella comunitaria ed ecclesiale, a tutti i suoi livelli e in tutte le sue espressioni.

Ora, è vero che questa dimensione spirituale dell’ecumenismo compete a tutti i credenti, ma è indubbio che religiose e religiosi possono viverla nell’intensità e nella fecondità del proprio specifico carisma. Il “monastero invisibile” di cui parlava Paul Couturier comprende laiche e laici, ma una parte significativa vi hanno coloro che hanno scelto una vita di consacrazione religiosa. E, come lo stesso Couturier era in stretto rapporto con comunità monastiche che avevano accolto il suo appello alla preghiera per l’unità, non solo cattoliche ma anche di altre chiese (il primo “monastero reale dell’Unità cristiana”, per sua espressa dichiarazione, è stato quello delle monache riformate svizzere di Grandchamp), così anche oggi vi è una rete di comunità religiose, di diverse confessioni, la cui preghiera sale consonante al Padre, là dove “non giungono i muri della separazione”, perché si realizzi l’invocazione di Gesù: “Che siano una cosa sola”. Qui è il polso vitale dell’ecumenismo, qui la sua inesausta sorgente di rigenerazione, qui la garanzia del suo presente e del suo futuro.

Insieme alla preghiera, è tutta la spiritualità monastica e religiosa che irrora e feconda l’esperienza ecumenica; e al SAE ne abbiamo la percezione diretta, per il sostegno e l’ispirazione che ci infondono la presenza, l’amicizia e la comunione di monache e monaci, religiose e religiosi che condividono con noi la passione e la speranza dell’Unità”.

 

La dimensione etica occupa uno spazio sempre più rilevante in momenti non facili come gli attuali. Come affronta il Sae questa imprescindibile esigenza?

“È indubbio che la dimensione etica risulta oggi di impellente attualità, su tutti i piani: civile, politico, religioso. Ma essa ha sempre avuto forte rilievo nel movimento ecumenico, fin dalle sue origini: una delle sue componenti fondamentali è stato infatti il movimento di “Vita e Azione” (Life and Work), che ha perseguito appunto l’ideale dell’unità cristiana sulla via dell’impegno etico, rivolto ai grandi temi della pace, della giustizia, dei diritti dei popoli; e su questa via il Consiglio Ecumenico delle Chiese e gli altri maggiori organismi ecumenici hanno proseguito fino ad oggi: si pensi, per fare solo qualche esempio, alle assemblee ecumeniche europee di Basilea e Graz, e ora alla convocazione ecumenica internazionale di Kingston sulla pace, in programma per il maggio del prossimo anno.

Anche il SAE, nella sua modesta misura, ha sempre avuto viva attenzione per i temi etici, a cui sono state interamente dedicate alcune sessioni e che hanno comunque sempre avuto uno spazio rilevante anche in quelle non specificamente tematizzate in tal senso. Espressamente dedicata all’etica sarà molto probabilmente la sessione del 2011.

Si tratta di una tematica complessa, delicata e non priva di punti di frizione, anche sul piano ecumenico. Mentre, infatti, su alcuni aspetti (quelli, appunto, prima accennati: la pace, la giustizia, la salvaguardia del creato) vi è pieno consenso e fattiva collaborazione tra le chiese, su altri (la sessualità, le questioni bioetiche), si delineano e talora si scontrano diverse sensibilità e diversi orientamenti dottrinali; non tanto, in certi casi, per quanto riguarda i valori fondamentali, quanto per ciò che concerne la loro traduzione sul piano storico e nell’ambito pubblico. Ma proprio per questo è importante avviare un serio e sereno confronto dialogico”.

 

A suo avviso si può parlare ancora di resistenze nelle Chiese in materia ecumenica? E come affrontarle?

Resistenze all’ecumenismo si registrano certamente ancor oggi nelle chiese, anzi per certi aspetti con particolare acutezza proprio oggi. Talora si tratta di espliciti atteggiamenti di sospetto o di contrarietà, più spesso di resistenze interne che svigoriscono certe, anche sincere, dichiarazioni esterne. E questo, sia pure con modalità differenti, in tutte le chiese. Si avverte, cioè, il rischio che ogni chiesa, in nome della verità e della fedeltà alla propria tradizione, si proponga alle altre con una tale predefinizione dei propri confini e delle proprie disponibilità e indisponibilità, da ridurre il dialogo a statico confronto tra posizioni invalicabili, anziché aprirlo alla possibile scoperta di più alti e profondi orizzonti, di nuove e inesplorate vie. In tal caso, la sperata koinonìa, la sperata unità nella diversità riconciliata decadrebbe a una pacifica convivenza – magari anche una volonterosa collaborazione – tra diversità affiancate ma autosufficienti, reciprocamente rispettose ma non comunicanti: l’ut omnes unum sint, allora, se è lecito dir così, si trasformerebbe in un ut multa simul sint. Un’altra, più sottile per lo più inconsapevole, forma di resistenza, o per lo meno di impoverimento dell’autentico spirito ecumenico, si manifesta in una sorta di “normalizzazione” dell’ecumenismo, ridotto ad una tra le tante rubriche dell’agenda pastorale e del calendario liturgico”.

 

Quali i punti fermi in questo cammino ecumenico lungo cento anni?

“Qui il discorso potrebbe farsi lungo e analitico. Cercherò di condensarlo in note sintetiche.

a) L’unità è dono del Padre, promesso e invocato da Cristo, atteso e supplicato nello Spirito. L’ecumenismo è innanzi tutto docilità alla parola e allo Spirito del Signore, stupore innanzi alle “grandi cose” da lui suscitate (i “mirabilia Dei” di cui parla l’enciclica Ut unum sint). Al termine della Conferenza Missionaria Mondiale di Edimburgo, nel giugno 1910, Charles Brent, il vescovo episcopaliano che si apprestava a dare inizio al movimento di “Fede e Costituzione”, dichirava: «Durante i giorni scorsi una nuova visione ci ha avvolti; ma quando Dio ci dà una visione, ci indica anche una nuova responsabilità, e voi e io, lasciando questa assemblea, ce ne andiamo con un nuovo dovere da compiere». Ecco, l’ecumenismo è adempimento di un impegno responsabile che nasce però da una “visione” aperta ai nostri occhi dalla grazia del Signore; è risposta a una sua chiamata.

b) Questa visione e questa chiamata si traducono immediatamente in un riconoscimento del nostro comune peccato e in una disponibilità alla conversione. Anche a questo proposito si può ricordare quanto, alla conclusione della Conferenza di Edimburgo, diceva il presidente John Mott: “Siamo stati umiliati con forza crescente dalla scoperta che il maggior ostacolo alla diffusione del cristianesimo ha il suo luogo dentro di noi […]. Ciò significa che dobbiamo impegnarci non soltanto a rivedere i nostri progetti a favore del regno di Dio, quanto e soprattutto a rivedere con fedeltà più grande ancora i progetti riguardanti la conversione della nostra vita personale”.

Ma la conversione non può limitarsi alla sfera personale, deve estendersi alla dimensione comunitaria, ecclesiale. Chiara è in questo senso la parola del Concilio: “Anche delle colpe contro l’unità vale la testimonianza di S. Giovanni: «Se diciamo di non aver peccato, facciamo di Dio un bugiardo, e la sua parola non è in noi». Perciò con umile preghiera chiediamo perdono a Dio e ai fratelli, come pure noi rimettiamo ai nostri debitori” (UR 7).

c) La coscienza del nostro peccato non si chiude in sterile e amaro ripiegamento su noi stessi, ma si scioglie al gioioso riconoscimento della misericordia di Dio, che ci riapre le vie della riconciliazione e dell’unità. Le colpe umane hanno scavato solchi profondi di divisione, ma non hanno potuto distruggere la comunione di grazia in cui tutti i cristiani sono radicati, dono di Dio in Cristo, garantita dalla fedeltà del Padre più forte delle infedeltà umane. È da questa permanente comunione di fondo che può partire con speranza per ogni avanzamento sulla via di una piena riconciliazione. Ciò che ci unisce, in questo senso, è veramente più importante e più forte di ciò che ci divide.

d) L’ecumenismo ha comportato una sorta di rivoluzione copernicana nella coscienza e nella vita delle chiese, in quanto esse hanno compreso di dover distogliere lo sguardo da sé stesse, di dover cessare dal porsi al centro del proprio orizzonte, per volgersi – convertirsi – al sole che tutte le illumina e vivifica e al quale ciascuna è chiamata a tendere e conformarsi, senza che alcuna possa pretendere di assorbirne esclusivamente in sé la luce e la forza: Gesù Cristo, Parola del Padre, Via di Verità.

In questa conversione esse hanno riscoperto – e l’ecumenismo continua a ricordarci – che ogni chiesa e ogni cristiano sono chiamati a rendere autentica e fedele testimonianza di quella Parola, e che tuttavia nessuna espressione umana, per quanto fedelmente la annunci e la comunichi, può esaurirla in sé e appropriarsene, ma tutte hanno bisogno di ascoltarne l’eco anche in altre voci; che nessun itinerario storico, per quanto fedelmente proceda su quella Via, può pretendere di averla compiutamente percorsa e di escludere ogni altro cammino. L’ecumenismo ci apre all’esperienza umile e gioiosa della trascendenza della parola di Dio, che fonda e autentica ogni parola umana, ma rimanendo sempre “in infinito eccesso” rispetto a questa, come la fonte di cui parla S. Efrem Siro, che sazia la sete di tutti, ma da nessuno è prosciugata. L’ecumenismo ci induce a ricercare la verità con tanto amore da spingerci sempre oltre i confini raggiunti e accogliere con gratitudine ogni riflesso che di essa ci possa venire da altri cercatori. “Il dialogo ecumenico”, scrive Giovanni Paolo II on un già citato passaggio dell’Ut unum sint, “che stimola le parti in esso coinvolte a interrogarsi, capirsi, spiegarsi reciprocamente, permette inattese scoperte. Le polemiche e le controversie intolleranti hanno trasformato in affermazioni incompatibili ciò che era di fatto il risultato di due sguardi tesi a scrutare la stessa realtà, ma da due diverse angolazioni. Bisogna oggi trovare la formula che, cogliendo la realtà nella sua interezza, permetta di trascendere letture parziali e di eliminare false interpretazioni[…]. Anche in questo contesto, tutto ciò che lo Spirito opera negli «altri» può contribuire all’edificazione di ogni comunità e in un certo modo a istruirla sul mistero di Cristo. L’ecumenismo autentico è una grazia di verità”

e) L’ecumenismo chiede dunque alle chiese di vivere e testimoniare fedelmente la propria tradizione, la propria spiritualità, il proprio patrimonio dottrinale, in quanto doni dello Spirito ad esse affidate per il bene di tutti; ma in una fedeltà vera, non statica ma dinamica, non gelosa ma tesa alla relazione e allo scambio, radicata nella memoria ma non fossilizzata in una ripetizione inerte e in un timoroso ripiegamento sul passato; viva nella libertà e nella crescita, e dunque nella capacità di revisione critica e di rinnovamento, di purificazione e di ascolto, di fidente apertura all’inedito e alla sorpresa dello Spirito. La conversione ecumenica è un tendere verso il centro, uno scavare nel profondo e nell’essenziale della propria coscienza di fede e della propria tradizione storica, spogliandosi di ciò che opacizza, contamina o appesantisce il nucleo autentico, la radice vitale del proprio patrimonio spirituale. “L’ecumenismo”, si legge in un documento non recentissimo ma ancora attuale della chiesa italiana (La formazione ecumenica nella Chiesa particolare), “non è un’esporre la propria fede al rischio della sua attenuazione o addirittura della sua perdita. Esso, anzi, è stimolo a una crescita nella verità, a un «credere di più» e a un «essere di più», attingendo largamente a tutte le fonti che Dio ha scavato e aperto per noi”.

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