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C’è forse qualcosa di più
importante che interrogarsi sull’aldilà? È l’interrogativo di sempre che
sottende all’ultima fatica letteraria di monsignor Vittorio Peri, già
preside dell’Istituto Teologico di Assisi e consulente ecclesiastico
nazionale del Centro Sportivo Italiano ed attualmente presidente
dell’Unione Apostolica del Clero e vicario episcopale per la cultura
della diocesi di Assisi-Gualdo Tadino-Nocera Umbra. “Alla fine,
l’amore….”, questo il titolo del libro di monsignor Peri edito dalla Tau
Editrice, in appena sessanta pagine offre una riflessione tutt’altro che
banale sull’eterna domanda dell’uomo sul mistero della vita e della
morte. Argomento, oggi, più che mai attuale in tempi di crisi di valori
nel quale monsignor Peri ci guida con mano sicura e rara sensibilità. E
proprio a lui abbiamo rivolto alcune domande prendendo spunto dalle
pagine della sua ultima opera.
Come nasce questo libro sull’aldilà?
“Nasce soprattutto
dal fatto di aver più volte ascoltato anche recentemente, durante le
celebrazioni esequiali, non mirate riflessioni sul senso cristiano della
vita, a partire dalle letture bibliche, ma banali panegirici
infiorettati con le solite bugie di circostanza. Non vere omelie,
insomma, ma sterili commemorazioni piene di ‘luoghi comuni’.
Da qui l’idea di
scrivere alcune essenziali pagine sull’aldilà”.
In base
alla sua personale esperienza, parlare di cose ultime e di speranza
cristiana ha senso al giorno d’oggi?
“La
riflessione sulle “cose ultime” non solo ha senso, ma rivela il senso,
il valore cioè e la direzione dell’esistenza umana. Per questo, non può
mai considerarsi superata o fuori del tempo. Oggi anzi, nel marasma
culturale e morale, oltre che socio-politico, in cui ci troviamo,
parlare dei “nuovi cieli” e della “nuova terra” prospettati dalla nostra
fede significa seminare speranza.
Per esperienza
diretta e indiretta so che nessuno resta indifferente di fronte a serie
proposte di indagare il comune destino finale. E anzi, quando il
mistero dell’aldilà è presentato alla luce della risurrezione di Cristo,
ho sempre veduto volti attenti e sereni, e non di rado commossi”.
Come si
deve affrontare questo argomento in un dialogo aperto e schietto con
grandi e piccini?
“Non ho particolari
titoli per dare “ricette” pronte ad ogni uso o indicazioni apodittiche.
Credo tuttavia che
lo schermo di una possibile indifferenza o di arroccamento psicologico
di fronte a una riflessione di per sé impegnativa e inusitata possa
essere “bucato” soprattutto con domande chiare e dirette sul significato
della vita, interrogativi capaci di toccare il cuore e stimolare il
dialogo.
Più che parlare, è
necessario far parlare chi ascolta e porre domande,, anziché passare
subito alle risposte. “Le risposte – diceva Oscar Wilde - sono capaci di
darle tutti. Per le vere domande ci vuole un genio”. Domande sul nostro
arché (inizio) e sul nostro telos (fine), come scriveva un
antico scrittore cristiano.
Direi che il segreto
è di porre problemi, far sorgere interrogativi. Questa è la metodologia
che vorrei suggerire soprattutto nell’affrontare riflessioni di natura
teologica. Il naufragio morale e spirituale di molti deriva anche dal
non chiedersi chi si è, dove si sta e soprattutto dove si sta andando”.
Nella premessa al suo libro scrive che “è
necessario parlare di escatologia”. Perché?
“Perché è quasi
scomparso dal nostro tempo l’orizzonte escatologico: l’idea cioè che la
storia umana abbia una direzione, una pienezza che va al di là di se
stessa, la consapevolezza che il senso del mondo sia fuori del mondo.
E’ questo, credo, l’aspetto su cui oggi maggiormente ci sono confusione,
oscurità, dubbi, reticenze e perfino rimozione.
L’eclisse di questo
orizzonte sembra offuscare perfino il mondo ecclesiale ove a fatica,
come dicevo all’inizio, si sente parlare delle “cose ultime”, della vita
eterna. Ma senza questa prospettiva, avrebbe senso la vita cristiana?
E’ dunque necessario
e urgente parlarne, anche se i nostri contemporanei appaiono interessati
solo ai problemi della vita quotidiana e indifferenti alle prospettive
della fede. “Verrà però un giorno – diceva il santo Curato d’Ars – in
cui gli uomini saranno così stanchi di se stessi che basterà parlare
loro di Dio, per farli piangere di gioia”.
Parlarne “opportune
et importune” come scriveva l’apostolo Paolo. Chi infatti dà quello
che gli si chiede, fa il commerciante. L’educatore dà invece ciò che è
vero e giusto. E, se è cristiano, lo fa alla luce del Cristo risorto”.
I
religiosi e le religiose sono preparati a trattare questo tema? E le
diocesi in particolare hanno messo a punto progetti e proposte concrete
su questo argomento?
“Alla prima domanda,
non conoscendo alcuna indagine sull’argomento, non saprei dare una
risposta sicura. Stante però il clima culturale appena rilevato, ho
fondati dubbi su un’adeguata preparazione teologica di molti membri
degli istituti di vita consacrata nel trattare questi problemi.
Ci sono certamente
bei documenti – discorsi, lettere pastorali ecc. - di vescovi italiani
che hanno sviluppato i brevi essenziali passi di natura escatologica
contenuti ne Catechismo della Chiesa Cattolica. E ci sono seri
studi di ottimi teologi – come Escatologia, morte e vita eterna
di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI o La vita trasformata, saggio di
escatologia di Erio Castellucci - nei quali i vari aspetti della
vita futura sono presentati in modo scientifico.
Non ho invece
notizia di indicazioni o piano pastorali diocesani su questi
argomenti. Sono però convinto che una corretta e sistematica loro
presentazione a tutto il popolo di Dio costituirebbe una straordinaria
strada per conoscere la “bella notizia” portata da Gesù”.
Il suo
testo quali scopi si prefigge?
“Il piccolo libro
non ha altro scopo che di contribuire, partendo da un preciso nucleo
di temi teologici, al primario impegno della evangelizzazione. Ce ne è
forse uno più importante di questo, per la Chiesa? Da duemila anni la
parola di Gesù interpella e scuote la coscienza umana. Ho idealmente
estrapolato un versetto del Vangelo - “Quale vantaggio ha un uomo che
guadagna il mondo intero, se perde o rovina se stesso?” - e intessuto
attorno ad essa interrogativi, riflessioni, risposte.
La risposta
riassuntiva che ogni lettore potrà trovare è data dalla fede: dopo la
morte non ci sarà una voragine che inghiotte la persona umana, ma la
gloria di Dio; non il nulla, ma la vita; non il buio, ma la luce. Per
chi crede, e vive la fede, il destino finale non è un naufragio nel
gorgo del nulla, ma un approdo nel porto di Dio.
In breve, sull’altro
versante della vita – perché la vita è una sola, seppure vissuta in due
diversi tempi – troveremo non qualcosa ma Qualcuno, a braccia aperte. E
se non sappiamo tutto su cosa il futuro tiene in serbo per noi,
conosciamo però chi è colui che tiene in serbo il nostro futuro. E
questo basta per sostenere la nostra speranza”.
A chi è
destinato, in particolare, il piccolo libro?
“Nessun destinatario, in particolare, perché è stato
scritto per tutti: credenti e non credenti; adulti e ragazzi, dotti e di
cultura elementare. Ho cercato infatti di scrivere in modo chiaro e
semplice, utilizzando anche belle immagini e molte – fors’anche troppe!
– citazioni di brillanti autori tratte anche dalla letteratura
cosiddetta profana”.
Perché
è fondamentale pregare per chi ha lasciato la condizione terrena?
“Nelle poche pagine
dedicate al purgatorio, che non è certo un luogo dove si va, ma una
situazione certo dolorosa di attesa di incontrare Dio “faccia a faccia,
riporto questo breve testo dell’enciclica Spe salvi Benedetto
XVI: “Nessuno vive da solo. Nessuno pecca da solo. Nessuno viene salvato
da solo. Continuamente entra nella mia vita quella degli altri: in ciò
che penso, dico, faccio, opero. E viceversa, la mia vita entra in quella
degli altri: nel male come bel bene. Così la mia intercessione per
l’altro non è affatto una cosa a lui estranea, neppure dopo la morte”
(n. 48).
C’è dunque
continuità tra questa vita terrena e quella futura. “Non si perdono mai
coloro che amiamo, perché possiamo sempre amarli in Colui che non si può
perdere”, scriveva s. Agostino. C’è solidarietà tra noi vivi e i
defunti: il loro ricordo ci edifica; la nostra preghiera li eleva. Ecco
perché la Chiesa, da sempre, invita a pregare per i defunti”.
Per
l’uomo di oggi abituato alla concretezza non è facile capire il nesso e
la continuità tra vita terrena e quella futura. Come fare?
“La difficoltà è
forse minore di quanto si creda, poiché sappiamo che anche su questa
terra sperimentiamo la continuità dell’io, nella discontinuità delle
cellule che compongono il nostro corpo. Siamo sempre noi stessi; eppure,
materialmente, ogni sette anni totalmente diversi per il naturale
rinnovo del nostro corpo, che non è il tutto di noi, ma nemmeno
qualcos’altro da noi.
Sul piano della
fede, la risurrezione di Gesù rivela che gli esseri umani saranno
reintegrati nello stato in cui si trovavano prima della morte, in un
rapporto di continuità personale e discontinuità materiale le cui
modalità ci sfuggono. La risurrezione inaugurerà un’esistenza nuova e
definitiva nella quale entrerà non solo l’anima, ma l’intero essere
umano: spirito, anima e corpo, come insegna l’antropologia biblica.
La discontinuità
sta nel fatto che tra il presente e il futuro c’è alterità:
il presente scompare quando arriva il futuro, allo stesso modo che la
notte si dilegua all’arrivo della luce. La continuità, invece,
sta nel fatto che il presente è anticipazione del futuro e che la vita
storica si tramuta in vita eterna. Non in un’altra vita,
ma in una vita che diverrà altra, totalmente diversa; non
contrapposta, ma in continuità con questa.
In breve: saremo noi
stessi, anche se non più gli stessi. Noi stessi e nel contempo diversi,
perché ricreati da Dio che la Bibbia ci rivela come “amante della vita”.
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