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Internet e new media
sempre più agorà del messaggio evangelico.
Internet e new
media, infatti, stanno diventando un elemento costitutivo della società
di oggi con i quali non possiamo non fare i conti. La Chiesa, da sempre
“esperta di umanità”, non è indifferente a questi mutamenti, consapevole
com’è dei rischi legati all’uso dei media tradizionali come delle enormi
potenzialità positive dei new media e di internet.
Abbiamo rivolto
alcune domande sul tema al professor Michele Sorice, docente
di Comunicazione Politica e di Sociologia della comunicazione alla
Facoltà di Scienze Politiche della LUISS “Guido Carli”, dove dirige il
Centre for Media and Communication Studies “Massimo Baldini”
e membro dell’Advisory Board del Media and Politics Group
della Political Studies Association of the UK. Inoltre è
coordinatore, insieme al professor Philip Schlesinger, un network
europeo di ricerca sul servizio pubblico e dirige il centro di ricerca
internazionale Political Communication Lab.
Insegna in
qualità di professore invitato Comunicazione Politica e
Scienza Politica alla Pontificia Università Gregoriana di Roma.
Quali
possono essere i nuovi modi per adeguare la diffusione dei principi
cattolici ai nuovi mezzi di comunicazione?
“La Chiesa ha una
lunga e importante tradizione di comunicazione. Il messaggio evangelico
è un grande annuncio, in effetti, e gli stessi media sono stati usati
fin dal loro apparire dalle realtà ecclesiali. Non è un caso che la
Radio Vaticana appaia già nel 1930 e finanche i primi esperimenti di
radiofonia si debbano all’impegno di un prete di Porto Alegre (Brasile),
p. Roberto Landell de Moura, che sperimentava le potenzialità delle onde
elettromagnetiche e che riuscì a trasmettere ben più che semplici
segnali elettrici persino prima di Marconi. Insomma i mezzi di
comunicazione rappresentano da sempre uno dei territori privilegiati di
impegno della Chiesa. Anche i documenti del Magistero riconoscono ai
media un ruolo di straordinaria importanza sociale; dall’Inter
Mirifica alla lettera pastorale del Card. Martini, “Il lembo del
mantello”, fino ai tanti interventi di Giovanni Paolo II e di Benedetto
XVI nei messaggi per le diverse giornate delle comunicazioni sociali.
Proprio papa
Benedetto ci ha indicato il modo per usare in maniera corretta i media:
la trasparenza della fonte emittente e la sua credibilità innanzitutto;
e poi un atteggiamento di apertura e inclusione che, ovviamente, rifiuta
qualunque paura. Ecco, uno dei problemi che talvolta abbiamo è che si
percepiscano i media come un pericolo; nel passato si aveva paura della
televisione (e prima ancora del cinema e della radio) ora si teme
internet e in particolare i social network. Questo atteggiamento sarebbe
profondamente sbagliato, oltre che inefficace. I media – e anche i nuovi
media – sono abitati da persone, con il loro carico di difetti e
potenzialità e, volendo, con i loro peccati e la loro santità.
In altre parole, il
primo modo per adeguare la diffusione dei principi cattolici ai media è
la presenza: una presenza attenta, critica, consapevole ma liberata da
paure e rifiuti preconcetti; il secondo è lo stile dell’apertura: non
media e contenuti solo per cattolici ma presenza qualificata dei
cattolici; il terzo modo è il riconoscimento del potere dei media ma
anche delle loro potenzialità, che significa, fra l’altro, impegnarsi ad
acquisire competenze sui linguaggi e sui metodi della comunicazione; il
quarto può essere rintracciato nello stile del dialogo. Quest’ultimo
aspetto è molto importante perché dovrebbe rappresentare la cifra
distintiva della comunicazione dei credenti (ma non solo ovviamente):
dialogo inteso non come mera interlocuzione ma come parola che sta in
mezzo, a cui tutti possono accedere ma di cui nessuno è proprietario.
Questa è la logica soggiacente – almeno in teoria – alle dinamiche
comunicative del cosiddetto web 2.0, della comunicazione che garantisce
accesso sociale e promuove partecipazione civile. Non è un caso che il
tema del dialogo sia stato al centro del Card. Bagnasco nel suo discorso
al convegno della CEI dell’aprile 2010, “Testimoni Digitali”, e nel
messaggio di Benedetto XVI per la XLIV giornata delle comunicazioni
sociali.
In
alcuni recenti articoli pubblicati in “La Civiltà Cattolica” padre
Antonio Spadaro usa il termine di cyberteologia come intelligenza della
fede nel tempo della rete. Cosa ne pensa? Quali possono essere i
possibili adattamenti da accogliersi negli orientamenti pastorali?
“Padre Spadaro rappresenta una delle personalità più
significative della riflessione ecclesiale sui media digitali. La sua
sensibilità a questi temi è nota: non a caso ha un profilo Facebook
seguitissimo ed è molto attivo nella rete. Insomma rappresenta un
testimone di quell’atteggiamento di apertura al mondo che un cattolico
dovrebbe avere quando usa i media. Il concetto di cyberteologia va
proprio in questa direzione di apertura e contaminazione. D’altra parte,
una teologia che non irrompe nella prassi di fede è puro esercizio
intellettuale e quindi è inutile. O al più può servire solo
l’elaborazione accademica.
L’idea di padre Spadaro, che condivido pienamente, è quella
di dare spazio all’intelligenza della fede nel tempo della rete. In un
recente post, pubblicato proprio sul suo sito – cyberteologia.it – padre
Spadaro ricorda le conclusioni a cui è giunto il convegno di Santiago
del Cile su Chiesa e comunicazione:
«decisa lotta all’esclusione digitale
delle persone, studiando nella mappa della connettività della Chiesa
dove si trovano le comunità che non hanno accesso alla cultura e allo
scambio via internet». Ecco, credo che la cyberteologia abbia una grande
potenzialità e, peraltro, si colloca perfettamente in quella cultura
della comunicazione come dialogo e apertura al mondo di cui parlavamo
prima.
Sempre
più spesso si è messi di fronte alla problematica tra cultura e
spiritualità che vede il mondo cattolico reticente ad adattarsi e
conformarsi alle nuove esigenze. A suo modo di vedere su quali linee
essenziali la Chiesa potrebbe portare avanti con successo questa sfida,
specie a partire dal territorio?
Io credo che l’opposizione fra cultura e spiritualità sia
l’esito di un retaggio antico; quello che vuole la Chiesa come opposta
al mondo, il corpo separato dallo spirito, la fede sempre e
ineluttabilmente opposta alla ragione. E’ come se l’eresia monofisita
non fosse mai morta. In realtà non c’è frattura fra cultura e
spiritualità, come non esiste quella fra dimensione storica e tensione
alla trascendenza. Il mistero dell’Incarnazione ci dice proprio questo.
Una parte del mondo cattolico vive spesso come insanabile
la relazione fra culture digitali e territorio. In realtà esse sono
strettamente connesse: ciascuno di noi è al tempo stesso abitante di uno
spazio fisico e fruitore di luoghi simbolici (ma assolutamente non
irreali) come quelli della rete. L’uno rimanda all’altro. I miei
“contatti” in un social network sono spesso parte della mia quotidianità
o potrebbero esserlo. Virtuale, d’altra parte, non significa “finto” o
“irreale” ma semplicemente ciò che non è ancora presente ma potrebbe
manifestarsi. Da questo punto di vista l’opposizione fra reale e
virtuale è concettualmente scorretta; inoltre è anche socialmente
pericolosa perché induce a pensare alla persona umana come somma di
parti separate e non a soggetti che vivono l’esperienza di abitare un
tempo (nelle mille possibilità che ci sono offerte dalle tecnologie e
dalle reti sociali). Ecco, mi sembra che su questo punto nella Chiesa ci
siano ancora paure immotivate che generano comportamenti irresponsabili,
come la chiusura al mondo; con la paura di essere contaminati dal
“virtuale” (nell’accezione erronea che dicevamo) spesso rischiamo di
rifiutare il reale, e quindi i nostri fratelli e le nostre sorelle.
Noto, con un po’ di tristezza, che spesso gli atteggiamenti
di chiusura provengono proprio da una parte del laicato, talvolta
incapace di seguire i tanti ottimi esempi che provengono da sacerdoti e
suore.
Credo che la Chiesa debba fare lo sforzo di aprirsi ancora
di più al mondo, accogliendo senza paura la sfida della comunicazione. I
presunti pericoli della rete, per esempio, sono gli stessi che abbiamo
sempre trovato nelle strade o in tante altre esperienze; cambiano i modi
ma restano i pericoli. Restano però anche le opportunità, anzi
aumentano: cyberteologia.it insieme a tante altre realtà periferiche e
centrali costituiscono esempi concreti di intervento progettuale.
In che
modo, a suo avviso, i consacrati dovrebbero vivere e accogliere questa
sfida?
Come tutti i credenti. Con l’intelligenza della fede. Per
prima cosa è necessario che acquisiscano competenze, non solo tecniche
ma anche – e soprattutto – teoriche. E’ importante che si conoscano le
regole di funzionamento, le “policies” e le culture della comunicazione.
E poi, appunto, che entrino senza paura nel mondo della nuova
comunicazione. Siamo nel mondo ma non del mondo. Spesso
dimentichiamo una delle due parti; e invece l’una senza l’altra non ha
senso.
Quale
spazio riservarle all’interno degli anni in seminario?
Questo è un problema molto serio, su cui bisognerebbe
aprire un dibattito articolato all’interno della comunità ecclesiale, un
tema su cui i Vescovi dovrebbero aiutarci, cercando insieme a tutti i
credenti delle possibili risposte.
Sicuramente nei seminari mancano percorsi di studio che
aiutino a comprendere la complessità e l’importanza della comunicazione.
Un’importanza che non è solo sociale e politica ma che riguarda
innanzitutto la formazione della personalità dei futuri religiosi e
delle future religiose. E’ un problema che riguarda anche la formazione
universitaria: spesso si inviano i giovani preti e le giovani suore a
studiare nelle università cattoliche, spingendo affinché tornino presto
alle loro diocesi d’origine. La motivazione è nobile: c’è bisogno di
persone accanto al popolo. Però il rischio è quello di spingere i
giovani ad acquisire una formazione da “praticoni”, poche nozioni,
facili da usare nella quotidianità ma una sempre più scarsa formazione
culturale, una dimensione critica sempre più leggera.
Un calo nella formazione culturale dei giovani preti (non
di tutti ovviamente) è purtroppo evidente; chi di noi insegna anche in
università pontificie osserva molto chiaramente il fenomeno.
In questa situazione, il rischio è che si abbandonino
alcune aree di studio che sono state la grande conquista del Concilio
Vaticano II: le scienze sociali, i fenomeni della comunicazione,
l’analisi della relazione fra soggetti e comunità. Non solo queste aree
di ricerca non devono essere abbandonate ma dovrebbero essere
potenziate, entrare anche nei seminari.
A quali
condizioni i cosiddetti “new media” possono integrarsi con profitto con
i mezzi tradizionali al fine di favorire una diffusione capillare dei
principi cattolici, specie tra i più giovani?
I new media sono già di fatto integrati con i media
tradizionali. I processi di convergenza sono ormai a livelli molto
avanzati e anche fenomeni come il “cross media story telling”
costituiscono parte della nostra quotidianità.
Ancora una volta il tema centrale non riguarda le
tecnologie bensì l’uso che ne facciamo. Entrare nella rete, per esempio,
significa al tempo stesso stare nei social media, aprire un blog, usare
un profilo twitter per dare informazioni o proporre brevi riflessioni ma
anche costituire “buzz” (il “chiacchiericcio” in rete, banale ma su cui
spesso si costruiscono dinamiche di opinione) sui programmi televisivi o
sui modi in cui la stampa informa. Insomma, dovremmo non pensare più ai
singoli “media” bensì ragionare in termini sistemici: c’è uno spazio
pubblico mediatizzato in cui circolano flussi ininterrotti di
informazioni e pezzi di immaginario sociale. Dobbiamo entrare in questo
flusso, non per orientarlo ma per proporre testimonianze credibili.
Evitare logiche da giudici e assumere l’atteggiamento di chi ascolta. I
principi e i valori passano attraverso la credibilità della fonte, il
rapporto fiduciario che riusciamo a stabilire con le persone, la
presenza da compagni di strada.
E’
possibile stimolare l’interesse per i principi cattolici attraverso un
tablet? E come?
Ma certo. Padre Spadaro lo fa da tempo, e non solo lui.
Possiamo usare “applicazioni” e magari proporne di nuove, possiamo usare
l’arma della curiosità per stimolare i giovani alla scoperta di un
messaggio di gioia (ecco, di gioia, non triste e mortifero come a volte
si vede in qualche parrocchia…).
Un aneddoto personale, se posso. Qualche tempo fa ero in
una chiesa; ho preso il mio iPhone e ho cominciato a usare
l’applicazione iBreviary, con cui è possibile seguire la liturgia delle
ore. Una signora anziana mi ha guardato con raccapriccio e pena: avrà
pensato “ecco il solito perditempo che usa la chiesa per mandare
messaggini o peggio”. Non poteva conoscere le applicazioni per gli
smartphone e forse dal suo punto di vista poteva anche aver ragione. Più
di recente ho preso a usare un tablet. Conosco giovani che, dopo averlo
visto, si sono divertiti a scaricare i Breviary e poi la Bibbia e così
via. Dal gioco all’interesse, fino alla preghiera.
Forse ci sarà ancora chi storcerà il naso vedendo uno di
questi giovani pregare con il tablet ma la cosa importante è che ci sono
questi giovani.
Se il “Prologo” dovesse scriverlo oggi, forse Giovanni
userebbe un testo multimediale, e lo distribuirebbe su Youtube. La
potenza di quel testo sarebbe sempre la stessa: perché non è il supporto
a fare la differenza ma la capacità di quello che viene detto di
produrre senso. I valori cristiani possono oggi usare un tablet come nel
passato si usavano le pergamene: prima di tutto, però, c’è sempre la
credibilità e la forza serena di chi testimonia.
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