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L’attuale crisi è
anche e soprattutto una crisi morale, che riguarda anche il nostro
rapporto con i beni, gli stili di vita, le persone, l’ambiente. Da
questo assunto, ormai evidente a tutti, si impernia il testo di Carmine
Tabarro “Dalla società del rischio all’economia civile” edito da
Pardes Edizioni. Tabarro, che lavora in banca, è da trent’anni attento
studioso di economia civile. Alle spalle ha, oltre ad intense esperienze
da volontario in organizzazioni cattoliche come
Oxfam International, anche progetti di commercio equo e
solidale in Perù come responsabile. Gli abbiamo rivolto alcune domande
sui temi affrontati in questa sua fatica letteraria.
Da
quale premessa nasce il suo libro?
“Premetto che
quando abbiamo lavorato al nostro testo, la Caritas in Veritate
(CIV) non era ancora uscita, inoltre in diversi articoli anche se non in
maniera sistematica avevo scritto dei temi che adesso riporto e che poi
ho ritrovato nell’enciclica di Benedetto XVI. Ho letto questo evento
come il sensus fidei nel campo della Dottrina sociale della
Chiesa fosse diffuso nella Chiesa.
Nello specifico il
libro è frutto della mia esperienza professionale come operatore di
banca e dai miei studi accademici in campo economico, filosofico e
teologico. Quindi l’analisi della crisi che il mondo, ed in particolare
l’Europa, sta vivendo risente sia dell’aspetto pratico, sia dalla
riflessione economica, filosofica e teologica. Difatti
la crisi che l’Europa e in genere il mondo
occidentale sta attraversando e che si è presentata in maniera violenta
prima sotto l’aspetto finanziario, sta minando alla base i principi, i
comportamenti e i presupposti del pensiero della democrazia liberale.
Difatti la crisi che ci ha investito dall’estate del 2007 non è una
crisi congiunturale, ma è una crisi strutturale che coinvolge alle
fondamenta l’ideologia neoliberista. La cosa
più grave della crisi finanziaria
e che essa e solo la punta di un iceberg molto più profondo che investe
la nostra capacità di darci delle regole e di costruire le condizioni
perché si possa sviluppare la “vita buona”, quindi primi di essere una
crisi finanziaria, di regole, è una crisi che coinvolge la dimensione
antropologica, filosofica e morale. E proprio l’idea di una “vita buona”
era stata, sotto molti aspetti, accantonata nei decenni passati: coloro
che si ponevano direttamente l’obiettivo di “vivere bene” o di “fare il
bene” sembravano decisamente fuori tempo e destinati a una posizione
marginale rispetto alla cultura prevalente che ha dato vita alla figura
dell’homo oeconomicus. Nel libro analizziamo la figura antropologica
dell’homo oeconomicus elaborata dalla ideologia neoliberista ed
evidenziamo le principali caratteristiche che sono:
a)
la razionalità (cioè un uomo che calcola ogni sua azione e quindi
abolisce fraternità, la gratuità, il dono);
b)
il perseguimento esclusivo dell’egoismo irrazionale (bene
totale);
uccidendo il concetto di bene comune.
Altro elemento che
analizza il libro è come l’ideologia neoliberista ci abbia fatto passare
dal rischio esogeno a quello endogeno. Nell’analisi teniamo in
considerazione il dibattito culturale degli ultimi quindici anni a
proposito della “società dell’incertezza”. Una volta, si diceva,
l’incertezza nella vita delle persone era esogena”, dovuta cioè
prevalentemente a cause naturali; nessuno poteva prevedere una malattia
o una calamità naturale. Mentre gli uomini del passato, per tutelarsi
dal rischio esogeno, inventarono le compagnie di assicurazione, nei
confronti del rischio endogeno non può esistere, per principio, alcuna
assicurazione. Nella nostra società attuale, invece, l’incertezza è
“endogena”, dovuta alle regole che abbiamo stabilito e che consentono, o
producono, un’imprevedibilità che genera ansia e paura: nessun
economista – né un imprenditore – è in grado di fare una previsione
sensata riguardante il medio periodo.
La novità della
nostra epoca è quella di aver dato vita a delle società fondate sul
rischio e la paura. La mia opera prende spunto nel titolo dall’opera del
sociologo tedesco Ulrich Beck, che io condivido profondamente in quanto
si fonda sull’idea della “endogenizzazione del rischio” delle nostre
società postmoderne. In altre parole
viene sempre superato il confine tra i rischi calcolabili e i pericoli
incalcolabili. Questi potenziali pericoli vengono prodotti
industrialmente, esternalizzati economicamente, individualizzati
giuridicamente, legittimati tecnicamente e minimizzati politicamente.
In altri termini, il sistema di regole del controllo “razionale” si
rapporta ai potenziali di autodistruzione incombenti come un freno da
bicicletta applicato a un aereo intercontinentale . Questione
fondamentale diventa quindi capire come sia possibile la gestione del
rischio nelle società altamente individualizzato o per meglio dire
fondate sull’egoismo irrazionale coniugato con l’azzardo morale.
Difatti le nostre
società postmoderne, istituzionalmente individualizzate e relativizzate,
hanno difficoltà a trovare motivi valoriali condivisi a causa delle
differenti percezioni culturali.
In altre parole il
“rischio” è il tipico prodotto dalle nostre stesse società e trova la
sua genesi nelle componenti antropologiche, culturali, filosofiche,
definite come homo oeconomicus. Quindi nella società postmoderna cambia
il concetto di rischio, che trasforma la vita umana in una perenne
condizione di precarizzazione o come dice Zygmunt Bauman sociologo e
filosofo polacco di origini ebraiche, siamo chiamati a vivere in una
società liquida, dove gli amori sono liquidi (cioè non durano), rapporti
familiari liquidi ecc. e questo precarizzazione o liquidità coinvolge
tutte le manifestazioni sociali; il concetto di fiducia-sicurezza viene
minato alle base. In altre parole questa figura antropologica,
filosofica, morale e pratica ha minato alla base il concetto di bene
comune. Ci troviamo, insomma, in una situazione di mezzo di cui non
sappiamo con certezza come andrà a finire”.
L’idea di fondo della sua opera è che occorre recuperare il legame tra
etica ed economia. Come?
“Nel testo
dimostro come al contrario, comportamenti “virtuosi”, orientati
consapevolmente al bene comune, prima considerati come ingenui o
marginali, appaiono oggi come condizioni necessarie per il funzionamento
di qualsiasi sistema umano:
L’idea che si
possano produrre le risorse e i beni (economia) o gestire
strategicamente tali beni (politica), senza volere al tempo stesso, con
le stesse azioni, compiere anche il bene (morale), si è rivelata
un’ingenua (per alcuni) o interessata (per altri) illusione. In altre
parole dopo il crollo del comunismo e poi del neoliberismo è arrivato il
momento, anche per coloro che di etica cristiana non vorrebbero sentire
parlare, di mettere in pratica un’antica massima: “fare di necessità
virtù”; ciò significa che quello che fino a ieri sembrava una virtuosa
ingenuità di pochi, oggi si presenta come una necessità per tutti. In
tal senso alle esperienze fatte dalle imprese aderenti all’economia di
comunione, al commercio equo e solidale, alla buona cooperazione
sociale, al variegato mondo delle imprese sociali ecc. dove i valori di
efficienza e di efficacia trovano una profonda comunione”.
Con quale approccio si concilia il bene comune con l’economia di
mercato?
“Il bene comune il
vantaggio della singola persona si può raggiungere solo se realizzato
insieme a tutti i membri della comunità. In altre parole l’interesse di
una persona si realizza insieme a quello degli altri, non contro come
avviene per il bene privato né a prescindere dall’interesse degli altri
come nel caso del bene pubblico. Ai suoi inizi l’economia di mercato si
caratterizzava come economia dal valore civile, in cui ai principi di
scambio di valore e redistributivo si associava il principio di
reciprocità. Fu con l’avvento dell’economia capitalistica di stampo
protestante che il principio di reciprocità venne abbandonato e con esso
cadde anche l’interesse verso il bene comune. Il modello economico che
prevalse fu, dunque, quello basato sulla filosofia utilitaristica di
Bentham, in cui il concetto stesso di uomo ha perso di valore, essendo
stato ridotto a numeri e variabili che non tengono in conto le singole
specificità dell’uomo e l’importanza che riveste il concetto di
relazione per il genere umano.
Nel nostro libro
mi interrogo sul perché, soprattutto negli ultimi trent’anni, questi
principi siano stati oggetto di critiche che hanno evidenziato i limiti
di un mercato capitalistico che escluda i beni comuni. La crisi della
“one best way” è correlata con la perdita di concetti chiave come
reciprocità e relazionalità di cui il terzo settore si sta facendo,
viceversa, promotore. Gli oggetti delle transizioni sono indissociabili
da coloro che li pongono in essere, lo scambio non può essere
impersonale e anonimo. È questa la base del progetto di economia civile
che le no profit cercano, in mezzo a mille difficoltà, di far decollare.
È dunque possibile
un modello economico diverso? Un modello che tenga conto dell’interesse
generale, che dia valore all’idea di comunità, di condivisione e cura
dei beni comuni? Questi sono gli interrogativi più interessanti del
percorso compiuto dal nostro testo e su cui la scienza economica moderna
dovrà riflettere nel prossimo futuro”.
Quale modello di sviluppo sul piano del bene comune ritiene sia
possibile oggi?
“Dobbiamo renderci
conto, a partire dalla Chiesa, che la crisi che l’Occidente sta vivendo
è prima di tutto una crisi antropologica. Prima il marxismo poi il
neoliberismo hanno generato una profonda crisi di fede e fiducia a
partire dalle micro relazioni (come amicizia, famiglia), per poi passare
ai corpi intermedi (associazioni, partiti, sindacati, chiesa ecc) fino a
nichilizzare la società stessa. Se non si comprende questo tutte le
terapie che verranno adottate saranno destinate al fallimento. Gli
uomini devono essere educati e vedere che investire nella fiducia
nell’altro, nel bene comune, nella società, nel futuro, li rende
protagonisti di sviluppo e di felicità. E questo vorrei dire anche ai
pastori che sono così ansioni dinanzi alla crescita dell’indifferenza
delle nuove e delle anziane generazioni circa la crescita
dell’indifferenza verso la fede in Cristo, invece di fare convegni su
convegni, scrivere trattati enciclopedici.
La fede allora è
una necessità umana. Possiamo dire che non ci può essere autentica vita
umana, umanizzazione, senza fede. Attenzione non sto affermando che le
persone che non hanno fede in Dio non possono essere pienamente umani.
Sto solo dicendo che senza fiducia nell’altro non si può essere
pienamente umani. Non sto facendo riferimento alla fede in Dio.
Pensiamo: come sarebbe possibile vivere senza fidarsi di qualcuno?
Una delle scoperte
delle scienze biologiche che studiano sulla vita prenatale, ci dicono
che il bambino nel seno della madre ha una tale fiducia verso la vita,
che pur in quella tremenda esperienza di separazione quando viene
espulso dalla madre (tante è vero che il bambino piange), c’è quella
forza, quella fiducia maturata nel seno della madre che lo ha nutrito
per nove mesi, a tal punto che nonostante la separazione ha la forza e
la fiducia di vivere. Se non avessimo maturato questa fiducia nel seno
di nostra madre non avremo la forza di sopravvivere alla separazione.
Gli animali quando
nascono sono completi, pensate ad un puledro, quando nasce è completo,
dopo un primo momento in cui le zampe sono deboli, poco dopo iniziano a
camminare e brevemente iniziano a correre. Noi uomini, a differenza
degli animali, quando usciamo dall’utero di nostra madre, siamo
incompiuti e per venire al mondo e crescere come persone abbiamo
bisogno di un lungo tempo per essere completi, abbiamo bisogno di nostra
madre in cui mettere fede-fiducia.
Quanti mesi per
comprendere che nostra madre non è un incidente biologico, ma è una
madre. Il bambino che si nutre al seno della madre, dopo un primo
periodo in cui vive il rapporto con la madre in un rapporto biologico,
alza gli occhi è riconosce nella madre non solo una dipendenza biologica
ma una relazione di fiducia e di amore. In quel momento le madri
iniziano a comprendere che per il loro figlio/a non sono più una
montagna di latte, ma la percepisce che la figlia/o la vive come una
madre. Le scienze psicologiche ci dicono che se questo rapporto di
fiducia, di amore tra madre e figlia/o non c’è stato o non è stato sano,
questo ha delle dolorose conseguenze sulla psiche del bambino/a e non
riescono a crescere e a vivere con un buon equilibrio psicologico per
tutta la vita. Per questo nel primo periodo della vita del bambino/a
la responsabilità della madre è molto più importante che quella del
padre. Anche i padri interverranno nella formazione e nell’equilibrio
psicologico ed educativo della figlia/o, ma il ruolo della madre nel
primo periodo è fondamentale.
Ed un bambino/a se
riesce a sviluppare un sano rapporto di fiducia e di amore cresce se
non riesce a trovare fiducia in sua madre è minacciato lo sviluppo del
bambino. Con questo non vogliamo colpevolizzare nessuno, tante volte la
storia, la condizione sociale, ecc.. Perché a differenza degli animali
gli uomini noi diventano pienamente umani mettendo fede in qualcuno.
Pensiamoci bene: quante azioni della nostra vita dipendono dal nostro
avere fede. È possibile crescere senza avere fiducia in qualcuno, a
partire dai genitori? È possibile iniziare a percorrere una storia
d’amore senza avere fede nell’altro? È significativo che, un tempo, in
una storia d’amore ci si sentiva prima fidanzati (fidanzati è una parola
che viene dal latino fides), cioè la fidanzata diceva io metto fiducia
in lui e il fidanzato dicevano io metto la fiducia in lei; si danno e
ricevono fede; poi si sanzionava la storia d’amore con il matrimonio in
cui ci scambiava un anello che chiamavamo non a caso, fede. Non so se
oggi questo termine si usa più, comunque al di la del nome si è perso il
suo contenuto sapienziale la fiducia dell’uno verso l’altra.
Lo ripeto: in
tutta la vita noi uomini dobbiamo avere fede, fare fiducia, credere a
qualcuno. Allora capiamo anche perché oggi ci si sposa sempre di meno e
si convive sempre di più. Oggi non esiste più questa fede nell’altro/a
fino in fondo: “per ora stiamo insieme, per il futuro vediamo”.
Oggi quello che
lega è il consumismo sessuale e egoistico dell’uno verso l’altro, quando
uno dei due si è stancato, oppure l’attrazione sessuale, erotica,
dell’individualismo egoistico viene meno o minacciato, la convivenza
finisce. Ma questo fenomeno cosa che cosa ci segnala: il grande dramma
della donna e dell’uomo contemporaneo è quello di vivere una grande
crisi di fede, ma attenzione prima di tutto si tratta di una profonda
crisi di fede nell’uomo, per cui tante volte mi stupisco quando sento
quelle omelie, delle catechesi in cui si denuncia la crisi della fede in
Dio; questa affermazioni a mio avviso, in buona fede, segnala che quel
pastore, quel catechista non legge i “segni dei tempi”, è chiuso nella
sua torre d’avorio e non apre neppure una finestra sul mondo.
Difatti se non la
nostra cultura ha perso la fiducia nell’uomo; se le persone hanno perso
la fede in una storia d’amore umano, come sarebbe possibile avere fede
in Dio. Nella nostra società le persone sono sempre più incapaci di
avere fede nell’altro che vediamo, che tocchiamo che vediamo gioire o
soffrire, come possiamo avere fede in Dio che non vediamo? Per questo
quando oggi sentiamo parlare di crisi di fede ed è vero, bisogna fare
una corretta analisi antropologica, sociologica e psicologica,
altrimenti la diagnosi e la cura è sbagliata.
Questa crisi di
fiducia ci rende incapaci a vivere la pienezza e la profondità delle
relazioni, da quelle più personali e intime a quelle sociali e
pubbliche; abbiamo difficoltà a fidarci, fare credito, credere a
qualcuno.
Siamo passati dal
bene comune, ad un orizzonte comune ma siamo chiusi solo nel nostro
egoismo irrazionale e al bene totale. Allora la diagnosi corretta è che
il problema vero è di carattere antropologico: abbiamo formato un uomo
che vive un profondo nichilismo nell’atto relazionale con l’altro, o in
altre parole un nichilismo verso la fiducia verso se stesso e verso
l’altro. Siamo sempre sospettosi, abbiamo difficoltà a credere
all’altro, siamo poco disposti a far fiducia all’altro, siamo incapaci a
relazionarci con l’altro in maniera non strumentale, non crediamo
nell’altro fino in fondo e potrei continuare con tanti altri esempi.
In altre parole,
non si può essere uomini senza credere, senza avere fiducia; e questa è
la vera notte dell’Occidente; perché credere, avere fiducia è il modo di
vivere relazioni non strumentali con gli altri; e non è possibile nessun
cammino di umanizzazione senza gli altri, perché vivere è sempre vivere
con e attraverso l’altro.
Proprio per questa
umanità della fede, oggi dobbiamo confessare che la crisi della fede
incomincia dalla crisi dell’atto umano del credere, che è diventato
difficile e sovente contraddetto. Abbiamo difficoltà a credere
all’altro, siamo poco disposti a fare fiducia all’altro, non osiamo
credere all’altro fino in fondo. Lo constatiamo ogni giorno: perché si
preferisce la convivenza al matrimonio? Perché è diventata così
difficile la storia perseverante nell’amore? Perché così spesso
soffriamo a causa della separazione, del venire meno dell’alleanza
nell’amore umano o dell’alleanza stretta all’interno di una vita
comunitaria? La verità è che non siamo più capaci di porre, nella nostra
vita, l’atto umano del credere. Tanto che ormai, di fronte a quella
celebrazione della fede e della promessa che è il matrimonio, il
pensiero che ci attraversa la mente è: “Fino a quando durerà?”.
La crisi di fede
nell’uomo ci segnala anche un’altra verità; non siamo più capaci di
credere nell’amore, questo è quanto ci dice anche il Vangelo di Giovanni
quando scrive alla sua comunità questa affermazione lapidaria: “Noi
crediamo all’amore” (1Gv 4,16)! Ma noi oggi non crediamo più nell'amor.
Crediamo all’amore finchè dura, finchè mi servi ecc. Siamo in preda a
questa dittatura delle emozioni che ci disumanizza tutti, perché tutti
sono influenzati dalle emozioni, dalla fragilità psicologica, a quello
che sentono. Nessuno fa più lo sforzo di ascoltare l’altro, gli altri,
tutto è diventato “liquido”, precario, un “non luogo”. In tutto questo
sono solo le emozioni che ci dominano. Questa è la situazione in qui la
nostra generazione è stata chiamata a vivere a cosa serve lamentarci
dire:” nessuno crede più in Dio?, non ci sono più cristiani?” o invece
partendo dai “segni di Dio”, domandarci perché non si crede più in Dio?
La verità è che non crediamo all’amore, non abbiamo più fiducia gli uni
negli altri, viviamo una drammatica crisi di fede nell’uomo. A chi si
lamenta della crisi della fede in Dio, mi viene da rispondere: “Ma com’è
possibile credere in Dio che non si vede, se non sappiamo credere
all’altro, al fratello che si vede (cf 1Gv 4,20)?”. Per questo è
decisivo cogliere come Gesù educava alla fede, come generava alla fede
gli uomini e le donne che incontrava lungo le strade della Palestina.
Gesù sapeva che
non ci può essere vita umana senza fede e per questo aveva come prima
preoccupazione quella d’investire nella fede, di mostrare un
atteggiamento capace di comunicare e di generare la fede.
Usando un
linguaggio meno teologico e più antropologico e sociologico (che le
scienze postmoderne stanno rivalutando), Gesù sapeva bene che i beni
relazionali non possono essere né prodotti né consumati da un solo
individuo, perché dipendono dalle modalità delle interazioni con gli
altri e possono essere goduti solo se condivisi nella reciprocità
gratuita e fraterna.
Per molti uomini
non è facile avere fiducia, credere a qualcuno – così come non è facile
accedere a una vera soggettività – a causa delle contraddizioni patite
nella vita. La vita è attraversata dal male in varie forme: malattia,
sofferenza, malessere, separazioni, morte… E quando ci si dispone a
leggere la vita passata, si trovano molte ragioni per non avere fiducia,
a credere nell’altro. Come contrastare queste forze di morte che ci
abitano? E soprattutto, ciò che più conta, come Gesù ci insegna a
contrastarle e ci educa dunque alla fede?
Gesù ci ha
mostrato innanzitutto una necessità: chi è chiamato ad evangelizzare o
far aumentare il capitale civile del bene comune (entrambi beni
intangibili, ma di grande peso nella vita quotidiana, come hanno
dimostrato i due premi Nobel in economia Amartya Sen e Daniel Kahneman
per i suoi studi sull’economia della felicità.) deve essere per prima
cosa credibile, affidabile, deve essere capace di costruire rapporti di
fiducia. Il secondo paradosso è quello che gli esperti definiscono
“della fiducia”. La parola fiducia deriva dal latino fides,
letteralmente corda, e si riferisce in particolare a quella antica corda
il liuto che, per emettere suonare bene doveva essere molto tesa.
Questo esempio fa capire come la fiducia non sia un sentimento vago, ma
qualcosa di concreto; tutte le relazioni che costruiamo, per
svilupparsi, hanno bisogno di fiducia altrimenti si cade o
nell’affettività, o nel campo avverso di relazioni liquide e non
credibili.
Questa metrica in
economia è quantificabile con una certa precisione, ma anche nelle
nostre famiglie sappiamo per esperienza che i genitori che vogliono
educare un figlio possono farlo solo se sono credibili, affidabili.
Il grande merito
della Chiesa attraverso la Dottrina sociale della Chiesa (DSC) è quello
di proporre un'economia civile, che pone al centro la persona e che sia
democratico e non in mano alla tecnocrazia anonima.
Benedetto XVI, nell’enciclica CIV al n.6 mentre analizza la crisi
finanziaria del 2007-2008, propone una strada alternativa che parte
dall'analisi antropologica ed etica di tipo personalista e comunitaria,
secondo l’ispirazione cristiana. Il Papa in particolare invita a
rafforzare tutte quelle esperienze finanziarie ed economiche fondate su
un’economia a servizio del bene comune, mediante l’implementazione della
fraternità, della gratuità, del dono, della giustizia espressioni
tipiche della cultura del bene comune.
Come dimostro nel
mio libro la ricerca storica economica recente, ha messo in evidenza
come l'economia civile nasce con la scuola economica francescana che è
cosa diversa dal capitalsmo di Max Weber. Difatti mentre la scuola
economica francescana coniuga oltre al mercato anche principi altri come
appunto la fraternità, la gratuità, il dono. Grazie alla scuola
francescana e all'umanesimo civile che l'Italia e l'Europa è stata
evangelizzata e civilizzata. Ricordo che la prima banca etica fu
inventata oltre cinquecento anni fa – dall’Ordine dei Frati Minori
Osservanti in particolare da frati come Bernardino da Feltre, Michele
Carcano da Milano, Giacomo della Marca, Marco da Montegallo, Bartolomeo
da Colle, Angelo da Chivasso attraverso i Monti di Pietà. In generale è
poco conosciuto l’intero “disegno strategico” francescano che aveva
l’obbiettivo di combattere la povertà, diffondere il bene comune,
diffondere la civitas christiana: essi erano consapevoli che non era
sufficiente elargire elemosine o la sola assistenza caritatevole,
occorreva, invece, intervenire in profondità sul tessuto economico. Nel
XV secolo uno dei problemi più gravi era l’accesso al credito: vi era
uno strutturale disequilibrio tra domanda e offerta nel mercato del
credito. Per i poveri il “credit crunch” era perenne. Chi riusciva ad
accedere al credito doveva invece sostenere interessi esorbitanti ai
fratelli ebrei, unici banchieri del tempo, ed offrire garanzie molto
cospicue: i tassi erano elevatissimi (superiori al 20% erano la
normalità), i pegni a garanzia dovevano essere almeno il doppio
dell’ammontare del prestito ottenuto, l’usura era frequentissima
diventando una vera e propria piaga sociale. In alcuni Principati o
Comuni si cercava di porre dei tetti normativi al costo del credito. Il
mercato del credito, tuttavia, era ingovernabile dalle autorità
cittadine: i tassi rimanevano strutturalmente alti e gli stessi divieti
venivano disattesi. I francescani per far crescere il bene comune ed
abbattere la povertà e il problema del credito e dell'usura , l’Ordine
dei minori francescani promuoveva, dunque, la creazione dei Mons
Pietatis, non dei semplici enti assistenziali ma delle vere e proprie
banche che avevano lo scopo di “curare la povertà”: la loro missione
consisteva nel mettere a disposizione delle persone meno abbienti
piccole somme di denaro con un basso tasso d’interesse, affinché
potessero sopravvivere e “de illo denario subvenitur a chi compra panem,
vinum, vestitum, medicinas et omnia.” Si può riassumere il programma dei
Monti nell’esortazione presente nel Vangelo di Matteo nella parabola del
giudizio universale (Mt 25,31-46), in cui Gesù ci ricorda che siamo
chiamati a vivere consapevolmente e responsabilmente la nostra esistenza
nella storia, perché amare l’amore di Dio non va disgiunto dall’amore
per il prossimo, al punto che l’amore per i fratelli è il segno
distintivo dei discepoli di Gesù. Queste istituzioni, dunque, operavano
per “subventione et aiutorio de le povere persone” come veniva
specificato nello Statuto del Monte di Perugia. Il capitalismo
protestante invece coniuga solo mercato e contratto; in altre parole
mentre la scuola economica francescana è inclusiva, il capitalismo
protestante che si è affermato nel corso dei secoli è di tipo esclusivo,
nel senso che se non hai mercato, talenti, beni da vendere sei escluso,
divieni come afferma Baumann un "esubero", un tumore sociale. La CIV,
in maniera profetica, avverte gli uomini contemporanei da una concezione
distorta dell’autonomia di una finanza apolide e avaloriale, ossia
dall'ideologia neoliberista che ignora la dimensione antropologica,
etica, e usa la finanza come arma di distruzione di massa(CIV n. 34).
La finanza come l’attività economica invece
ha come missione il perseguimento del bene comune, di cui tutti debbono
farsi carico, ma anche e soprattutto la comunità politica. La
politica alta, dovrebbe avere il compito di vigilare e di orientare la
finanza in modo che, mediante la produzione della ricchezza e la sua
equa distribuzione, sia attuato il bene comune (CIV n. 36), il bene di
tutti. Dopo il suo cattivo utilizzo, che ha danneggiato l’economia reale
e interi continenti, la finanza deve ritornare, afferma il Papa, ad
essere uno strumento funzionale alla miglior produzione della ricchezza
ed allo sviluppo. "Tutta l’economia e tutta la finanza, non solo alcuni
segmenti devono, in quanto strumenti, essere utilizzati in modo etico
così da creare le condizioni adeguate per lo sviluppo dell’uomo e dei
popoli" (CIV n. 65). Il mainstream della finanza ha il dovere di
"riscoprire il fondamento propriamente etico delle loro attività per non
abusare di quegli strumenti sofisticati che possono servire per tradire
i risparmiatori» (CIV n.65).
In breve,
l’economia e la finanza vanno vissute diversamente da quanto avviene nel
capitalismo finanziario, meramente speculativo, apolide, pericoloso per
se stesso e per lo sviluppo sostenibile di tutti. Esse vanno, cioè,
gestite eticamente. E ciò perché la stessa economia e la stessa finanza
non sono refrattarie e nemmeno neutre rispetto all’etica. In quanto
attività dall’uomo e dell’uomo sono intrinsecamente morali, ossia
portano in sé il germe dell’eticità che, data l’ambivalenza della
libertà, va cresciuto ed incarnato responsabilmente nelle molteplici
realtà economiche e finanziarie (cf CIV n. 36). Queste non sono
radicalmente e necessariamente disumane e antisociali come, purtroppo,
spesso avviene. Sulla base delle esperienze positive e di una
razionalità retta, e quindi senza nessun connotato ideologico, la DSC,
in definitiva, ritiene che sia l’economia che la finanza, possano e
debbano “essere vissuti rapporti autenticamente umani di amicizia e di
socialità, di solidarietà e di reciprocità” (ib.).La grande sfida
odierna, pertanto, è quella di far emergere, dai cupi scenari della
crisi finanziario-economica, in questo tempo di globalizzazione
caratterizzata dalla “liquidità moderna”, tutto si trasforma e diviene,
ma nulla si solidifica e diventa stabile, l’esistenza di una nuova
economia civile di mercato a servizio di uno sviluppo integrale,
sostenibile ed inclusivo. Una tale sfida, che non ha nulla di
irrazionale o di mitico, giacché l’economia e la finanza sono attività
dall’uomo, dell’uomo, per l’uomo. L’economia civile di mercato nel corso
dei secoli come ho dimostrato nel nostro libro, grazie al dono
carismatico, è riuscita a vedere a livello di riflessione teorica e
prassica come nei rapporti mercantili oppure nelle situazione più
difficili e disparate, attraverso il dono carismatico si possono dare
risposte civilizzanti ed evangelizzanti, in cui la
trasparenza,
l’onestà, la responsabilità – ossia i tradizionali principi dell’etica
imprenditoriale, posso coniugarsi anche con il dono e la gratuità (cf
CIV n. 36). Oltre a quanto detto per la scuola economica francescana,
potrei ricordare le reducciones dei gesuiti che partendo dal Paraguay
oltre ad evangelizzare tutto un continente, hanno create le prime forte
di Repubbliche in cui gli indios erano protagonisti e non animali come i
“cattolici spagnoli e portoghesi” li consideravano. Purtroppo
l’ideologia neoliberista, relativista e secolarizzata, ritiene,
sbagliando ché queste virtù, siano in antitesi con l’agire economico e
finanziario, affermazione del tutto priva di qualsiasi fondamento. Basti
leggere i report sui fallimenti delle imprese profit e non profit per
rendersene conto. Inoltre quelle imprese civili che agiscono coniugando
mercato e fraternità relazionali oltre a far maturare un capitale umano
importante attraverso la propria pienezza umana e attraverso il dono di
sé agli altri e a Dio.Ma quanto detto sin qui non è tutto. Secondo la
DSC, CIV n. 4, una nuova economia civile di mercato potrà affermarsi
compiutamente solo se l’economia e la finanza potranno potenziare la
loro strutturazione e la loro istituzionalizzazione etica vivendo
l’Agápe-Caritas e il Lógos-Verità di Cristo”.
In
questo scenario quale ruolo possono ritagliarsi i religiosi e le
religiose?
“Da quanto detto
grandissimo, basti pensare al grande sviluppo della DSC, ma esiste un
problema anche questo antropologico, prima ancora che teologico.
Quando parliamo di
evangelizzazione pensiamo subito alla pastorale missionaria,
kerygmatica, carismatica, catechetica, sacramentale ecc. Ma sin dalla
Chiesa postpasquale di Gerusalemme, questa ha evangelizzato l’economico,
il sociale, la cultura, ecc, sull’esempio di Gesù e della sua
Theantropia, Incarnazione. I religiosi i
laici sono chiamati ad annunciare questa Buona Notizia, parlando a voce
alta alla nostra società, al mondo dell’economia, della politica, della
bioetica, del creato, della scienza ecc, dando ragione della loro fede.
Forse non ci sarà dato credito in tempi brevi, ma essendo il nostro
fondamento la verità di Gesù Cristo, si affermerà inevitabilmente con il
tempo. Non dimentichiamo che la nostra generazione ha visto tre faraoni
sciogliersi come neve al sole, il nazifascismo, il comunismo e il
neoliberismo”.
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