L'attuale crisi civile,
morale, economica
 
nelle parole di Carmine Tabarro

a cura di Rita Salerno

     (24 maggio 2012)

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L’attuale crisi è anche e soprattutto una crisi morale, che riguarda anche il nostro rapporto con i beni, gli stili di vita, le persone, l’ambiente. Da questo assunto, ormai evidente a tutti, si impernia il testo di Carmine Tabarro “Dalla società del rischio all’economia civile” edito da Pardes Edizioni. Tabarro, che lavora in banca, è da trent’anni attento studioso di economia civile. Alle spalle ha, oltre ad intense esperienze da volontario in organizzazioni cattoliche come Oxfam International, anche progetti di commercio equo e solidale in Perù come responsabile.  Gli abbiamo rivolto alcune domande sui temi affrontati in questa sua fatica letteraria.

Da quale premessa nasce il suo libro?

“Premetto che quando abbiamo lavorato al nostro testo, la Caritas in Veritate (CIV) non era ancora uscita, inoltre in diversi articoli anche se non in maniera sistematica avevo scritto dei temi che adesso riporto e che poi ho ritrovato nell’enciclica di Benedetto XVI.  Ho letto questo evento come il sensus fidei nel campo della Dottrina sociale della Chiesa  fosse diffuso nella Chiesa.

Nello specifico il libro è frutto della mia esperienza professionale come operatore di banca e dai miei studi accademici in campo economico, filosofico e teologico. Quindi l’analisi della crisi che il mondo, ed in particolare l’Europa, sta vivendo risente sia dell’aspetto pratico, sia dalla riflessione economica, filosofica e teologica. Difatti la crisi che l’Europa e in genere il mondo occidentale sta attraversando e che si è presentata in maniera violenta prima sotto l’aspetto finanziario, sta minando alla base i principi, i comportamenti e i presupposti del pensiero della democrazia liberale. Difatti la crisi che ci ha investito dall’estate del 2007 non è una crisi congiunturale, ma è una crisi strutturale che coinvolge alle fondamenta l’ideologia neoliberista. La cosa più grave della crisi finanziaria e che essa e solo la punta di un iceberg molto più profondo che investe la nostra capacità di darci delle regole e di costruire le condizioni perché si possa sviluppare la “vita buona”, quindi primi di essere una crisi finanziaria, di regole, è una crisi che coinvolge la dimensione antropologica, filosofica e morale. E proprio l’idea di una “vita buona” era stata, sotto molti aspetti, accantonata nei decenni passati: coloro che si ponevano direttamente l’obiettivo di “vivere bene” o di “fare il bene” sembravano decisamente fuori tempo e destinati a una posizione marginale rispetto alla cultura prevalente  che ha dato vita alla figura dell’homo oeconomicus. Nel libro analizziamo la figura antropologica dell’homo oeconomicus elaborata dalla ideologia neoliberista ed evidenziamo le principali caratteristiche che sono:

a) la razionalità (cioè un uomo che calcola ogni sua azione e quindi abolisce fraternità, la gratuità, il dono);

b) il perseguimento esclusivo dell’egoismo irrazionale (bene totale); uccidendo il concetto di bene comune.

Altro elemento che analizza il libro è come l’ideologia neoliberista ci abbia fatto passare dal rischio esogeno a quello endogeno. Nell’analisi teniamo in considerazione il dibattito culturale degli ultimi quindici anni a proposito della “società dell’incertezza”. Una volta, si diceva, l’incertezza nella vita delle persone era esogena”, dovuta cioè prevalentemente a cause naturali; nessuno poteva prevedere una malattia o una calamità naturale. Mentre gli uomini del passato, per tutelarsi dal rischio esogeno, inventarono le compagnie di assicurazione, nei confronti del rischio endogeno non può esistere, per principio, alcuna assicurazione. Nella nostra società attuale, invece, l’incertezza è “endogena”, dovuta alle regole che abbiamo stabilito e che consentono, o producono, un’imprevedibilità che genera ansia e paura: nessun economista – né un imprenditore – è in grado di fare una previsione sensata riguardante il medio periodo.

La novità della nostra epoca è quella di aver dato vita a delle società fondate sul rischio e la paura. La mia opera prende spunto nel titolo dall’opera del sociologo tedesco Ulrich Beck, che io condivido profondamente in quanto si fonda sull’idea della “endogenizzazione del rischio” delle nostre società postmoderne. In altre parole viene sempre superato il confine tra i rischi calcolabili e i pericoli incalcolabili. Questi potenziali pericoli vengono prodotti industrialmente, esternalizzati economicamente, individualizzati giuridicamente, legittimati tecnicamente e minimizzati politicamente. In altri termini, il sistema di regole del controllo “razionale” si rapporta ai potenziali di autodistruzione incombenti come un freno da bicicletta applicato a un aereo intercontinentale . Questione fondamentale diventa quindi capire come sia possibile la gestione  del rischio nelle società altamente individualizzato o per meglio dire fondate sull’egoismo irrazionale coniugato con l’azzardo morale.

Difatti le nostre società postmoderne, istituzionalmente individualizzate e relativizzate, hanno difficoltà a trovare motivi valoriali condivisi a causa delle differenti percezioni culturali.

In altre parole il “rischio” è il tipico prodotto dalle nostre stesse società e trova la sua genesi  nelle componenti antropologiche, culturali, filosofiche, definite come homo oeconomicus. Quindi nella società postmoderna cambia il concetto di rischio, che trasforma  la vita umana in una perenne condizione di precarizzazione o come dice Zygmunt Bauman sociologo e filosofo polacco di origini ebraiche, siamo chiamati a vivere in una società liquida, dove gli amori sono liquidi (cioè non durano), rapporti familiari liquidi ecc. e questo precarizzazione o liquidità coinvolge tutte le manifestazioni sociali; il concetto di fiducia-sicurezza viene minato alle base. In altre parole questa figura antropologica, filosofica, morale e pratica ha minato alla base il concetto di bene comune. Ci troviamo, insomma, in una situazione di mezzo di cui non sappiamo con certezza come andrà a finire”.

L’idea di fondo della sua opera è che occorre recuperare il legame tra etica ed economia. Come?

“Nel testo dimostro come al contrario, comportamenti “virtuosi”, orientati consapevolmente al bene comune, prima considerati come ingenui o marginali, appaiono oggi come condizioni necessarie per il funzionamento di qualsiasi sistema umano:

L’idea che si possano produrre le risorse e i beni (economia) o gestire strategicamente tali beni (politica), senza volere al tempo stesso, con le  stesse azioni, compiere anche il bene (morale), si è rivelata un’ingenua (per  alcuni) o interessata (per altri) illusione. In altre parole dopo il crollo del comunismo e poi del neoliberismo è arrivato il momento,  anche per coloro che di etica cristiana non vorrebbero sentire parlare, di  mettere in pratica un’antica massima: “fare di necessità virtù”; ciò significa che quello che fino a ieri  sembrava una virtuosa ingenuità di pochi, oggi si presenta come una necessità per tutti. In tal senso alle esperienze fatte dalle imprese aderenti all’economia di comunione, al commercio equo e solidale, alla buona cooperazione sociale, al variegato mondo delle imprese sociali ecc. dove i valori di efficienza e di efficacia trovano una profonda comunione”. 

Con quale approccio si concilia il bene comune con l’economia di mercato?

“Il bene comune il vantaggio della singola persona si può raggiungere solo se realizzato insieme a tutti i membri della comunità. In altre parole l’interesse di una persona si realizza insieme a quello degli altri, non contro come avviene per il bene privato né a prescindere dall’interesse degli altri come nel caso del bene pubblico.  Ai suoi inizi l’economia di mercato si caratterizzava come economia dal valore civile, in cui ai principi di scambio di valore e redistributivo si associava il principio di reciprocità. Fu con l’avvento dell’economia capitalistica di stampo protestante che il principio di reciprocità venne abbandonato e con esso cadde anche l’interesse verso il bene comune. Il modello economico che prevalse fu, dunque, quello basato sulla filosofia utilitaristica di Bentham, in cui il concetto stesso di uomo ha perso di valore, essendo stato ridotto a numeri e variabili che non tengono in conto le singole specificità dell’uomo e l’importanza che riveste il concetto di relazione per il genere umano.

Nel nostro libro mi interrogo sul  perché, soprattutto negli ultimi trent’anni, questi principi siano stati oggetto di critiche che hanno evidenziato i limiti di un mercato capitalistico che escluda i beni comuni. La crisi della “one best way” è correlata con la perdita di concetti chiave come reciprocità e relazionalità di cui il terzo settore si sta facendo, viceversa, promotore. Gli oggetti delle transizioni sono indissociabili da coloro che li pongono in essere, lo scambio non può essere impersonale e anonimo. È questa la base del progetto di economia civile che le no profit cercano, in mezzo a mille difficoltà, di far decollare.

È dunque possibile un modello economico diverso? Un modello che tenga conto dell’interesse generale, che dia valore all’idea di comunità, di condivisione e cura dei beni comuni? Questi sono gli interrogativi più interessanti del percorso compiuto dal nostro testo e su cui la scienza economica moderna dovrà riflettere nel prossimo futuro”.

Quale modello di sviluppo sul piano del bene comune ritiene sia possibile oggi?

“Dobbiamo renderci conto, a partire dalla Chiesa, che la crisi che l’Occidente sta vivendo è prima di tutto una crisi antropologica. Prima il marxismo poi il neoliberismo hanno generato una profonda crisi di fede e fiducia a partire dalle micro relazioni (come amicizia, famiglia), per poi passare ai corpi intermedi (associazioni, partiti, sindacati, chiesa ecc) fino a nichilizzare la società stessa. Se non si comprende questo tutte le terapie che verranno adottate saranno destinate al fallimento. Gli uomini devono essere educati e vedere che investire nella fiducia nell’altro, nel bene comune, nella società, nel futuro, li rende protagonisti di sviluppo e di felicità. E questo vorrei dire anche ai pastori che sono così ansioni dinanzi alla crescita dell’indifferenza delle nuove e delle anziane generazioni circa la crescita dell’indifferenza verso la fede in Cristo, invece di fare convegni su convegni, scrivere trattati enciclopedici.

La fede allora è una necessità umana. Possiamo dire che non ci può essere autentica vita umana, umanizzazione, senza fede. Attenzione non sto affermando che le persone che non hanno fede in Dio non possono essere pienamente umani. Sto solo dicendo che senza fiducia nell’altro non si può essere pienamente umani. Non sto facendo riferimento alla fede in Dio. Pensiamo: come sarebbe possibile vivere senza fidarsi di qualcuno?

Una delle scoperte delle scienze biologiche che studiano sulla vita prenatale, ci dicono che il bambino nel seno della madre ha una tale fiducia verso la vita, che pur in quella tremenda esperienza di separazione quando viene espulso dalla madre (tante è vero che il bambino piange), c’è quella forza, quella fiducia maturata nel seno della madre che lo ha nutrito per nove mesi, a tal punto che nonostante la separazione ha la forza e la fiducia di vivere. Se non avessimo maturato questa fiducia nel seno di nostra madre non avremo la forza di sopravvivere alla separazione.

Gli animali quando nascono sono completi, pensate ad un puledro, quando nasce è completo, dopo un primo momento in cui le zampe sono deboli, poco dopo iniziano a camminare e brevemente iniziano a correre. Noi uomini, a differenza degli animali, quando usciamo dall’utero di nostra madre, siamo incompiuti e per venire al mondo e crescere come persone  abbiamo bisogno di un lungo tempo per essere completi, abbiamo bisogno di nostra madre in cui mettere fede-fiducia.

Quanti mesi per comprendere che nostra madre non è un incidente biologico, ma è una madre. Il bambino che si nutre al seno della madre, dopo un primo periodo in cui vive il rapporto con la madre in un rapporto biologico, alza gli occhi è riconosce nella madre non solo una dipendenza biologica ma una relazione di fiducia e di amore. In quel momento le madri iniziano a comprendere che per il loro figlio/a non sono più una montagna di latte, ma la percepisce che la figlia/o la vive come una madre. Le scienze psicologiche ci dicono che se questo rapporto di fiducia, di amore tra madre e figlia/o non c’è stato o non è stato sano, questo ha delle dolorose conseguenze sulla psiche del bambino/a e non riescono a crescere e a vivere con un buon equilibrio psicologico per tutta la vita.   Per questo nel primo periodo della vita del bambino/a la responsabilità della madre è molto più importante che quella del padre. Anche i padri interverranno nella formazione e nell’equilibrio psicologico ed educativo della figlia/o, ma il ruolo della madre nel primo periodo è fondamentale.

Ed un bambino/a se riesce a sviluppare un sano rapporto di fiducia e di amore cresce  se non riesce a trovare fiducia in sua madre è minacciato lo sviluppo del bambino. Con questo non vogliamo colpevolizzare nessuno, tante volte la storia, la condizione sociale, ecc.. Perché a differenza degli animali gli uomini noi diventano pienamente umani mettendo fede in qualcuno.  Pensiamoci bene: quante azioni della nostra vita dipendono dal nostro avere fede. È possibile crescere senza avere fiducia in qualcuno, a partire dai genitori? È possibile iniziare a percorrere una storia d’amore senza avere fede nell’altro? È significativo che, un tempo, in una storia d’amore ci si sentiva prima fidanzati (fidanzati è una parola che viene dal latino fides),  cioè la fidanzata diceva io metto fiducia in lui e il fidanzato dicevano io metto la fiducia in lei; si danno e ricevono fede; poi si sanzionava la storia d’amore con il matrimonio in cui ci scambiava un anello che chiamavamo non a caso, fede. Non so se oggi questo termine si usa più, comunque al di la del nome si è perso il suo contenuto sapienziale la fiducia dell’uno verso l’altra.

Lo ripeto: in tutta la vita noi uomini dobbiamo avere fede, fare fiducia, credere a qualcuno. Allora capiamo anche perché oggi ci si sposa sempre di meno e si convive sempre di più. Oggi non esiste più questa fede nell’altro/a fino in fondo: “per ora stiamo insieme, per il futuro vediamo”.

Oggi quello che lega è il consumismo sessuale e egoistico dell’uno verso l’altro, quando uno dei due si è stancato, oppure l’attrazione sessuale, erotica, dell’individualismo egoistico viene meno o minacciato, la convivenza finisce. Ma questo fenomeno cosa che cosa ci segnala: il grande dramma della donna e dell’uomo contemporaneo è quello di vivere una grande crisi di fede,  ma attenzione prima di tutto si tratta di una profonda crisi di fede nell’uomo, per cui tante volte mi stupisco quando sento quelle omelie, delle catechesi in cui si denuncia la crisi della fede in Dio; questa affermazioni a mio avviso, in buona fede, segnala che quel pastore, quel catechista non legge i “segni dei tempi”, è chiuso nella sua torre d’avorio e non apre neppure una finestra sul mondo.

Difatti se non la nostra cultura ha perso la fiducia nell’uomo; se le persone hanno perso la fede in una storia d’amore umano, come sarebbe possibile avere fede in Dio. Nella nostra società le persone sono sempre più incapaci di avere fede nell’altro che vediamo, che tocchiamo che vediamo gioire o soffrire, come possiamo avere fede in Dio che non vediamo? Per questo quando oggi sentiamo parlare di crisi di fede ed è vero, bisogna fare una corretta analisi antropologica, sociologica e psicologica, altrimenti la diagnosi e la cura è sbagliata.     

Questa crisi di fiducia ci rende incapaci a vivere la pienezza e la profondità delle relazioni, da quelle più personali e intime a quelle sociali e pubbliche; abbiamo difficoltà a fidarci, fare credito, credere a qualcuno.

Siamo passati dal bene comune, ad un orizzonte comune ma siamo chiusi solo nel nostro egoismo irrazionale e al bene totale. Allora la diagnosi corretta è che il problema vero è di carattere antropologico: abbiamo formato un uomo che vive un profondo nichilismo nell’atto relazionale con l’altro, o in altre parole un nichilismo verso la fiducia verso se stesso e verso l’altro. Siamo sempre sospettosi, abbiamo difficoltà a credere all’altro, siamo poco disposti a far fiducia all’altro, siamo incapaci a relazionarci con l’altro in maniera non strumentale, non crediamo nell’altro fino in fondo e potrei continuare con tanti altri esempi. 

In altre parole, non si può essere uomini senza credere, senza avere fiducia;  e questa è la vera notte dell’Occidente; perché credere, avere fiducia è il modo di vivere relazioni non strumentali con gli altri; e non è possibile nessun cammino di umanizzazione senza  gli altri, perché vivere è sempre vivere con e attraverso l’altro.

Proprio per questa umanità della fede, oggi dobbiamo confessare che la crisi della fede incomincia dalla crisi dell’atto umano del credere, che è diventato difficile e sovente contraddetto. Abbiamo difficoltà a credere all’altro, siamo poco disposti a fare fiducia all’altro, non osiamo credere all’altro fino in fondo. Lo constatiamo ogni giorno: perché si preferisce la convivenza al matrimonio? Perché è diventata così difficile la storia perseverante nell’amore? Perché così spesso soffriamo a causa della separazione, del venire meno dell’alleanza nell’amore umano o dell’alleanza stretta all’interno di una vita comunitaria? La verità è che non siamo più capaci di porre, nella nostra vita, l’atto umano del credere. Tanto che ormai, di fronte a quella celebrazione della fede e della promessa che è il matrimonio, il pensiero che ci attraversa la mente è: “Fino a quando durerà?”.

La crisi di fede nell’uomo ci segnala anche un’altra verità; non siamo più capaci di credere nell’amore, questo è quanto ci dice anche il Vangelo di Giovanni quando scrive alla sua comunità questa affermazione  lapidaria: “Noi crediamo all’amore” (1Gv 4,16)! Ma noi oggi non crediamo più nell'amor. Crediamo all’amore finchè dura, finchè  mi servi ecc. Siamo in preda a questa dittatura delle emozioni che ci disumanizza tutti, perché tutti sono influenzati dalle emozioni, dalla fragilità psicologica, a quello che sentono. Nessuno fa più lo sforzo di ascoltare l’altro, gli altri, tutto è diventato “liquido”, precario, un “non luogo”. In tutto questo sono solo le emozioni che ci dominano. Questa è la situazione in qui la nostra generazione è stata chiamata a vivere a cosa serve lamentarci dire:” nessuno crede più in Dio?, non ci sono più cristiani?” o invece partendo dai “segni di Dio”, domandarci perché non si crede più in Dio? La verità è che non crediamo all’amore, non abbiamo più fiducia gli uni negli altri, viviamo una drammatica crisi di fede nell’uomo.  A chi si lamenta della crisi della fede in Dio, mi viene da rispondere: “Ma com’è possibile credere in Dio che non si vede, se non sappiamo credere all’altro, al fratello che si vede (cf 1Gv 4,20)?”. Per questo è decisivo cogliere come Gesù educava alla fede, come generava alla fede gli uomini e le donne che incontrava lungo le strade della Palestina.

Gesù sapeva che non ci può essere vita umana senza fede e per questo aveva come prima preoccupazione quella d’investire nella fede, di mostrare un atteggiamento capace di comunicare e di generare la fede.

Usando un linguaggio meno teologico e più antropologico e sociologico (che le scienze postmoderne stanno rivalutando), Gesù sapeva bene che i beni relazionali non possono essere né prodotti né consumati da un solo individuo, perché dipendono dalle modalità delle interazioni con gli altri e possono essere goduti solo se condivisi nella reciprocità gratuita e fraterna.

Per molti uomini non è facile avere fiducia, credere a qualcuno – così come non è facile accedere a una vera soggettività –  a causa delle contraddizioni patite nella vita. La vita è attraversata dal male in varie forme: malattia, sofferenza, malessere, separazioni, morte… E quando ci si dispone a leggere la vita passata, si trovano molte ragioni per non avere fiducia, a credere nell’altro. Come contrastare queste forze di morte che ci abitano? E soprattutto, ciò che più conta, come Gesù ci insegna a contrastarle e ci educa dunque alla fede?

Gesù ci ha mostrato innanzitutto una necessità: chi è chiamato ad evangelizzare o far aumentare il capitale civile del bene comune  (entrambi beni intangibili, ma di grande peso nella vita quotidiana, come hanno dimostrato i due premi Nobel in economia Amartya Sen e Daniel Kahneman per i suoi studi sull’economia della felicità.) deve essere per prima cosa credibile, affidabile, deve essere capace di costruire rapporti di fiducia. Il secondo paradosso è quello che gli esperti definiscono “della fiducia”. La parola fiducia deriva dal latino fides, letteralmente corda, e si riferisce in particolare a quella antica corda il liuto che, per emettere suonare bene  doveva essere molto tesa. Questo esempio fa capire come la fiducia non sia un sentimento vago, ma qualcosa di concreto; tutte le relazioni che costruiamo, per svilupparsi, hanno bisogno di fiducia altrimenti si cade o nell’affettività, o nel campo avverso di relazioni liquide e non credibili.

Questa metrica in economia è quantificabile con una certa precisione, ma anche nelle nostre famiglie sappiamo per esperienza che i genitori che vogliono educare un figlio possono farlo solo se sono credibili, affidabili.

Il grande merito della Chiesa attraverso la Dottrina sociale della Chiesa (DSC) è quello di proporre un'economia civile, che pone al centro la persona e che sia democratico e non in mano alla tecnocrazia anonima. Benedetto XVI, nell’enciclica CIV al n.6 mentre analizza la crisi finanziaria del 2007-2008, propone una strada alternativa che parte dall'analisi antropologica ed etica di tipo personalista e comunitaria, secondo l’ispirazione cristiana. Il Papa in particolare invita a rafforzare tutte quelle esperienze finanziarie ed economiche fondate su un’economia a servizio del bene comune, mediante l’implementazione della fraternità, della gratuità, del dono, della giustizia espressioni tipiche della cultura del bene comune.

Come dimostro nel mio libro la ricerca storica economica recente, ha messo in evidenza come l'economia civile nasce con la scuola economica francescana che è cosa diversa dal capitalsmo di Max Weber. Difatti mentre la scuola economica francescana coniuga oltre al mercato anche principi altri come appunto la fraternità, la gratuità, il dono. Grazie alla scuola francescana e all'umanesimo civile che l'Italia e l'Europa è stata evangelizzata e civilizzata. Ricordo che la prima banca etica fu inventata oltre cinquecento anni fa – dall’Ordine dei Frati Minori Osservanti in particolare da frati come Bernardino da Feltre, Michele Carcano da Milano, Giacomo della Marca, Marco da Montegallo, Bartolomeo da Colle, Angelo da Chivasso attraverso i Monti di Pietà. In generale è poco conosciuto l’intero “disegno strategico” francescano che aveva l’obbiettivo di combattere la povertà, diffondere il bene comune, diffondere la civitas christiana: essi erano consapevoli che non era sufficiente elargire elemosine o la sola assistenza caritatevole, occorreva, invece, intervenire in profondità sul tessuto economico. Nel XV secolo uno dei problemi più gravi era l’accesso al credito: vi era uno strutturale disequilibrio tra domanda e offerta nel mercato del credito. Per i poveri il “credit crunch” era perenne. Chi riusciva ad accedere al credito doveva invece sostenere interessi esorbitanti ai fratelli ebrei, unici banchieri del tempo, ed offrire garanzie molto cospicue: i tassi erano elevatissimi (superiori al 20% erano la normalità), i pegni a garanzia dovevano essere almeno il doppio dell’ammontare del prestito ottenuto, l’usura era frequentissima diventando una vera e propria piaga sociale. In alcuni Principati o Comuni si cercava di porre dei tetti normativi al costo del credito. Il mercato del credito, tuttavia, era ingovernabile dalle autorità cittadine: i tassi rimanevano strutturalmente alti e gli stessi divieti venivano disattesi. I francescani per far crescere il bene comune ed abbattere la povertà e il problema del credito e dell'usura , l’Ordine dei minori francescani promuoveva, dunque, la creazione dei Mons Pietatis, non dei semplici enti assistenziali ma delle vere e proprie banche che avevano lo scopo di “curare la povertà”: la loro missione consisteva nel mettere a disposizione delle persone meno abbienti piccole somme di denaro con un basso tasso d’interesse, affinché potessero sopravvivere e “de illo denario subvenitur a chi compra panem, vinum, vestitum, medicinas et omnia.” Si può riassumere il programma dei Monti nell’esortazione presente nel Vangelo di Matteo nella parabola del giudizio universale (Mt 25,31-46), in cui Gesù ci ricorda che siamo chiamati a vivere consapevolmente e responsabilmente la nostra esistenza nella storia, perché amare l’amore di Dio non va disgiunto dall’amore per il prossimo, al punto che l’amore per i fratelli è il segno distintivo dei discepoli di Gesù.  Queste istituzioni, dunque, operavano per “subventione et aiutorio de le povere persone” come veniva specificato nello Statuto del Monte di Perugia. Il capitalismo protestante invece coniuga solo mercato e contratto; in altre parole mentre la scuola economica francescana è inclusiva, il capitalismo protestante che si è affermato nel corso dei secoli è di tipo esclusivo, nel senso che se non hai mercato, talenti, beni da vendere sei escluso, divieni come afferma Baumann un "esubero", un tumore sociale.  La CIV, in maniera profetica, avverte gli uomini contemporanei da una concezione distorta dell’autonomia di una finanza apolide e avaloriale, ossia dall'ideologia neoliberista che ignora la dimensione antropologica, etica, e usa la finanza come arma di distruzione di massa(CIV n. 34). La finanza come l’attività economica invece ha come missione il perseguimento del bene comune, di cui tutti debbono farsi carico, ma anche e soprattutto la comunità politica. La politica alta, dovrebbe avere il compito di vigilare e di orientare la finanza in modo che, mediante la produzione della ricchezza e la sua equa distribuzione, sia attuato il bene comune (CIV n. 36), il bene di tutti. Dopo il suo cattivo utilizzo, che ha danneggiato l’economia reale e interi continenti, la finanza deve ritornare, afferma il Papa, ad essere uno strumento funzionale alla miglior produzione della ricchezza ed allo sviluppo. "Tutta l’economia e  tutta la finanza, non solo alcuni segmenti devono, in quanto strumenti, essere utilizzati in modo etico così da creare le condizioni adeguate per lo sviluppo dell’uomo e dei popoli" (CIV n. 65). Il mainstream della finanza ha il dovere di "riscoprire il fondamento propriamente etico delle loro attività per non abusare di quegli strumenti sofisticati che possono servire per tradire i risparmiatori» (CIV n.65).

In breve, l’economia e la finanza vanno vissute diversamente da quanto avviene nel capitalismo finanziario, meramente speculativo, apolide, pericoloso per se stesso e per lo sviluppo sostenibile di tutti. Esse vanno, cioè, gestite eticamente. E ciò perché la stessa economia e la stessa finanza non sono refrattarie e nemmeno neutre rispetto all’etica. In quanto attività dall’uomo e dell’uomo sono intrinsecamente morali, ossia portano in sé il germe dell’eticità che, data l’ambivalenza della libertà, va cresciuto ed incarnato responsabilmente nelle molteplici realtà economiche e finanziarie (cf CIV n. 36). Queste non sono radicalmente e necessariamente disumane e antisociali come, purtroppo, spesso avviene. Sulla base delle esperienze positive e di una razionalità retta, e quindi senza nessun connotato ideologico, la DSC, in definitiva, ritiene che sia l’economia che la finanza, possano e debbano “essere vissuti rapporti autenticamente umani di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità” (ib.).La grande sfida odierna, pertanto, è quella di far emergere, dai cupi scenari della crisi finanziario-economica, in questo tempo di globalizzazione caratterizzata dalla “liquidità moderna”, tutto si trasforma e diviene, ma nulla si solidifica e diventa stabile, l’esistenza di una nuova economia civile di mercato a servizio di uno sviluppo integrale, sostenibile ed inclusivo. Una tale sfida, che non ha nulla di irrazionale o di mitico, giacché l’economia e la finanza sono attività dall’uomo, dell’uomo, per l’uomo. L’economia civile di mercato nel corso dei secoli come ho dimostrato nel nostro libro, grazie al dono carismatico, è riuscita a vedere a livello di riflessione teorica e prassica come nei rapporti mercantili oppure nelle situazione più difficili e disparate, attraverso il dono carismatico si possono dare risposte civilizzanti ed evangelizzanti, in cui la trasparenza, l’onestà, la responsabilità – ossia i  tradizionali principi dell’etica imprenditoriale, posso coniugarsi anche con il dono e la gratuità (cf CIV n. 36). Oltre a quanto detto per la scuola economica francescana, potrei ricordare le reducciones dei gesuiti che partendo dal Paraguay oltre ad evangelizzare tutto un continente, hanno create le prime forte di Repubbliche in cui gli indios erano protagonisti e non animali come i “cattolici spagnoli e portoghesi” li consideravano. Purtroppo l’ideologia neoliberista, relativista e secolarizzata, ritiene, sbagliando ché queste virtù, siano in antitesi con l’agire economico e finanziario, affermazione del tutto priva di qualsiasi fondamento. Basti leggere i report sui fallimenti delle imprese profit e non profit per rendersene conto. Inoltre quelle imprese civili che agiscono coniugando mercato e fraternità relazionali oltre a far maturare un capitale umano importante attraverso la propria pienezza umana e attraverso il dono di sé agli altri e a Dio.Ma quanto detto sin qui non è tutto. Secondo la DSC, CIV n. 4, una nuova economia civile di mercato potrà affermarsi compiutamente solo se l’economia e la finanza potranno potenziare la loro strutturazione e la loro istituzionalizzazione etica vivendo l’Agápe-Caritas e il Lógos-Verità di Cristo”.

In questo scenario quale ruolo possono ritagliarsi i religiosi e le religiose?

“Da quanto detto grandissimo, basti pensare al grande sviluppo della DSC, ma esiste un problema anche questo antropologico, prima ancora che teologico.

Quando parliamo di evangelizzazione pensiamo subito alla pastorale missionaria, kerygmatica, carismatica, catechetica, sacramentale ecc. Ma sin dalla Chiesa postpasquale di Gerusalemme, questa ha evangelizzato l’economico, il sociale, la cultura, ecc, sull’esempio di Gesù e della sua Theantropia, Incarnazione. I religiosi i laici sono chiamati ad annunciare questa Buona Notizia, parlando a voce alta alla nostra società, al mondo dell’economia, della politica, della bioetica, del creato, della scienza ecc, dando ragione della loro fede. Forse non ci sarà dato credito in tempi brevi, ma essendo il nostro fondamento la verità di Gesù Cristo, si affermerà inevitabilmente con il tempo. Non dimentichiamo che la nostra generazione ha visto tre faraoni sciogliersi come neve al sole, il nazifascismo, il comunismo e il neoliberismo”.

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