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Gesuita, ha
conseguito la licenza in teologia fondamentale e il diploma in
comunicazioni sociali, il dottorato di ricerca in teologia presso la
Pontificia Università Gregoriana, per poi completare la formazione negli
Stati Uniti. Si occupa di critica letteraria, di nuove tecnologie di
comunicazione e il loro impatto sul modo di vivere e di pensare. Ha
fondato un progetto culturale conosciuto come
Bombacarta, e
curatore di una collana di poesia delle edizioni Ancora. Dal settembre
2011 è direttore della rivista La Civiltà Cattolica, nonché
consultore dal dicembre 2011 del Pontificio Consiglio della Cultura e
del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali.
La sua attività in
rete è legata, oltre alla presenza nei social networks anche alla cura
di un sito personale e di due blog: uno dedicato alla scrittrice
statunitense Flannery O'Connor e uno incentrato sulla CyberTeologia.
Temi di grande attualità su cui gli abbiamo rivolto alcune domande.
Il tema
del messaggio del Papa per la giornata mondiale delle comunicazioni 2012
accosta il silenzio alla Parola che “se si integrano reciprocamente,
fanno acquistare valore e significato alla comunicazione”. Condivide
questa affermazione?
“Certamente la condivido. Basti pensare che persino la
grammatica ci fa comprendere come una frase non avrebbe senso senza
punti e virgole, che sono di fatto espressione di silenzio. E d’altra
parte, questo è un punto anche molto importante, non bisogna chiudersi
in un elogio del silenzio fine a se stesso. Come se oggi ci fosse
bisogno di fare silenzio. Il Papa dice chiaramente che sarebbe sterile
un silenzio chiuso in se stesso, sarebbe mutismo e non silenzio. Il
silenzio è sempre orientato alla parola. Anche il silenzio è
radicalmente comunicativo. Quindi, questa integrazione delineata dal
Papa mi sembra una intuizione importante in questo tempo”.
In
questo scenario la tecnologia al servizio della comunicazione come si
colloca?
“Direi come prima cosa che solitamente la tecnologia è
percepita come qualcosa di freddo e poco umana, quasi in
contrapposizione netta. In realtà non è vero. Lo stesso Benedetto XVI
nella sua enciclica “Caritas in veritate” afferma chiaramente che
la tecnologia è l’espressione della libertà dell’uomo. Quindi ha a che
fare con la sua spiritualità e con la sua moralità. È il luogo in cui
l’uomo esprime i suoi desideri e i suoi bisogni. In fondo, restiamo
sempre molto colpiti dalle novità, specie tecnologiche. In realtà queste
sono solo novità formali che danno espressione ai desideri che l’uomo ha
sempre avuto. Bisognerebbe guardare che cosa muove la tecnologia, che
cosa la fa essere realmente tale. A mio avviso, quindi si può affermare
senza timore di smentite che la tecnologia è spirituale. Cioè, è
l’espressione della spiritualità dell’uomo. Dunque, la tecnologia è al
servizio della comunicazione nel senso che dà una forma al bisogno di
comunicazione che l’uomo da sempre ha avuto”.
Ai
religiosi e alle religiose quale compito spetta sempre in chiave di
comunicazione ed evangelizzazione?
“Il primo compito, secondo me, è di tipo radicale. Cioè di
considerare come al tempo della rete e con l’avvento di internet,
l’ambiente che si viene a creare non è un mezzo di evangelizzazione.
Bisogna stare molto attenti a considerare la rete, meglio l’ambiente
digitale, come uno strumento di evangelizzazione. Perché non lo è.
Quindi, il primo compito di un credente, in particolare dei religiosi e
delle religiose orientati in senso pastorale, è di non immaginare che la
rete possa diventare una sorta di martello, di chiodo, di strumentario
per una evangelizzazione più efficace. Si entra in questa rete, si vive
in questo ambiente, si testimonia la propria fede ognuno con le proprie
attitudini e sensibilità. La rete, oggi, sempre di più è un network
sociale di fatto. Cioè un luogo in cui i messaggi partono attraverso le
relazioni. Quindi, la modalità che una volta esisteva di pura
trasmissione – broadcasting – non ha più valore. Oggi, un messaggio
passa se è condiviso da più persone. Queste sono secondo me le sfide
principali per i religiosi e per le religiose impegnati nella rete”.
I
social network possono essere utili in questo scenario? E come sfruttano
l’integrazione tra silenzio e parola?
“Non sono utili in quanto mezzi, ma come luoghi da abitare
con tutte le contraddizioni, i pericoli e i rischi che ci sono. Come,
d’altra parte, nella vita. Direi che si collocano in questo scenario
dando una forma alla trasmissione dei contenuti. Che non è pura
trasmissione del messaggio, ma al contrario è condivisione di questo
all’interno di un ambiente, come avviene nei social network.
L’integrazione tra silenzio e parola è qualcosa di estremamente
delicato. Perché, come facevo notare prima, nel social network se una
cosa non è mostrata o detta, di fatto non è condivisa. Bisogna stare
attenti a non cadere nella dinamica del troppo detto o di essere molto
espliciti. Anche nel social network occorre vivere la dimensione della
reticenza, dell’allusione, della simbologia. Specialmente quando
parliamo dell’annuncio del Vangelo. Quindi, non basta fare propaganda
per raggiungere l’obiettivo. Il Papa stesso nel messaggio per la
giornata mondiale delle comunicazioni sociali dello scorso anno ha detto
chiaramente che non bisogna fare propaganda del Vangelo come se fosse un
messaggio ideologico. Bisogna vivere coerentemente questo ambiente. E
quindi, vivere anche la dimensione del silenzio come reticenza, del
rinvio silenzioso, della domanda, della questione come la sapienza
cristiana ci ha abituati. Direi che il brano evangelico che può fare da
icona a questo atteggiamento è quello dei discepoli di Emmaus, quando
Gesù è molto reticente e fa sì che dal cuore dei discepoli emerga la sua
presenza”.
Lei ha
dichiarato ai microfoni di RV che “la grande sfida oggi per la Chiesa
non è imparare ad usare il web, ma vivere e pensare bene al tempo della
rete”. Questo cosa comporta? E come deve animare la quotidianità dei
religiosi e delle religiose?
“La vera questione calda di oggi non è come usare la rete,
ma come vivere bene al tempo della rete. Nel senso che oggi la rete è
una dimensione della nostra esistenza, una parte della nostra vita è in
rete, una parte della nostra capacità di pensare è in rete quindi della
nostra relazionalità e dei nostri contatti sono nell’ambiente digitale.
Questo significa che non è staccato dal mondo o peggio una alienazione
della vita ordinaria. Quindi, non bisogna considerare l’ambiente
digitale come astratto rispetto al flusso ordinario della nostra vita. È
al contrario una parte integrante della nostra vita.
Questo implica delle questioni specifiche fondamentali per
la vita religiosa. Una di queste riguarda la formazione. È chiaro che i
giovani sono abituati a convivere con questi mezzi grazie ai cellulari.
Tutto questo pone delle sfide alla vita religiosa. Siamo abituati a
pensare che l’ingresso nella vita religiosa comporta un distacco dalla
vita precedente, uno stacco virtuoso che permette di assumere la
sapienza di un ordine religioso, di una congregazione che ha le
relazioni tipiche di una comunità. Come far sì che le persone che vivono
in ambienti digitali possano entrare nella vita religiosa in maniera
seria? Basta staccare i contatti, i cosiddetti fili? A parte il
noviziato che è un tempo tutto particolare, come educare successivamente
le persone a vivere la rete? Sono tutti interrogativi che rappresentano
altrettante sfide per la vita religiosa. A mio avviso, non si può
risolvere semplicemente staccando i fili, perché questo rischierebbe di
essere una alienazione, oggi come oggi. Bisogna individuare vie più
sapienti che mettano in discussione la persona e la sua presenza nel
social network.
Un’altra grande sfida è quella che la rete, essendo un
ambiente di vita, permette al carisma di vivere anche in rete attraverso
forme di presenza che possono essere anche quelle dei blog. Come può
esprimersi in maniera adeguata in rete un carisma? Questa è la domanda
che discende da questa constatazione. E un’altra questione è che in rete
ci sono tutti, quindi più carismi partecipano dell’ambiente digitale. Di
qui occorre interrogarsi su come promuovere la conoscenza reciproca tra
religiosi e carismi diversi in ordine ad una comunione maggiore. Queste
sono secondo me le sfide più stimolanti in questo momento”.
La rete
può essere considerata un mezzo di evangelizzazione?
“Assolutamente no. Perché è un ambiente, come dicevo
prima”.
Nel
silenzio si colgono – si legge nel messaggio per la giornata mondiale
delle comunicazioni sociali – i momenti più autentici della
comunicazione tra coloro che si amano. Dobbiamo forse riappropriarci del
valore del silenzio anche in famiglia, prendendo spunto dalla famosa
frase del film di Fellini “La voce della luna” in cui si afferma che “se
ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio,
forse qualcosa potremmo capire”?
“Penso che la dimensione del silenzio non è mutismo e
nemmeno isolamento. Al contrario, la ritengo comunicativa. Il silenzio
ha significato se aiuta a vivere bene i rapporti umani. Chiaramente,
quelli familiari sono fondamentali per una persona. Nella famiglia c’è
una radicale condivisione di vita, dove tutto a partire dalle parole per
finire con i gesti e gli umori sono in comunione. A volte il silenzio è
più espressivo di mille parole. Il silenzio nella famiglia, come è
inteso dal Papa, potrebbe essere quel livello che supera la parola e la
sua sovrabbondanza. Noi abbiamo il silenzio comunicativo nel momento in
cui la parola non è in grado di esprimere fino in fondo dei contenuti,
lasciando spazio al silenzio espressivo”.
Nota. Per motivi indipendenti dalla nostra volontà,
l’intervista viene pubblicata con notevole ritardo in relazione ai tempi
nei quali le domande sono state poste all’interlocutore. L'intervista
non è stata rivista dall'interessato (La
direzione).
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