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Alla luce del soleAlla luce del sole
Produzione
Roberto Faenza

Italia 2005

 

È   stato giustamente scritto: “Scelta decisa e coraggiosa quella di Roberto Faenza”, portare sullo schermo gli ultimi anni di vita di don Giuseppe Puglisi, nobile e scomoda figura di sacerdote. “Portare alla luce del sole chi è dimenticato mentre deve essere ricordato”, ecco che cosa ha voluto fare con il suo film, e c’è riuscito. Ha anche voluto parlare al cuore e non solo alla ragione. Per farlo ha scelto un linguaggio scabro e realistico, nel solco di altri grandi maestri italiani come Rosi e Petri,

abbandonandosi contemporaneamente a un’ispirazione poetica trattenuta ma evidentissima nelle figure dei bambini che insieme a don Puglisi sono il cuore del suo discorso. Sono essi – ci dice – il nucleo che bisogna rigenerare per sottrarli all’influenza mafiosa che permea ancora della sua sottocultura e del suo veleno interi quartieri e paesi. E la lezione è stata raccolta. Ha prodotto tra l’altro un “Progetto scuola” che, a partire dal 25 gennaio 2005 – 4 giorni dopo l’uscita del film – mette a disposizione la pellicola per proiezioni speciali agli studenti.

 

Un soggetto e molti “racconti”

Faenza (diploma in cinematografia al Centro Sperimentale e laurea in Scienze Politiche) com’è sua abitudine, scrive da solo il film dopo un lungo lavoro di documentazione: “Un piccolo film certamente dal punto di vista produttivo, spiega lui stesso. Ce lo facciamo quasi … in casa, dal momento che la produttrice - Elda Ferri - è mia moglie. Ma è anche una storia in cui credo molto, che porto nella testa da quand’è accaduta, dieci anni fa”.

Don Puglisi era un uomo solo, disarmato. Per fermarlo lo chiamarono padre, perché era un sacerdote. L’assassino, 28 anni, 13 omicidi alle spalle, teneva in pugno una pistola con il silenziatore. Un altro, mentendo, disse: è una rapina. Don Pino ebbe solo tre parole: “Me l’aspettavo”. Sorrise, come faceva con tutti. E fu l’ultimo dei suoi sorrisi. Chiamato nel 1990 a occuparsi della Parrocchia di Brancaccio, in meno di due anni riesce a costruire un centro di accoglienza e, aiutato da un gruppetto di volontari, giorno dopo giorno raccoglie dalla strada e dalla malavita decine e decine di bambini. Inevitabilmente si scontra con gli interessi del potere di Cosa Nostra e con l’omertà dei cittadini. Sono gli anni delle stragi di Capaci. Lo avvertono, lo minacciano, bruciano le case dei collaboratori, ma niente riesce a fermare la sua determinazione, il suo sogno di amore. Raccontando con semplicità la storia di questo eroico ‘antieroe’ dalla vita frugale ed evangelica, il regista tratteggia in parallelo il disegno del contesto che “brilla per il vuoto della politica”, della partecipazione e delle istituzioni. “Potrei dire che è un film sull’assenza dello Stato e della società civile”, dichiara deciso il regista. 

 

Per far pensare

a) Sull’idea del film: raccontare un eroe “quotidiano”, l’antieroe dell’oggi, raggiungendo l’obiettivo di coniugare la cronaca – i fatti, i luoghi, le facce – con la denuncia scaturita da quegli avvenimenti, ma più ampia… “quasi rivolta a tante altre situazioni dove il sopruso domina le coscienze”. (Acec - Valutaz. Pastorale)

“Mi sono accostato a questo personaggio da non credente e ne ho colto una grande lezione di libertà. Supera il sacrificio. La verità vi farà liberi: chi l’ha detto?” - Sono parole di Gesù Cristo. - “Bellissime. Le terrò a mente. Potrebbero essere il titolo alternativo del film”. (Faenza) 

La parabola di don Puglisi è quella della solitudine di chi lotta per i suoi ideali, realisticamente determinato fino al dono supremo. “L’uomo che sparava diritto”, lo chiamavano i suoi parrocchiani, tanto il suo credo era alieno dal compromesso. “So di fare un film controcorrente – commenta a proposito il regista - in un clima di grande acquiescenza. Puglisi si trova isolato, in un contesto di ignobile e comoda incomprensione. Oggi succede lo stesso a chi cerca di innescare un motore di resistenza contro la politica ridotta al nulla.” -  “Non sono un eroe” diceva di sé, ben sapendo che per la sua attività viene condannato a morte. E diventa  l’invito più alto a stare a fianco di chi “perde la propria vita” per una migliore convivenza civile. Ha vissuto la strada – quella che Gesù ha fatto sua - come luogo di povertà, di bisogni, di domande in continua trasformazione. Con la sua testimonianza ci sprona a sostenere quanti vivono questa stessa realtà con impegno e silenzio. Non il silenzio di chi rinuncia a parlare e a denunciare, ma quello di chi  per la  scelta dello “stare” nel suo territorio rifiuta le passerelle, consapevole del “Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”. (Mt 5,10)  

b) Sul messaggio reale del film.   “Abbiamo scelto (mia moglie ed io) di fare questo film per far emergere una ineguagliabile lezione d’amore per la giustizia e la non violenza, insieme ad un forte messaggio pedagogico…”. (Faenza)

Il film inizia con un atroce combattimento di cani, al quale assistono anche i bambini – un’iniziazione alla violenza – e si conclude con uno degli imputati che spiega al giudice: “Perché l’abbiamo ucciso? Quel prete prendeva i ragazzi dalla strada…”.  Alla luce del sole ha la sua essenza nei bambini. Puglisi capisce che a Brancaccio bisogna ripartire dai bambini. La loro presenza è il sottofondo onnipresente alle riprese.

Le immagini iniziali della partita di calcio  nel campo improvvisato della Parrocchia, gli occhi innocenti dei due fratellini seduti ai bordi della strada, l’espressione apertamente ‘monella’ di Saro e di Carmelo.

I segnali positivi, sembra dire Faenza, sono piccoli, quasi invisibili. La sfida è tutta nel raccoglierli e coltivarli: si chiama educazione ad ogni costo.

Mariolina Perentaler

 

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