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Maria piena di Grazia
Regia di
Joshua Marston

Nazione: USA
Casa produttrice: Colombia
Anno: 2004
 

Orso d’oro come migliore opera prima e migliore interpretazione femminile al Festival di Berlino 2004, premio del pubblico al Sundance, pieno successo a Seattle e a Deauville. È un’opera nobile ed asciutta, scrive la critica internazionale che riconosce al trentacinquenne regista californiano ‘esordiente’, il merito di aver diretto con molto rigore e molto talento un film attualissimo. Epopea di un’eroina che si ribella “all’eroina”, porta sullo schermo il problema principale della Colombia: la droga, anche con il contributo produttivo dei colombiani che, dall’estero, cercano di dare una mano al loro tormentato paese.

“Coraggio guardiamo” - scrive quindi Kiezich - guardiamo cosa può succedere in questo nostro mondo a una diciassettenne colombiana decisa a infrangere il muro di una vita senza speranza. Ogni ovulo di coca pesa 10 grammi, è lungo 4,2 cm e largo 1,4. La Maria del titolo ne ha ingoiati 63.

Il prezzo/coraggio per tentare quel valico, … incontro alla Speranza.    

 

 

Il soggetto/racconto

Lo slogan pubblicitario di Maria full of grace è:  “Tratto da centinaia di storie vere”. Una volta tanto rispecchia la verità dei fatti: la protagonista Maria è interpretata da Catalina Sandino Moreno, presa dalle disastrate strade della Colombia. Così, come l’amica Blanca. Le chiamano mulas, perché come i muli trasportano ‘la roba’ affrontando i cosidetti viaggi della morte. Ad oggi dagli Stati Uniti sono stati rimpatriati circa 400 cadaveri di “corrieri” colombiani. Si trattava di persone di ogni età, dai 17 agli 82 anni. Inoltre si calcola che siano altrettanti i corpi sepolti nel cimitero dei poveri di New York, senza lapide e senza nome. La Maria del film scampa a questa sorte per caso, ma ce ne mostra tutte le ferite attraverso un’avvincente racconto che viene filtrato dal suo  sguardo giovanissimo e fiero. Abita in un villaggio a nord di Bogotà. Vita di stenti e di umiliazioni che condivide la miseria di una famiglia numerosa. Lavora asportando spine dai fiori di un roseto industriale. Ha un ragazzo, ma non è riamata e si scopre incinta. Dopo lo scontro con  un  sorvegliante disumano, rimane disoccupata.

Decide di tentare la fortuna in città dove s’imbatte in un amico che la ingaggia, procurandole un “lavoretto” senza impegno: diventare mulas, corriere della droga. A parole tutto facile. Nei fatti, una tortura. Intanto bisogna incominciare a fare training per ingerire gli ovuli ripieni. Poi affrontare impavidi il viaggio, salendo in aereo imbottiti di pepas e rischiando la vita per la rottura possibile di un uovo nello stomaco o nel ventre – così succederà  all’amica. Infine, con una probabilità ancor più alta, cadere in arresto per i controlli all’arrivo negli USA…

L’impostazione dell’opera è quasi documentaria: sequenze nette, dialoghi puntuali, situazioni descritte con intensità penetrante. Uno stile diretto e sobrio privo di estetismi inutili o decorativi. Un cinema bello: secco ma  toccante e veritiero. Due le scene emotivamente più efficaci, quella dell’addestramento di Maria costretta ad ingoiare capsule e quella del viaggio in aereo, allo sbaraglio verso New York.. Scene straordinarie. Indimenticabili.

Per far pensare 

a)  Sull’idea del film: raccontare una Maria che deve ‘partorire’ le capsule per sopravvivere. Una Maria che porta in grembo un figlio condannato a convivere fin da feto con una partita di cocaina.

Il titolo del film, per quanto in inglese, prende a prestito un’espressione dell’Ave Maria e, se da una parte si ricollega così al sofferto cattolicesimo sudamericano, dall’altra evoca una relazione tra la “piena di Grazia dei vangeli” e la  protagonista della vicenda: una giovane concreta, simbolo femminile dei diseredati, degli sfruttati e della loro sacrosanta esigenza di ribellione/riscatto. Un’attrice diciassettenne, misurata ed elegante, in grado di sostenere con ‘cristallina grazia umana’ il personaggio di Maria. Una Maria che da adolescente diventa presto donna, e sa farsi progressivamente dono: la grazia di un bene vivo e reale, non metafisico. La grazia di una delicatezza interiore leale e chiara che si rende concreta nell’agire. Con decisione e coraggio, con intraprendenza perché forgiata nella miseria e nella difficoltà. Una grazia che combatte e si fa solidale contro il dolore. In nome della vita. In nome del suo diritto alla dignità e alla felicità per tutti.

b)  Sul messaggio reale del film: “l’oggi” di un contesto sociale ed esistenziale giovanile, con tutti i  rischi del suo riscatto.

L’introduzione della storia con la presentazione della protagonista diciassettenne e del suo contesto, passa attraverso:

la simbologia delle rose “senza spine”. Ovvero del racconto di quanto un certo business – e le sue spine – fosse importante, reggesse l’economia locale;
 

l’arrampicata sul tetto. Quasi che - in questo passaggio iniziale della vicenda e in un solo movimento di macchina - il regista volesse simbolicamente condensare l’intera storia dell’emancipazione femminile.


la splendida interpretazione della protagonista colombiana che ha riportato il premio per la miglior recitazione femminile, da attrice non professionista, che recita sè stessa e riscatta realmente la sua condizione;


la presenza/testimonianza dentro il film di Orlando Tobon –  il colombiano che ha anche contribuito alla produzione dell’opera e ne è quindi coproduttore/coautore. Nella vicenda interpreta la parte del Don Fernando, il “padrino buono”: un ruolo che svolge “realmente” e provvidenzialmente nella Comunità Colombiana del Quens.

Mariolina Perentaler

 

Nota: Ringraziamo la direzione di DMA per la gentile concessione della pubblicazione.

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