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Non uno di meno
Regia di Zhang Yimou

“Una storia di disarmante semplicità, un film documentaristico nel suo procedere e, sorprendentemente profondo e contemporaneo, anticommerciale e insieme di denuncia, foderato di poesia senza essere pittorico o visivamente ricco”. (Rivista del cinematografo, gen. 2000).

 

Delucidazioni

La storia della “pecorella” smarrita come è stata definita parafrasando il titolo originale è il penultimo film di Zhang Yimou. Presentato alla 56° mostra internazionale d’arte cinematografica alla Biennale di Venezia, ha vinto a pieno titolo il massimo riconoscimento. Per stile e contenuto, temi e sensibilità è cinema sulla Cina: in particolare sul popolo della campagna cinese che si confronta con la vita della città.

Sotto questo profilo è cinema documentato per chi può conoscere la Cina solo attraverso le immagini e le storie raccontate. Tuttavia, nella struttura e nel linguaggio rimane godibile, lineare, piacevolmente narrativo e pur delicatamente, cinema ideologico.

Appare infatti come la ricostruzione storica e sociale di un passato culturale che “si allunga nel presente rurale cinese” e sta particolarmente a cuore a questo regista. Dopo anni di viaggi nei villaggi a constatare l’isolamento medioevale, nonché il degrado e l’abbandono delle scuole pubbliche, dopo un lungo tormento protratto sulla situazione, Zhang Yimou decide. Con pochi soldi riesce a dare voce di verità e di tenerezza al tutto e ci regala anche quest’opera delicata, veritiera, totalmente positiva.

 

L’elogio della tenacia

“Non uno di meno” è la raccomandazione rivolta dal maestro di scuola di un villaggio isolato di montagna alla giovanissima supplente che lo viene a sostituire per un mese. “Non uno di meno ne devo trovare al mio ritorno. In cambio riceverai un compenso in più di dieci yuan”. E Wiei Miuzhi, solo tredici anni, la più giovane supplente del mondo, ma una piccola donna di acciacco, “testarda” come solo i contadini temprati alla scuola di mille avversità sanno essere, non si ferma davanti a nessuna umiliazione, a nessuna difficoltà.

Il primo impatto con i 28 alunni della pluriclasse richiederebbe decisione e capacità specifiche. La trova invece del tutto impreparata, quasi sopraffatta: ha frequentato appena le elementari, è contadina lei stessa e, con la sua famiglia, ha bisogno di aiuto economico. 

Ma l’occasione del riscatto le si presenta presto: il suo alunno più monello, scappa in città in cerca di lavoro ed è costretta a recuperarlo ad ogni costo, anche per suo interesse. Insospettatamente, in modo quasi inconsapevole, si renderà capace di fronteggiare il tutto con l’improvvisazione di un “metodo” d’ottima scuola. E’ la parte seconda e tematica del film, su cui vale la pena soffermarsi.

Per necessità approda da sola a una pedagogia che risale al pensiero dell’americano Dewey e impara a coinvolgere i suoi monelli passando dalla trattazione astratta dei problemi della scuola, alla “soluzione” dei problemi propri della vita. Con istinto determinato si applica assieme a tutti – ciascuno con la propria capacità e maturità – all’unico problema da risolvere: riportare a scuola il fuggitivo, salvare il guadagno promesso, ridare alla classe la sua integrità numerica e affettiva.

 

Come fare?

Andare in città costa. La maestria non ha un solo Yuan. Ma divenuti solidali con lei saranno i diavoletti suoi alunni ad insegnarglielo. Tuttavia i soldi non bastano e Wiei si mette in viaggio a piedi. <da questo momento azione e avventura seguiranno la tredicenne che vaga dentro una metropoli caotica e rumorosa dove tutto è estraneo, sconosciuto e incomprensibile, ma da cui non si lascia intimorire né fermare. Da “pulcino sperduto” tra la folla, si trasforma presto in un “pesce nell’acqua”, capace di imparare a nuotare. Inventerà “metodi di ricerca personalizzati” arrivando fino alla televisione. Di qui lancerà il suo appello attraverso un programma che, nel contesto ideologico del film, si intitola e diventa per la scuola-baracca del villaggio : “L’arcobaleno della vita”.

 

“Un’espressione d’amore per i bambini” 

Lo dichiara il regista aggiungendo: “In Cina ci sono ancora 200 milioni di bambini analfabeti”. E in loro onore, con totale rispetto e dolcezza, decide di utilizzare in questo film solo attori non professionisti “nella parte di se stessi”. Non più quindi “protagonisti che recitano”, ma “persone” che vivono ed esprimono le loro emozioni, le loro sensazioni reali, la loro condizione di cinesi del duemila. E’ la vera grandezza del film.

Wiei Miuzhi non ha avuto bisogno dell’Actor’s Studio per diventare ed essere una grande attrice eppure potrebbe candidarsi “all’Oscar planetario”, potrebbe smontare le tante logiche assurde dello star system, delle nostre maiors. <contro questo stile produttivo occidentale,  Zhang Yimou dà vita e forma a un sincero atto d’amore per la gente piccola e silenziosa della Cina, a un grande atto d’amore anche per noi, lontani e inariditi occidentali, perché – come afferma Wiei dopo la sia singolare esperienza – “questo regista riesce a farti diventare migliore. Con un sorriso, una lacrima, un bellissimo film per tutti”. 

Mariolina Perentarel

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