el
2005 ricorrono quarant’anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II
(1965) e trent’anni dalla Evangelii Nuntiandi (8 dicembre 1975)
di Paolo VI. Tante iniziative sono già state programmate per fare
memoria e attualizzazione di entrambe le ricorrenze.
In questa cornice il presente contributo si
propone di richiamare l’importanza di riavvicinare la fede alla vita, il
Vangelo alla cultura, il kerigma alla storia.
Fondata da Gesù, il primo e il più grande
evangelizzatore (E.N., n. 7), la Chiesa è inviata nel mondo per
l’evangelizzazione. Essa infatti «nasce dall’azione evangelizzatrice di
Gesù e dei Dodici. Ne è il frutto normale, voluto, più immediato e più
visibile» (E.N., n. 15). Tutta la Chiesa è missionaria e l’opera
evangelizzatrice è un dovere fondamentale del popolo di Dio (E.N., n.
59).
«Evangelizzare, per la Chiesa, è portare la
Buona Novella in tutti gli strati dell’umanità, e col suo influsso,
trasformare dal di dentro, rendere nuova l’umanità stessa» (E.N., n.
18).
Possiamo allora dire che già nel Concilio
veniva prefigurata quella che oggi viene giustamente definita come
“svolta missionaria della pastorale”. La fede deve essere annunciata,
donata, comunicata. È appunto questo il cammino intrapreso oggi dalla
Chiesa in Italia: comunicare il Vangelo in un mondo che cambia.
Non semplicemente “annunciare” ma
“comunicare”, nella consapevolezza che si può annunciare senza farsi
carico della comprensione e della risposta al messaggio da parte di chi
lo riceve, mentre per poterlo comunicare si deve essere attenti
responsabilmente al cosiddetto “feedback” (risposta di ritorno) da parte
del ricevente. Sulla centralità che viene così ad assumere il verbo
“comunicare” possiamo dunque registrare una felice confluenza tra
progetto pastorale e progetto culturale, rafforzando il carattere
unitario del cammino che la Chiesa italiana sta facendo nel tentativo di
rimettere al centro l’importanza della cultura, del pensiero, del
linguaggio. In una parola: l’intelligenza della fede. Tuttavia non è
affatto scontato che la comunità dei cristiani sia consapevole delle
ragioni storiche che hanno indotto i nostri vescovi a scegliere un
cammino pastorale così impegnativo, poiché in gran parte si è ancora
prigionieri della cosiddetta “trappola dell’illuminismo”, ossia di
quella visione dualistica che ancora oggi tiene subordinate le
intelligenze dei credenti alle elaborazioni del pensiero laico, nella
falsa convinzione che l’uomo con la mente “pensa” e con la fede “crede”.
No, il cristiano non deve sottostare a questo inganno, perché egli con
la fede “crede e pensa”. Per questo ogni cristiano deve sentirsi
impegnato a far pensare la fede, non a limitarsi a credere (al mistero,
ai dogmi). E quando la fede pensa – questo è essenziale sottolineare –
pensa ciò che la ragione da sola non osa pensare in una prospettiva di
autotrascendenza e di speranza. Bisogna dunque ricominciare da qui: «la
rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra
epoca» (E.N., n. 20).
Noi siamo stati sempre convinti che con la
proposta del Progetto culturale i vescovi abbiano offerto una
grande opportunità per la rinascita della fede nel nostro Paese.
Certamente per alcuni anni il progetto culturale non è stato
compreso dallo stesso mondo cattolico, ma da alcuni anni si sta
dimostrando sempre di più una scelta provvidenziale, coraggiosa,
globale, profetica: un vero kaìros da cogliere e da valorizzare.
Il 3 dicembre 2004, nell’ambito del VI
Forum del progetto culturale, a dieci anni da quando il cardinale
Ruini ne aveva parlato per la prima volta, i coordinatori del Servizio
nazionale per il progetto culturale hanno diffuso materiali informativi
in cui si dice che la “rete”, che in questi anni è cresciuta intorno al
progetto, può avvalersi oggi di 263 referenti diocesani, di 373 centri
culturali, di 250 esperti, di oltre 1200 iniziative diocesane
esplicitamente organizzate nel quadro del Progetto culturale. Una
rete che ha, allo stato attuale, circa 1500 nodi e si pensa che debba
avere sempre più nel sito www.progettoculturale.it, un “motore” e
un “terminale” significativo.
Per evitare la sterilità culturale della fede
Con le parole di mons. Giuseppe Betori,
Segretario generale della CEI, possiamo dire che ora sia giunto il
momento di fare del Progetto culturale «un processo non più
élitario, ma popolare, per passare da una questione di addetti ai lavori
a un impegno pastorale di tutti».
Da qui l’urgenza che i cristiani si impegnino
a “ri-evangelizzare la cultura” partendo dal presupposto che bisogna
essere disposti a mettere in discussione le proprie categorie
interpretative, nella convinzione che il processo di evangelizzazione
della cultura non escluda ma implichi che si cominci da se stessi. La
novità della fede cristiana rimane, infatti, troppe volte implicita e
passiva, senza tradursi esplicitamente nella forma di un “pensiero”
rinnovato e di una “intelligenza credente”.
Oggi come cattolici dobbiamo sentire ed
esercitare con forza la nostra responsabilità nel rigenerare i segni e i
simboli della fede cristiana all’interno di una società che appare per
tanti versi iconoclasta. Sta anche qui la dimensione culturale e
“civile” del mondo cattolico. Partendo dai mondi vitali, dalle comunità
locali, dalle tradizioni religiose, dai tessuti sociali territoriali, in
una parola dal “civile”, ossia dalle relazioni interpersonali e dai
legami comunitari e associativi.
Soprattutto adesso che è stato pubblicato il
Compendio della dottrina sociale della Chiesa1
è indispensabile fare opera di mediazione culturale per diffonderlo a
tutti, per renderlo pensiero popolare, uscendo da ogni elitarismo e
tentazione di cultura aristocratica. Oggi, per i cattolici, l’impegno di
“tornare a pensare” significa assumersi il compito storico di dare vita
a un pensiero profetico che abbia sia la forza della resistenza, sia il
coraggio della divergenza e la fantasia dell’immaginazione.
Spesso nella nostra società complessa si ha
l’impressione che i cattolici non abbiano né “cammini positivi” né
“esempi trainanti” da avanzare, ma soltanto posizioni in contrario da
esprimere, come accade in modo particolare nel campo della bioetica. Se
non vogliamo condannare la fede all’afasia, o a una sorta di sterilità
culturale, bisogna impegnarsi a costruire una nuova ecologia della mente
che ci consenta di discernere e di decodificare la realtà sociale.
Dobbiamo, allora, renderci conto, come
osserva, su Nuova Umanità, Michele De Beni2,
che la nostra cultura sta trascurando l’educazione del pensiero,
privilegiando forme tecnicistico-efficientistiche, che da sole non
possono garantire lo sviluppo delle capacità di riflessione. In tal modo
vengono a mancare, nei nostri programmi di studio, le questioni di
significato (sull’amicizia, sull’altruismo, sul bene, sul male, sul
dolore o sulla felicità...), che certamente richiedono risposte, anche
se non definitive, attraverso quella pluralità di indicazioni di
senso che, proprio perché cercate, contribuiscono a dare significato
all’esistenza umana3.
È ciò che sottolinea anche Gregory Bateson quando annota che, purtroppo,
tutte le questioni fondamentali vengono trascurate nella scuola, con il
rischio di rendere stupidi gli studenti4.
“Educare a pensare”, quindi, rappresenta il
filo conduttore di un itinerario educativo sistematico, pervasivo,
aperto a tutti i saperi e ambiti di vita.
Howard Gardner, psicologo e pedagogista
americano, sostiene che nelle scuole di tutto il mondo non c’è
un’adeguata stimolazione della comprensione profonda della realtà5.
Si tende piuttosto ad accontentarsi di prestazioni meccaniche,
ritualistiche, convenzionali. Secondo Gardner la “frode involontaria”,
che si commette quotidianamente ai danni degli studenti, consiste nel
focalizzare l’attenzione più sull’apprendere che sul comprendere. Come
se fosse possibile apprendere senza comprendere.
Per poter fecondare la cultura contemporanea
il cristiano deve, allora, tornare a “bere al proprio pozzo”,
riappropriandosi di un’antica spiritualità in gran parte dimenticata.
Deve impegnarsi, poi, a “decolonizzare l’immaginario collettivo”, anche
per disintossicarsi dalla forza seduttiva delle narrazioni oggi
dominanti. Non si dà intelligenza della fede senza la capacità di
attingere alla propria storia. Il cristiano deve recuperare la libertà
di pensare profeticamente il futuro in reazione a un presente soporifero
e a una sudditanza psicologica nei confronti del pensiero laico e
laicista.
È nostra convinzione che sia oggi compito del
cristiano educarsi ed educare a un pensiero divergente, non omologato,
non allineato, non conformista che possa proporsi come “riserva
escatologica” e “luogo di contropotere”. In questo senso all’ideologia
del mercato si contrappone la cultura del dono; all’ideologia della
guerra (più o meno preventiva) si contrappone la cultura della
nonviolenza; all’ideologia dello Stato assistenziale si contrappone la
sussidarietà; all’ideologia del razzismo si contrappone la cultura della
fratellanza; all’ideologia del consumo sfrenato e dell’usa-e-getta si
contrappone la cultura della sobrietà come stile di vita e virtù
sociale, ecc. Di tutte queste visioni, tra loro contrapposte, ci
limiteremo a richiamarne quattro: la questione antropologica, una
visione positiva della laicità, la cultura del dono contro l’ideologia
del mercato, la scelta dell’interculturalità nell’attuale pluralismo
culturale.
La questione antropologica
Nel nostro tempo dominato dalla scienza e
dalla tecnica è innanzitutto l’uomo, la dignità umana, ad apparire
“sotto assedio”.
Sta infatti imponendosi, ed appare destinata
a diventare sempre più acuta e pervasiva, una questione antropologica
che tende non tanto a interpretare l’uomo, ma soprattutto a trasformarlo
sia sul versante economico e sociale, sia sul versante biologico e
psichico.
Non possiamo più sottrarci a questa sfida
radicale. La persona umana è, infatti, la frontiera in cui si gioca la
sfida del futuro. Il nuovo spartiacque passa tra umano e post-umano6.
Se fino a un recente passato ciò che
soprattutto preoccupava la Chiesa era che l’uomo fosse ridotto dalle
ideologie totalitarie a una cellula dell’organismo sociale, col rischio
di perdere la sua personale dignità e autonomia, oggi possiamo dire
invece che l’attenzione della Chiesa si concentra sul pericolo che sotto
la spinta della tecnologia l’uomo venga ridotto a semplice particella
della natura, in una inaccettabile visione di biocentrismo e di
post-umanesimo.
Ciò che appare sottoposto a una profonda
mutazione interessa un po’ tutto: i concetti di “vita” e di “morte”, di
“naturale” e “artificiale”, di “individuo” e “società”, di “umano” e
“non-umano”, di “libertà” e “limite”, di “diritto” e di “etica”... Da
qualsiasi parte si voglia esaminare il problema, si giunge sempre a
concludere che al cuore delle molteplici questioni sollevate dalla
tecnica c’è, comunque, una “questione antropologica”.
Una visione positiva della laicità
Dal «date a Cesare quel che è di Cesare» alla
Lettera a Diogneto, dall’abate Rosmini al Concilio Vaticano II, i
cattolici sono ben consapevoli che il principio di laicità dello Stato è
espressione di una grammatica di civiltà cui non si deve assolutamente
rinunciare.
La discussione sulle radici cristiane nel
preambolo della Costituzione europea, la legge sulla laicità in Francia,
il caso Buttiglione, le polemiche intorno ad alcune proposte di legge
avanzate da Zapatero in Spagna... per tacere su tanti fatti di cronaca
relativi al Crocifisso e al presepe, stanno tutte a dimostrare quanto
sia urgente avere una cultura equilibrata della laicità, lontana
dall’odierno laicismo rampante. Una cultura che ci consenta di stabilire
le regole della convivenza civile, evitando sia lo scontro sui simboli –
che sta caratterizzando la nostra come una “società iconoclasta” – sia
le due derive inaccettabili del relativismo dei valori e dei nuovi
fondamentalismi.
Noi abbiamo una visione positiva della
laicità: rifuggiamo da una laicità definita soltanto come assenza,
neutralità e svuotamento del fatto religioso.
Nello stesso Compendio, la laicità
viene presentata come «un valore acquisito e riconosciuto dalla Chiesa e
appartiene al patrimonio di civiltà che è stato raggiunto»7
e si afferma che essa «comporta il rispetto di ogni confessione
religiosa da parte dello Stato... In una società pluralista, la laicità
è luogo di comunicazione tra le diverse tradizioni spirituali e la
nazione»8
e il laicismo ne rappresenta una inaccettabile contraffazione.
Dunque, la laicità prima di ogni altra cosa è
uno spazio pubblico di libero confronto, dove tutti hanno diritto
di esprimersi, credenti e non credenti, agnostici e atei devoti, ebrei,
cristiani e musulmani, seguaci di ogni religione, posizione ideologica e
visione della realtà.
Questa concezione aperta della laicità è
fondamentale perché consente di non marginalizzare la religione,
rendendola invisibile e relegandola nella dimensione privata.
Fondandosi sulla pluralità, la cultura della
laicità rifiuta la logica dell’occultamento e della cancellazione delle
identità religiose.
Questa nostra visione della laicità come
spazio pubblico plurale non accetta, d’altra parte, la riduzione
strumentale del cristianesimo a rango di “religione civile”. Anche il
cardinale Ruini ha espresso la sua contrarietà a questo “snaturamento”
della fede, quando nella sua prolusione al VI Forum del Progetto
Culturale (Roma, 3 dicembre 2004) ha affermato che è «essenziale
rendersi conto che la fede cristiana può svolgere in maniera efficace e
duratura un simile ruolo pubblico solo se non si riduce a un’eredità
culturale del passato, ma è attualmente creduta e vissuta dalle persone
concrete, nella sua verità e autenticità. Sotto questi profili vanno
pertanto prese sul serio le preoccupazioni di strumentalizzazione o
snaturamento della fede».
All’uso strumentale della religione
cristiana, ridotta a preziosa piattaforma di coesione sociale,
preferiamo la gelosa tutela della tensione profetica della nostra fede,
nella convinzione che i valori del Regno non sono negoziabili.
La cultura del dono contro l’ideologia del
mercato
Parlando di anticorpi cognitivi in campo
economico, possiamo portare l’esempio del
mauss9,
il Movimento anti-utilitarista nelle scienze sociali, al quale
appartengono studiosi come Alain Caillé, Jacques Godbout, Serge Latouche,
che promuove la cultura del “dono” in contrasto con la cultura del
“mercato”. Il dono è un gesto unilaterale, asimmetrico, che esprime la
gratuità, e in questo modo viene a contraddire la legge del mercato come
scambio equivalente. Ciò che il dono genera è una nuova socialità che
prima non c’era. In questo contesto è soprattutto importante trovare la
forza e le ragioni per smascherare il mercato che è diventato cultura.
Giovanni Paolo II, di venerata memoria, nel suo discorso alla Pontificia
Accademia delle Scienze Sociali del 27 aprile 2001, espresse con grande
lucidità la preoccupazione per cui la popolazione ormai pensa e agisce
secondo la logica del mercato.
Infatti, il mercato è diventato una logica,
una cultura, un insieme di idee e categorie nella testa della gente e,
quindi, il mercato è molto di più che economia, finanza, multinazionali,
o altre realtà materiali. Il mercato si è come smaterializzato: è
diventato una realtà spirituale che impregna la mentalità della gente. I
termini liberismo o neoliberismo non indicano più soltanto una dottrina
economica, ma una vera dottrina antropologica! L’uomo è ridotto a
homo oeconomicus e il mondo è ridotto a mercato. Ecco perché nella
mentalità popolare domina la logica della competitività. Ad esempio, ci
stiamo abituando a sentir chiamare l’ospedale con l’espressione “azienda
sanitaria”. Ma come si può legare la logica aziendalistica con la
sanità? Naturalmente serve un’organizzazione che eviti gli sprechi e che
controlli i costi, ma l’ospedale deve avere essenzialmente una
dimensione umana, perché ha a che fare con malattia, sofferenza, dolore…
non con il mondo del profitto e della contabilità.
Anche la scuola sta conoscendo una fase di
aziendalizzazione. Ciò che fino a qualche anno fa veniva chiamato
Progetto Educativo d’Istituto (Pei) si è trasformato oggi nel Piano
dell’Offerta Formativa (Pof); gli studenti sono diventati clienti
(domanda) rispetto alla proposta educativa della scuola (offerta); il
preside viene ripensato come manager, il Consiglio d’istituto è
diventato Consiglio di amministrazione; la valutazione è diventata una
questione di debiti e crediti; si sta introducendo il portfolio
delle competenze… Non ne farei una questione di schieramenti politici o
di questo o quel Ministro dell’Istruzione, perché il problema è la
visione generale, la tendenza a portare la logica del mercato anche nel
mondo dell’istruzione, che dovrebbe invece rispondere ad altre logiche.
Insomma, bisogna denunciare il primato
dell’economia che ha preso il posto dell’etica e della politica. La
realtà viene, infatti, codificata a partire da una mentalità
mercantilistica. L’economia diventa la matrice, il serbatoio da cui si
attinge per ribattezzare quelle realtà che economiche non sono, come
appunto l’ospedale, la scuola e forse, un domani (o è già oggi?), la
stessa parrocchia.
La scelta dell’intercultura nella società
plurale
Nel messaggio del Papa per la giornata
mondiale del migrante e del rifugiato (24 novembre 2004), si ribadisce
la scelta per l’integrazione interculturale. Si sollecitano i cristiani
a non accontentarsi della semplice tolleranza ma a giungere alla
“simpatia”. Dice esplicitamente Giovanni Paolo II: «Si dovrebbe invece
promuovere una fecondazione reciproca delle culture. Ciò suppone la
conoscenza e l’apertura delle culture tra loro». Per questo, aggiunge,
«occorre coniugare il principio del rispetto delle differenze culturali
con quello della tutela dei valori comuni irrinunciabili, perché fondati
sui diritti umani universali. Scaturisce di qui quel clima di
“ragionevolezza civica” che consente una convivenza amichevole e
serena». Se è compito dei cristiani vivere nella storia come “sentinelle
del mattino” allora spetta ad essi per primi, «scorgere la presenza di
Dio nella storia, anche quando tutto sembra ancora avvolto dalle
tenebre».
Un maestro dell’interculturalità come
Panikkar10
afferma coraggiosamente che: «l’apertura all’interculturalità è
veramente sovversiva. Ci destabilizza, contesta convinzioni
profondamente radicate che diamo per scontate, perché mai messe in
discussione. Ci dice che la nostra visione del mondo, e quindi il nostro
stesso mondo, non è l’unico» (...). «Uno dei compiti della filosofia
interculturale consiste nel superare questo schema mentale monistico,
offrendo una “base” filosofica per una vera convivenza umana più
autentica e duratura. Ciò non significa affatto che l’interculturalità
sia una panacea universale, ma un’attività e un cammino nella giusta
direzione»11.
Un “nuovo principio educativo” per una
società interculturale non può limitarsi ad affermare i tradizionali
valori della tolleranza e della convivenza o, anche, i nuovi valori del
riconoscimento delle identità e del rispetto delle differenze. Occorre
fare di più.
Da qualche anno, anche l’Università Cattolica
di Milano ha avviato un progetto di ricerca sui fondamenti e le
prospettive della convivenza interculturale. Una ricerca a carattere
interdisciplinare, spiega Vincenzo Cesareo12,
che valorizza le competenze della teologia, della filosofia,
dell’antropologia, della sociologia, della storia, delle scienze della
comunicazione e della pedagogia attraverso un confronto costante e un
lavoro comune. Si segnala come frutto di questo progetto la
pubblicazione di una antologia di fonti intitolata Il Magistero della
Chiesa sulla multiculturalità13.
Ma tante altre iniziative sarebbe necessario
segnalare in questa direzione.
Ci limitiamo a richiamare un importante
convegno sull’interculturalità organizzato dall’Università salesiana nel
gennaio 200414,
a dimostrazione dell’impegno accademico del mondo cattolico su tale
prospettiva.
Alcune delle direttrici più importanti le
troviamo esplicitate nel documento Le persone consacrate e la loro
missione nella scuola (novembre 2002) della Congregazione per
l’educazione cattolica, ai numeri 65-67, dove si afferma che ormai gli
istituti di vita consacrata «sono espressione di comunità multiculturali
e internazionali chiamate a “testimoniare il senso della comunione tra i
popoli, le razze e le culture” (...), dove si sperimentano mutua
conoscenza, rispetto, stima, arricchimento (n. 48). Per questo esse sono
agevolmente portate a considerare la differenza culturale come ricchezza
(...). L’itinerario da percorrere nella comunità educativa impone il
passaggio dalla tolleranza della realtà multiculturale all’accoglienza e
alla ricerca di confronto per la mutua comprensione fino al dialogo
interculturale, che porti a riconoscere i valori e i limiti di ogni
cultura» (n. 65).
Nel documento si dice, inoltre, che «nella
vita cristiana l’educazione interculturale si fonda essenzialmente sul
modello relazionale che apre alla responsabilità» (n. 66). Ma ancora di
più: «La prospettiva interculturale comporta un vero cambiamento di
paradigma a livello pedagogico. Si passa dall’integrazione alla ricerca
della convivialità delle differenze. Si tratta di un modello non
semplice né di facile attuazione» (n. 67).
È questa, tuttavia, la via impervia ma
obbligata della testimonianza della fede, oggi, nel mondo che cambia.
Anche il cristiano deve sentirsi impegnato in
questo cammino. Non basta imparare a pensare, a fare, a vivere, a
essere. Occorre anche imparare a cambiare e a rigenerarsi. Non basta più
un semplice cambiamento di mentalità ma occorre, ben diversamente, una
vera mentalità di cambiamento.