n. 6
giugno 2005

 

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Tornare a pensare
di Antonio Nanni *

 

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Ri-evangelizzare la cultura

Nel 2005 ricorrono quarant’anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II (1965) e trent’anni dalla Evangelii Nuntiandi (8 dicembre 1975) di Paolo VI. Tante iniziative sono già state programmate per fare memoria e attualizzazione di entrambe le ricorrenze.

In questa cornice il presente contributo si propone di richiamare l’importanza di riavvicinare la fede alla vita, il Vangelo alla cultura, il kerigma alla storia.

Fondata da Gesù, il primo e il più grande evangelizzatore (E.N., n. 7), la Chiesa è inviata nel mondo per l’evangelizzazione. Essa infatti «nasce dall’azione evangelizzatrice di Gesù e dei Dodici. Ne è il frutto normale, voluto, più immediato e più visibile» (E.N., n. 15). Tutta la Chiesa è missionaria e l’opera evangelizzatrice è un dovere fondamentale del popolo di Dio (E.N., n. 59).

«Evangelizzare, per la Chiesa, è portare la Buona Novella in tutti gli strati dell’umanità, e col suo influsso, trasformare dal di dentro, rendere nuova l’umanità stessa» (E.N., n. 18).

Possiamo allora dire che già nel Concilio veniva prefigurata quella che oggi viene giustamente definita come “svolta missionaria della pastorale”. La fede deve essere annunciata, donata, comunicata. È appunto questo il cammino intrapreso oggi dalla Chiesa in Italia: comunicare il Vangelo in un mondo che cambia.

Non semplicemente “annunciare” ma “comunicare”, nella consapevolezza che si può annunciare senza farsi carico della comprensione e della risposta al messaggio da parte di chi lo riceve, mentre per poterlo comunicare si deve essere attenti responsabilmente al cosiddetto “feedback” (risposta di ritorno) da parte del ricevente. Sulla centralità che viene così ad assumere il verbo “comunicare” possiamo dunque registrare una felice confluenza tra progetto pastorale e progetto culturale, rafforzando il carattere unitario del cammino che la Chiesa italiana sta facendo nel tentativo di rimettere al centro l’importanza della cultura, del pensiero, del linguaggio. In una parola: l’intelligenza della fede. Tuttavia non è affatto scontato che la comunità dei cristiani sia consapevole delle ragioni storiche che hanno indotto i nostri vescovi a scegliere un cammino pastorale così impegnativo, poiché in gran parte si è ancora prigionieri della cosiddetta “trappola dell’illuminismo”, ossia di quella visione dualistica che ancora oggi tiene subordinate le intelligenze dei credenti alle elaborazioni del pensiero laico, nella falsa convinzione che l’uomo con la mente “pensa” e con la fede “crede”. No, il cristiano non deve sottostare a questo inganno, perché egli con la fede “crede e pensa”. Per questo ogni cristiano deve sentirsi impegnato a far pensare la fede, non a limitarsi a credere (al mistero, ai dogmi). E quando la fede pensa – questo è essenziale sottolineare – pensa ciò che la ragione da sola non osa pensare in una prospettiva di autotrascendenza e di speranza. Bisogna dunque ricominciare da qui: «la rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca» (E.N., n. 20).

Noi siamo stati sempre convinti che con la proposta del Progetto culturale i vescovi abbiano offerto una grande opportunità per la rinascita della fede nel nostro Paese. Certamente per alcuni anni il progetto culturale non è stato compreso dallo stesso mondo cattolico, ma da alcuni anni si sta dimostrando sempre di più una scelta provvidenziale, coraggiosa, globale, profetica: un vero kaìros da cogliere e da valorizzare.

Il 3 dicembre 2004, nell’ambito del VI Forum del progetto culturale, a dieci anni da quando il cardinale Ruini ne aveva parlato per la prima volta, i coordinatori del Servizio nazionale per il progetto culturale hanno diffuso materiali informativi in cui si dice che la “rete”, che in questi anni è cresciuta intorno al progetto, può avvalersi oggi di 263 referenti diocesani, di 373 centri culturali, di 250 esperti, di oltre 1200 iniziative diocesane esplicitamente organizzate nel quadro del Progetto culturale. Una rete che ha, allo stato attuale, circa 1500 nodi e si pensa che debba avere sempre più nel sito www.progettoculturale.it, un “motore” e un “terminale” significativo.

 

 

Per evitare la sterilità culturale della fede

 

Con le parole di mons. Giuseppe Betori, Segretario generale della CEI, possiamo dire che ora sia giunto il momento di fare del Progetto culturale «un processo non più élitario, ma popolare, per passare da una questione di addetti ai lavori a un impegno pastorale di tutti».

Da qui l’urgenza che i cristiani si impegnino a “ri-evangelizzare la cultura” partendo dal presupposto che bisogna essere disposti a mettere in discussione le proprie categorie interpretative, nella convinzione che il processo di evangelizzazione della cultura non escluda ma implichi che si cominci da se stessi. La novità della fede cristiana rimane, infatti, troppe volte implicita e passiva, senza tradursi esplicitamente nella forma di un “pensiero” rinnovato e di una “intelligenza credente”.

Oggi come cattolici dobbiamo sentire ed esercitare con forza la nostra responsabilità nel rigenerare i segni e i simboli della fede cristiana all’interno di una società che appare per tanti versi iconoclasta. Sta anche qui la dimensione culturale e “civile” del mondo cattolico. Partendo dai mondi vitali, dalle comunità locali, dalle tradizioni religiose, dai tessuti sociali territoriali, in una parola dal “civile”, ossia dalle relazioni interpersonali e dai legami comunitari e associativi.

Soprattutto adesso che è stato pubblicato il Compendio della dottrina sociale della Chiesa1 è indispensabile fare opera di mediazione culturale per diffonderlo a tutti, per renderlo pensiero popolare, uscendo da ogni elitarismo e tentazione di cultura aristocratica. Oggi, per i cattolici, l’impegno di “tornare a pensare” significa assumersi il compito storico di dare vita a un pensiero profetico che abbia sia la forza della resistenza, sia il coraggio della divergenza e la fantasia dell’immaginazione.

Spesso nella nostra società complessa si ha l’impressione che i cattolici non abbiano né “cammini positivi” né “esempi trainanti” da avanzare, ma soltanto posizioni in contrario da esprimere, come accade in modo particolare nel campo della bioetica. Se non vogliamo condannare la fede all’afasia, o a una sorta di sterilità culturale, bisogna impegnarsi a costruire una nuova ecologia della mente che ci consenta di discernere e di decodificare la realtà sociale.

Dobbiamo, allora, renderci conto, come osserva, su Nuova Umanità, Michele De Beni2, che la nostra cultura sta trascurando l’educazione del pensiero, privilegiando forme tecnicistico-efficientistiche, che da sole non possono garantire lo sviluppo delle capacità di riflessione. In tal modo vengono a mancare, nei nostri programmi di studio, le questioni di significato (sull’amicizia, sull’altruismo, sul bene, sul male, sul dolore o sulla felicità...), che certamente richiedono risposte, anche se non definitive, attraverso quella pluralità di indicazioni di senso che, proprio perché cercate, contribuiscono a dare significato all’esistenza umana3. È ciò che sottolinea anche Gregory Bateson quando annota che, purtroppo, tutte le questioni fondamentali vengono trascurate nella scuola, con il rischio di rendere stupidi gli studenti4.

“Educare a pensare”, quindi, rappresenta il filo conduttore di un itinerario educativo sistematico, pervasivo, aperto a tutti i saperi e ambiti di vita.

Howard Gardner, psicologo e pedagogista americano, sostiene che nelle scuole di tutto il mondo non c’è un’adeguata stimolazione della comprensione profonda della realtà5. Si tende piuttosto ad accontentarsi di prestazioni meccaniche, ritualistiche, convenzionali. Secondo Gardner la “frode involontaria”, che si commette quotidianamente ai danni degli studenti, consiste nel focalizzare l’attenzione più sull’apprendere che sul comprendere. Come se fosse possibile apprendere senza comprendere.

Per poter fecondare la cultura contemporanea il cristiano deve, allora, tornare a “bere al proprio pozzo”, riappropriandosi di un’antica spiritualità in gran parte dimenticata. Deve impegnarsi, poi, a “decolonizzare l’immaginario collettivo”, anche per disintossicarsi dalla forza seduttiva delle narrazioni oggi dominanti. Non si dà intelligenza della fede senza la capacità di attingere alla propria storia. Il cristiano deve recuperare la libertà di pensare profeticamente il futuro in reazione a un presente soporifero e a una sudditanza psicologica nei confronti del pensiero laico e laicista.

È nostra convinzione che sia oggi compito del cristiano educarsi ed educare a un pensiero divergente, non omologato, non allineato, non conformista che possa proporsi come “riserva escatologica” e “luogo di contropotere”. In questo senso all’ideologia del mercato si contrappone la cultura del dono; all’ideologia della guerra (più o meno preventiva) si contrappone la cultura della nonviolenza; all’ideologia dello Stato assistenziale si contrappone la sussidarietà; all’ideologia del razzismo si contrappone la cultura della fratellanza; all’ideologia del consumo sfrenato e dell’usa-e-getta si contrappone la cultura della sobrietà come stile di vita e virtù sociale, ecc. Di tutte queste visioni, tra loro contrapposte, ci limiteremo a richiamarne quattro: la questione antropologica, una visione positiva della laicità, la cultura del dono contro l’ideologia del mercato, la scelta dell’interculturalità nell’attuale pluralismo culturale.

  

La questione antropologica

Nel nostro tempo dominato dalla scienza e dalla tecnica è innanzitutto l’uomo, la dignità umana, ad apparire “sotto assedio”.

Sta infatti imponendosi, ed appare destinata a diventare sempre più acuta e pervasiva, una questione antropologica che tende non tanto a interpretare l’uomo, ma soprattutto a trasformarlo sia sul versante economico e sociale, sia sul versante biologico e psichico.

Non possiamo più sottrarci a questa sfida radicale. La persona umana è, infatti, la frontiera in cui si gioca la sfida del futuro. Il nuovo spartiacque passa tra umano e post-umano6.

Se fino a un recente passato ciò che soprattutto preoccupava la Chiesa era che l’uomo fosse ridotto dalle ideologie totalitarie a una cellula dell’organismo sociale, col rischio di perdere la sua personale dignità e autonomia, oggi possiamo dire invece che l’attenzione della Chiesa si concentra sul pericolo che sotto la spinta della tecnologia l’uomo venga ridotto a semplice particella della natura, in una inaccettabile visione di biocentrismo e di post-umanesimo.

Ciò che appare sottoposto a una profonda mutazione interessa un po’ tutto: i concetti di “vita” e di “morte”, di “naturale” e “artificiale”, di “individuo” e “società”, di “umano” e “non-umano”, di “libertà” e “limite”, di “diritto” e di “etica”... Da qualsiasi parte si voglia esaminare il problema, si giunge sempre a concludere che al cuore delle molteplici questioni sollevate dalla tecnica c’è, comunque, una “questione antropologica”.

 

Una visione positiva della laicità

Dal «date a Cesare quel che è di Cesare» alla Lettera a Diogneto, dall’abate Rosmini al Concilio Vaticano II, i cattolici sono ben consapevoli che il principio di laicità dello Stato è espressione di una grammatica di civiltà cui non si deve assolutamente rinunciare.

La discussione sulle radici cristiane nel preambolo della Costituzione europea, la legge sulla laicità in Francia, il caso Buttiglione, le polemiche intorno ad alcune proposte di legge avanzate da Zapatero in Spagna... per tacere su tanti fatti di cronaca relativi al Crocifisso e al presepe, stanno tutte a dimostrare quanto sia urgente avere una cultura equilibrata della laicità, lontana dall’odierno laicismo rampante. Una cultura che ci consenta di stabilire le regole della convivenza civile, evitando sia lo scontro sui simboli – che sta caratterizzando la nostra come una “società iconoclasta” – sia le due derive inaccettabili del relativismo dei valori e dei nuovi fondamentalismi.

Noi abbiamo una visione positiva della laicità: rifuggiamo da una laicità definita soltanto come assenza, neutralità e svuotamento del fatto religioso.

Nello stesso Compendio, la laicità viene presentata come «un valore acquisito e riconosciuto dalla Chiesa e appartiene al patrimonio di civiltà che è stato raggiunto»7 e si afferma che essa «comporta il rispetto di ogni confessione religiosa da parte dello Stato... In una società pluralista, la laicità è luogo di comunicazione tra le diverse tradizioni spirituali e la nazione»8 e il laicismo ne rappresenta una inaccettabile contraffazione.

Dunque, la laicità prima di ogni altra cosa è uno spazio pubblico di libero confronto, dove tutti hanno diritto di esprimersi, credenti e non credenti, agnostici e atei devoti, ebrei, cristiani e musulmani, seguaci di ogni religione, posizione ideologica e visione della realtà.

Questa concezione aperta della laicità è fondamentale perché consente di non marginalizzare la religione, rendendola invisibile e relegandola nella dimensione privata.

Fondandosi sulla pluralità, la cultura della laicità rifiuta la logica dell’occultamento e della cancellazione delle identità religiose.

Questa nostra visione della laicità come spazio pubblico plurale non accetta, d’altra parte, la riduzione strumentale del cristianesimo a rango di “religione civile”. Anche il cardinale Ruini ha espresso la sua contrarietà a questo “snaturamento” della fede, quando nella sua prolusione al VI Forum del Progetto Culturale (Roma, 3 dicembre 2004) ha affermato che è «essenziale rendersi conto che la fede cristiana può svolgere in maniera efficace e duratura un simile ruolo pubblico solo se non si riduce a un’eredità culturale del passato, ma è attualmente creduta e vissuta dalle persone concrete, nella sua verità e autenticità. Sotto questi profili vanno pertanto prese sul serio le preoccupazioni di strumentalizzazione o snaturamento della fede».

All’uso strumentale della religione cristiana, ridotta a preziosa piattaforma di coesione sociale, preferiamo la gelosa tutela della tensione profetica della nostra fede, nella convinzione che i valori del Regno non sono negoziabili.

 

La cultura del dono contro l’ideologia del mercato

Parlando di anticorpi cognitivi in campo economico, possiamo portare l’esempio del mauss9, il Movimento anti-utilitarista nelle scienze sociali, al quale appartengono studiosi come Alain Caillé, Jacques Godbout, Serge Latouche, che promuove la cultura del “dono” in contrasto con la cultura del “mercato”. Il dono è un gesto unilaterale, asimmetrico, che esprime la gratuità, e in questo modo viene a contraddire la legge del mercato come scambio equivalente. Ciò che il dono genera è una nuova socialità che prima non c’era. In questo contesto è soprattutto importante trovare la forza e le ragioni per smascherare il mercato che è diventato cultura. Giovanni Paolo II, di venerata memoria, nel suo discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali del 27 aprile 2001, espresse con grande lucidità la preoccupazione per cui la popolazione ormai pensa e agisce secondo la logica del mercato.

Infatti, il mercato è diventato una logica, una cultura, un insieme di idee e categorie nella testa della gente e, quindi, il mercato è molto di più che economia, finanza, multinazionali, o altre realtà materiali. Il mercato si è come smaterializzato: è diventato una realtà spirituale che impregna la mentalità della gente. I termini liberismo o neoliberismo non indicano più soltanto una dottrina economica, ma una vera dottrina antropologica! L’uomo è ridotto a homo oeconomicus e il mondo è ridotto a mercato. Ecco perché nella mentalità popolare domina la logica della competitività. Ad esempio, ci stiamo abituando a sentir chiamare l’ospedale con l’espressione “azienda sanitaria”. Ma come si può legare la logica aziendalistica con la sanità? Naturalmente serve un’organizzazione che eviti gli sprechi e che controlli i costi, ma l’ospedale deve avere essenzialmente una dimensione umana, perché ha a che fare con malattia, sofferenza, dolore… non con il mondo del profitto e della contabilità.

Anche la scuola sta conoscendo una fase di aziendalizzazione. Ciò che fino a qualche anno fa veniva chiamato Progetto Educativo d’Istituto (Pei) si è trasformato oggi nel Piano dell’Offerta Formativa (Pof); gli studenti sono diventati clienti (domanda) rispetto alla proposta educativa della scuola (offerta); il preside viene ripensato come manager, il Consiglio d’istituto è diventato Consiglio di amministrazione; la valutazione è diventata una questione di debiti e crediti; si sta introducendo il portfolio delle competenze… Non ne farei una questione di schieramenti politici o di questo o quel Ministro dell’Istruzione, perché il problema è la visione generale, la tendenza a portare la logica del mercato anche nel mondo dell’istruzione, che dovrebbe invece rispondere ad altre logiche.

Insomma, bisogna denunciare il primato dell’economia che ha preso il posto dell’etica e della politica. La realtà viene, infatti, codificata a partire da una mentalità mercantilistica. L’economia diventa la matrice, il serbatoio da cui si attinge per ribattezzare quelle realtà che economiche non sono, come appunto l’ospedale, la scuola e forse, un domani (o è già oggi?), la stessa parrocchia.

 

La scelta dell’intercultura nella società plurale

Nel messaggio del Papa per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato (24 novembre 2004), si ribadisce la scelta per l’integrazione interculturale. Si sollecitano i cristiani a non accontentarsi della semplice tolleranza ma a giungere alla “simpatia”. Dice esplicitamente Giovanni Paolo II: «Si dovrebbe invece promuovere una fecondazione reciproca delle culture. Ciò suppone la conoscenza e l’apertura delle culture tra loro». Per questo, aggiunge, «occorre coniugare il principio del rispetto delle differenze culturali con quello della tutela dei valori comuni irrinunciabili, perché fondati sui diritti umani universali. Scaturisce di qui quel clima di “ragionevolezza civica” che consente una convivenza amichevole e serena». Se è compito dei cristiani vivere nella storia come “sentinelle del mattino” allora spetta ad essi per primi, «scorgere la presenza di Dio nella storia, anche quando tutto sembra ancora avvolto dalle tenebre».

Un maestro dell’interculturalità come Panikkar10 afferma coraggiosamente che: «l’apertura all’interculturalità è veramente sovversiva. Ci destabilizza, contesta convinzioni profondamente radicate che diamo per scontate, perché mai messe in discussione. Ci dice che la nostra visione del mondo, e quindi il nostro stesso mondo, non è l’unico» (...). «Uno dei compiti della filosofia interculturale consiste nel superare questo schema mentale monistico, offrendo una “base” filosofica per una vera convivenza umana più autentica e duratura. Ciò non significa affatto che l’interculturalità sia una panacea universale, ma un’attività e un cammino nella giusta direzione»11.

Un “nuovo principio educativo” per una società interculturale non può limitarsi ad affermare i tradizionali valori della tolleranza e della convivenza o, anche, i nuovi valori del riconoscimento delle identità e del rispetto delle differenze. Occorre fare di più.

Da qualche anno, anche l’Università Cattolica di Milano ha avviato un progetto di ricerca sui fondamenti e le prospettive della convivenza interculturale. Una ricerca a carattere interdisciplinare, spiega Vincenzo Cesareo12, che valorizza le competenze della teologia, della filosofia, dell’antropologia, della sociologia, della storia, delle scienze della comunicazione e della pedagogia attraverso un confronto costante e un lavoro comune. Si segnala come frutto di questo progetto la pubblicazione di una antologia di fonti intitolata Il Magistero della Chiesa sulla multiculturalità13.

Ma tante altre iniziative sarebbe necessario segnalare in questa direzione.

Ci limitiamo a richiamare un importante convegno sull’interculturalità organizzato dall’Università salesiana nel gennaio 200414, a dimostrazione dell’impegno accademico del mondo cattolico su tale prospettiva.

Alcune delle direttrici più importanti le troviamo esplicitate nel documento Le persone consacrate e la loro missione nella scuola (novembre 2002) della Congregazione per l’educazione cattolica, ai numeri 65-67, dove si afferma che ormai gli istituti di vita consacrata «sono espressione di comunità multiculturali e internazionali chiamate a “testimoniare il senso della comunione tra i popoli, le razze e le culture” (...), dove si sperimentano mutua conoscenza, rispetto, stima, arricchimento (n. 48). Per questo esse sono agevolmente portate a considerare la differenza culturale come ricchezza (...). L’itinerario da percorrere nella comunità educativa impone il passaggio dalla tolleranza della realtà multiculturale all’accoglienza e alla ricerca di confronto per la mutua comprensione fino al dialogo interculturale, che porti a riconoscere i valori e i limiti di ogni cultura» (n. 65).

Nel documento si dice, inoltre, che «nella vita cristiana l’educazione interculturale si fonda essenzialmente sul modello relazionale che apre alla responsabilità» (n. 66). Ma ancora di più: «La prospettiva interculturale comporta un vero cambiamento di paradigma a livello pedagogico. Si passa dall’integrazione alla ricerca della convivialità delle differenze. Si tratta di un modello non semplice né di facile attuazione» (n. 67).

È questa, tuttavia, la via impervia ma obbligata della testimonianza della fede, oggi, nel mondo che cambia.

Anche il cristiano deve sentirsi impegnato in questo cammino. Non basta imparare a pensare, a fare, a vivere, a essere. Occorre anche imparare a cambiare e a rigenerarsi. Non basta più un semplice cambiamento di mentalità ma occorre, ben diversamente, una vera mentalità di cambiamento.

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