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Biblista Teologa, Maria
Luisa Rigato è nata nel 1934 a Breslau, in Germania dove ha vissuto fino
al 1945. È la prima studente donna a essere stata immatricolata il 12
ottobre del 1965 nella Facoltà Biblica del Pontificio Istituto Biblico
dell’Urbe, effetto del Concilio Vaticano II. Dal 1996 al 2005 ha fatto
parte del Consiglio di Amministrazione della Società Biblica in Italia
(SBI). Dal 1996 al 2005 ha fatto parte del Consiglio di Amministrazione
della Società Biblica in Italia (SBI). Il 26 giugno 2003 è socia
fondatrice del Coordinamento Teologhe Italiane (CTI). Dal 2001
professore di Nuovo Testamento alla cattedra “Donna e cristianesimo”
annessa alla Pontificia Facoltà Teologica «Marianum», Roma. Dal 2004
professore invitato di Nuovo Testamento alla Pontificia Facoltà
Teologica «Marianum», Roma. Dal 02 dicembre 2004 è coordinatrice degli
Esegeti Romani di Nuovo Testamento stabili e/o di passaggio per
organizzare tre incontri annuali, scegliendo relatori e argomenti da
trattare.
Dal
31 gennaio 2005 è Consulente e membro del “Comitato scientifico per le
Reliquie” della Basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma.
Dal
12 marzo 2007 “Socio onorario” della Società Italiana per la Ricerca
Teologica (SIRT). Dal 31 gennaio 2005 è Consulente e membro del
“Comitato scientifico per le Reliquie” della Basilica di Santa Croce in
Gerusalemme a Roma.
A
lei abbiamo rivolto alcune domande sulle Sacre Scritture.
Quali sfide, sotto il profilo attuativo, pone la Parola di Dio dalla
Dei Verbum alla Verbum Domini?
“La
Verbum Domini vorrebbe ricalcare, nelle intenzioni, la Dei
Verbum. Cosa, per me, assolutamente interessante. È un testo, una
specie di teologia biblica, che si dilunga un po’ troppo in alcuni
passaggi in particolare. Un pregio è che finalmente insiste molto
sull’importanza della Parola di Dio. In ambito cattolico non siamo stati
abituati a prendere in mano e leggere la Bibbia, prerogativa dei
protestanti. Una delle cose più importanti è a mio avviso che i famosi
predicatori non debbono più citare altri documenti se non la Bibbia.
Ossia, fare l’omelia in base ai testi che sono stati letti”.
Come la riflessione esegetica e teologica si riflette e si traduce
nell’azione pastorale ed ecumenica e cosa dovrebbe essere fatto per
rendere scorrevole questo scambio?
“Secondo me sono
necessarie tutte e due le figure. Da una parte, gli esegeti che possano
seguire il loro carisma sia di esegeti che di interpreti. Ma non va
dimenticata la parte pastorale. I pastori cioè dovrebbero masticare la
Parola di Dio spiegata dagli esegeti e renderla appetibile alla gente. E
questo è sempre lo stesso problema. Per chiarire il concetto prendo
spunto da un esempio personale. Se scrivo un libro mi devo documentare,
e se il mio intento è di provare una tesi, devo citare testi per
sostenere quanto affermo. Lo stesso vale in questa circostanza. Quando
un pastore, un predicatore dovesse ripetere un determinato concetto,
deve renderlo assimilabile e comprensibile a tutti. Perché c’è sempre
una specie di iato tra chi studia un testo e chi alla fine è l’ultimo
recettore. Di per sé, un esegeta deve assolutamente conoscere le lingue
originali della Bibbia. Quindi, il greco e l’ebraico. Padroneggiandole
non come l’italiano, ma almeno essendo in grado di ricercare una
determinata parola nell’originale per poi fare un discorso esegetico e
poi lo trasmette. Sono due carismi diversi. Uno è quello della ricerca e
della comprensione del testo. L’altro è il carisma del maestro”.
Dal punto di vista della Rivelazione cristiana, che tipo di sviluppi ci
sono stati negli ultimi anni e come si sono interconnessi con l’esigenza
profonda del rispetto delle tradizioni e della fedeltà alle Scritture?
“Bisogna
distinguere tra scrittura e tradizione. Tempo fa ho inviato al Corriere
della Sera una domanda indirizzata al cardinale Carlo Maria Martini in
cui gli chiedevo cosa intendiamo per viva tradizione perché
spesso si cita questa espressione ad esempio nella Verbum Domini
nel capitolo dedicato agli esegeti. Si tratta di due cose diverse. Io
distinguo chiaramente la tradizione apostolica che finisce con le
Scritture, che noi cattolici accettiamo come canoniche. Mentre altro
discorso è la viva tradizione che non ho capito cosa sia. Ad
esempio, è da considerare viva tradizione nella mia Chiesa
l’insegnamento del disprezzo verso gli ebrei, poi abolito nel Concilio
Ecumenico Vaticano II? Certamente, no. Eppure è stata insegnata per
secoli come tradizione. Per me si dovrebbe partire da qui, cominciando
ad organizzare un convegno sulla viva tradizione cattolica. Perché ci
sono diverse cose che non funzionano, frutto di cattiva esegesi e
cattiva interpretazione. E la cattiva esegesi dipende spesso da una
cattiva traduzione.
Come è avvenuto
nel caso della prima lettera di Giovanni in cui il termine greco ilasmos
è stato tradotto ‘vittima di espiazione per i nostri peccati’.
Traduzione totalmente sbagliata perché significa ‘clemenza per i nostri
peccati’. Cambia completamente il senso. Questo è accaduto perché alle
origini esistevano due categorie di cristologia. Una che era
riconducibile a questo genere espiatorio che ritroviamo in Matteo e in
parte in Paolo. E l’altra giovannea secondo cui Gesù muore per amore.
Certamente Gesù è un agnello sacrificale, ma a seconda delle
interpretazioni diventa agnello sacrificale per il peccato in una certa
visione. In Giovanni diventa l’agnello sacrificale dell’olocausto
quotidiano, cioè una lode totale. E per questo rispondente al vero. Per
struttura mentale sono una ricercatrice e non una commentatrice che
prende i commentari e poi li mette insieme. Di quelle che io chiamo
chicche, me ne sono capitate diverse”.
Come conciliare gli studi biblici con la storia e con i passaggi
storici? E’ giusto che alle sacre Scritture si richieda necessariamente
un continuo adeguamento con la nostra realtà storico-sociale o tutto
questo può essere una forzatura interpretativa?
“A proposito di
tradizione, si può affermare che è viva se io porto il discorso della
Sacra Scrittura ben interpretata e la attualizzo nel mio tempo senza
tradirla. E’ chiaro che ci vuole una preparazione specifica, gli
strumenti giusti, le metodologie. In questo senso, ognuno segue il
metodo che gli è più congeniale. Ma la Sacra Scrittura deve essere
attualizzata. Non si può fare una lettura fondamentalista. Oggi non ci
sono più i sacrifici di animali nel tempio, anche se il libro del
Levitico non è abolito. La sacralità di Dio rimane sempre. Ben vengano,
allora, i vari metodi, ma sempre tenendo presente che si tratta dal
punto di vista del credente della Parola di Dio. Cioè di questo
intervento di Dio nella storia che deve parlare anche a me che vivo nel
ventunesimo secolo”.
Quale può essere l’apporto dei consacrati nella divulgazione delle
Scritture ai fedeli, che tipo di preparazione è loro richiesta?
“Non formulerei la
domanda in questi termini perché anche i consacrati hanno bisogno, a
loro volta, di studiare e di apprendere. Tutti devono essere nutriti
della Parola di Dio. Poi, la persona ha uno speciale rapporto con la
Parola perché ha tempo per farlo in quanto è la sua missione.
Quindi, chi ha il
compito di studiare la Parola di Dio perché ha la possibilità, ha il
dovere di dar da mangiare al suo confratello, sposato o
consacrato che sia. Il termine consacrato non mi piace, preferisco dire
eunuco per il Regno dei Cieli che vale per uomini e per donne. Oppure
anche celibatario per il Regno dei Cieli. Quando Gesù dice che ci sono
eunuchi fattisi da sé per il Regno dei Cieli ed è un carisma, modo
simbolico di parlare in Matteo, a mio avviso vale per uomini e donne
perché è un termine univoco”.
Ci
può raccontare in chiave storico-evolutiva come in particolare il mondo
femminile si è avvicinato allo studio biblico, con quali apporti, con
quali risultati e che tipo di cambiamenti ha portato ciò nell’approccio
esegetico.
“Su questo
argomento ho scritto molto fin dal lontano 1969. Una cosa è certa: forse
i frutti ancora non si vedono. Già il fatto che noi donne abbiamo in
mano gli strumenti della ricerca, è da vedere in chiave positiva. Parlo
a titolo personale perché ho avuto la fortuna di essere accettata al
Pontificio Istituto Biblico nel 1965, per me è un vanto enorme. Oggi
come oggi, a più di quaranta anni dalla conclusione dei lavori del
Concilio Ecumenico Vaticano II, è chiaro che le cose sono cambiate. A
prescindere dal documento sul genio femminile. Persistono nella Chiesa
remore nei confronti delle donne sulla base della tradizione. Per questo
io mi chiedo a quale tradizione ci si riferisce.
Quando ho
partecipato alla conferenza mondiale per la presentazione della
Verbum Domini, ho potuto rivolgere alcune domande nel corso delle
varie sessioni di lavoro. Una di queste era presieduta da monsignor Rino
Fisichella, che stimo molto ed è stato mio collega di studi alla
Gregoriana. La domanda verteva sulla donna e il momento in cui potrà
proclamare il Vangelo durante la messa. Il liturgista di Udine mi
rispose dicendo che ‘siccome la Parola di Dio è considerata sacramento,
allora ci vuole il ministro ordinato’. In sala nessuno applaudì alla
risposta del presidente della sessione.
Come conciliare le sacre Scritture con la ricerca scientifica? Esistono
elementi che favoriscono una conciliazione e una possibilità reciproca
di miglioramento che può avvenire nell’attingere da entrambi i campi?
“Direi di sì. Io
preferisco il metodo storico-critico. E occorre stare molto attenti
perché questo metodo a volte diventa troppo distruttivo e positivista.
Il Papa approva il metodo storico-critico, ma si scaglia contro le
esasperazioni. Ed in questo ha perfettamente ragione. Oggi c’è questa
novità del metodo narrativo-retorico in cui non ti interessa la storia
ma il testo in quanto tale. Per me non è condivisibile perché occorre
partire dal discorso storico e a studiare in che contesto è nato il
testo sotto esame. Soprattutto per noi donne, questo è molto importante.
Il metodo scientifico, qualunque esso sia, è compatibile con le
Scritture. In ogni caso, ogni biblista dovrebbe avere scritto a
caratteri cubitali la frase di Luca quando Gesù parlò delle Scritture a
due discepoli, di cui uno a mio avviso era una donna, partendo da sé
stesso. È questo che va fatto: scrutare le Scritture alla luce di Gesù
Cristo. La Parola cresce con chi la legge nella misura in cui viene
letta. Ma prima di affrontare un testo, occorre pregare. Lo dice anche
la Verbum Domini, la Scrittura va interpretata con lo stesso spirito con
cui è stata scritta. Lo Spirito Santo è fondamentale
nell’interpretazione dei testi. Non di rado capita che per scrivere una
frase occorre almeno una giornata di studio”.
Lei è stata la prima donna laica a laurearsi presso il Pontificio
Istituto Biblico della Gregoriana. Tra le prime a fare da apripista ad
un elenco purtroppo non lungo di figure femminili che hanno saputo
conquistarsi un posto di primo piano nella Chiesa e che annovera, tra le
altre, la monaca agostiniana, madre Maria Rita Piccione, preside della
federazione della sua congregazione religiosa, incaricata dal Papa di
redigere il testo delle meditazioni per la via crucis di quest’anno. È
cambiato qualcosa in concreto nella Chiesa per le donne, sia laiche che
consacrate? Il genio femminile rimane ancora pura utopia?
“A mio avviso ci
sono dei progressi, anche per quanto riguarda le religiose. A cominciare
dal velo. L’ho chiesto tante volte: cosa rappresenta il velo? Qualcuna
mi ha risposto la verginità. Secondo me non è vero. E anche una
questione di testimonianza. È anche una questione di libertà. Come disse
S. Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, devono
camminare per le strade del mondo con l’abito dignitoso del momento, con
sobrietà ed eleganza. Tutto questo dipende da una cattiva esegesi. In
particolare, da una errata interpretazione di Paolo al quale si
attribuisce l’obbligo del velo per le donne. Non c’è questo velo e su
questo ho scritto in abbondanza perché Paolo parla della donna che deve
autorità sul capo. Autorità non nel senso che qualcuno gliela mette, ma
è lei che ne dispone per via degli angeli. La mia esegesi della prima
lettera ai Corinzi ha come nocciolo l’allusione agli angeli della
resurrezione. Le donne hanno acquistato potere sul capo, nel senso di
autorevolezza sull’uomo. E Cristo che è il capo dell’uomo è l’immagine
di Dio. Non il maschio”.
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