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E’
il tema della comunicazione il filo rosso dei lavori dell’ultima
assemblea generale del sinodo dei vescovi che si è svolto in Vaticano
dal 7 al 28 ottobre scorso. Un tema non più eludibile che abbiamo
affrontato con un esperto d’eccezione: don Paolo Padrini al quale
abbiamo rivolto alcune domande.
Don Paolo Padrini, 38
anni di Novi Ligure (AL), è tra i più noti giornalisti e comunicatori
web: tra i suoi progetti è famosa in tutto il mondo l’applicazione
iBreviary, per la piattaforma iPhone e iPad, che porta la preghiera
cattolica del Breviario per la prima volta al mondo ed in cinque lingue.
Collaboratore del Vaticano (PCCS) per il progetto Pope2You (il Papa per
i giovani), don Padrini dal 2010 opera con la Custodia di Terra Santa per coordinare il progetto dei siti Internet. Dal 2007
collabora con il gruppo “Blogosfere”, il più importante network di
blogger di informazione italiano, curando il blog “Passi Nel Deserto” e
realizzando una intesta attività pubblicistica, attenta ai temi della
comunicazione, dell’educazione, della società e naturalmente ai temi
religiosi letti in un’ottica di dialogo aperto al mondo laico.
Nel 2010, don Padrini
ha fondato il teamwork Mediacath (www.mediacath.org)
per offrire comunicazione ecclesiale e sociale e consulenza e
progettazione di applicazioni editoriali per iPad ed iPhone. Mediacath
ha servito San Paolo Digital, edizioni Tracce, ed. Papillon, il
Cinematografo (Rivista dell’Ente dello Spettacolo). Don Padrini svolge
opera di formazione sui temi della comunicazione web e nuovi media con
scuole cattoliche e pubbliche e aziende, tenendo e coordinando corsi con
la CEI-Conferenza Episcopale Italiana, ed in particolare con l’Ufficio Comunicazioni Sociali.
Lei si
è diplomato alla Pontificia Università Lateranense con una tesi sulle
chat “luogo e tempo della comunicazione e dell’incontro”. A suo avviso è
davvero possibile parlare di messaggio cristiano e di evangelizzazione
anche nelle chat? Ci racconta attraverso la sua concreta esperienza come
può avvenire?
“A mio avviso è bene partire da un presupposto: ogni
strumento definisce dei filtri e può diventare un muro o una finestra
nella nostra comunicazione con il prossimo. Conoscendo i trucchi e il
funzionamento degli strumenti che si utilizzano, occorre tenere sempre
presente che dall’altra parte c’è comunque e sempre una persona con la
quale io debbo entrare in contatto. Dovrò però essere consapevole che
con la persona non mi debbo limitare i miei rapporti all’uso di
internet, ma interfacciarmi anche attraverso chat e/o social network
ormai sono parte integrante con gli strumenti delle chat come face book.
Chiaramente deve essere un contatto gestito con serietà, con
responsabilità, ricercando ulteriori spazi di approfondimento, passando
da una chat ad un rapporto epistolare tramite e-mail, per poi magari
passare ad un confronto viso a viso, se le possibilità lo consentono.
Per mia esperienza, è capitato di avvicinare persone che avevano bisogno
di direzione spirituale, e di approcciarle all’inizio attraverso una
conoscenza avvenuta in chat. Non mi sono però limitato a questo mezzo.
Anzi. Per un sostegno spirituale sono passato da un contatto tramite
chat, per i primi saluti. Il fatto che una persona trovi un prete che
dall’altra parte ti sa ascoltare anche solo per pochi minuti, ti dedica
un po’ del suo tempo in segno di risposta, aiuta. Poi, certo, bisogna
fare in modo che attraverso quella porta che si è aperta, passi un
dialogo profondo, che non può per sua stessa natura, trovare in una chat
line un luogo adeguato di confronto”.
La sua
è stata definita un’intensa attività pastorale a vocazione digitale.
Quali caratteristiche deve avere un’attività pastorale su internet? E
sugli strumenti come ipad quali accorgimenti deve usare per “bucare il
mezzo” ed avere l’attenzione di chi naviga?
“Se mi si permette il gioco di parole l’importante è, per
essere pastori su internet, di ricordarsi…di essere pastori. Internet è
un luogo abitato da tanti a cominciare da me. Se io che sono sacerdote,
mi pongo in un atteggiamento pastorale tale da far veicolare l’incontro
non con me, ma attraverso la mia persona con Gesù che sta ad ascoltare,
che accoglie, che risponde, che non giudica, ma che converte e cambia i
cuori, allora è naturale che questo strumento può assumere la dimensione
di un luogo di incontro pastorale. Se cioè mi metto in atteggiamento
pastorale, allora si crea l’incontro pastoralità. La pastoralità dello
strumento è data dal livello di pastoralità con cui mi pongo nel momento
dell’incontro. Questo però senza dimenticare che ci sono strumenti che
possono arrivare a certi risultati e non ad altri. Ma, per fortuna, non
abbiamo un solo strumento con cui lavorare, ma ne abbiamo molti. Ragion
per cui, all’interno di una certa dieta mediatica varia è possibile
essere dei buoni pastori utilizzando anche questi mezzi. Siamo pastori
dentro, quindi dobbiamo vivere intensamente e nella verità su noi
stessi, come pastori della Chiesa anche nell’ambito di internet.
Quanto alla seconda
domanda, dobbiamo imparare a conoscere tutti gli strumenti. Ogni
strumento ha il suo linguaggio. Un ipad ha il suo, mi comunica delle
cose, modifica la mia percezione nei confronti della realtà e delle cose
che la abitano. La prima cosa da fare, dunque, è conoscere lo strumento.
Se lo conosciamo, riusciamo a bucarlo. Io uso un’altra espressione:
modellarlo, cambiarlo, modificarlo. Gli strumenti sono potenti, certo.
Ma si possono modellare ai nostri interessi e alle nostre esigenze
pastorali. Uno strumento come l’ipad, ad esempio, può essere molto utile
e capace di trasmettermi l’idea che è importante pregare e leggere le
Sacre Scritture. E’ chiaro che non lo utilizzerò durante le celebrazioni
eucaristiche, perché l’ipad ha una comunicazione e un linguaggio che non
è adatto per un uso liturgico perché un messale ha un altro tipo di
linguaggio perché è uno strumento di altro tipo”.
Come organizzare un concerto in parrocchia? Come muoversi tra blog e
social network? Per rispondere a queste e ad altre domande su questi
argomenti, numerose diocesi si sono attivate per proporre corsi di
formazione per coloro che nelle parrocchie s’interessano degli aspetti
relativi alla comunicazione. A suo avviso, le diocesi hanno compreso
appieno il ruolo di questi mezzi? E al sinodo appena concluso è stato un
aspetto che ha davvero avuto risalto?
“Sappiamo che le nostre diocesi, attraverso il sistema
informativo in dotazione alla Cei, hanno sviluppato grosse potenzialità
e hanno fatto grossi passi in avanti dal punto di vista della
valorizzazione degli strumenti. Se non altro perché hanno compreso che è
giusto dotarsi di questi strumenti da utilizzare con intelligenza. Ben
vengano allora i corsi di formazione e le attività legate alla
conoscenza dei mezzi da avviare costantemente, a mio avviso molto
importanti e altrettanto utili.
Per quanto riguarda il Sinodo, certamente già il fatto che
sia stato impostato sulla nuova evangelizzazione, ha dato un tono
comunicativo a prescindere dal discorso sul dato tecnico che sarebbe
stato fuori contesto all’interno di un Sinodo. Devo dire che ci sono
stati diversi interventi interessanti dal mio punto di vista, come
quello di monsignor Celli, il presidente del Pontificio Consiglio delle
Comunicazioni sociali, che si è soffermato sul tema dei linguaggi e dei
nuovi strumenti di comunicazione e sulla necessità per
la Chiesa di far
diventare questi mezzi dei luoghi abitati nei quali poter incontrare le
domande dell’uomo di oggi”.
Come conciliare strumenti così sofisticati con una comunità religiosa,
composta da uomini e donne consacrati comprese gli appartenenti agli
ordini contemplativi, che tende sempre più ad invecchiare e
conseguentemente poco avvezza a certe frequentazioni con ipad,
smartphones e pc? Come possono i religiosi e le religiose essere al
passo con i tempi in questo ambito?
“Direi soprattutto tenendo presenti alcuni elementi. Primo,
per i religiosi esiste una dimensione che è quella della regola di vita.
All’interno di questa dinamica, può trovare spazio per un uso sano,
l’utilizzo di questi strumenti. Quindi, occorre gestire questi mezzi
all’interno della regola della propria comunità. Secondo, direi
un’attenzione molto particolare: stare attenti a proporre un utilizzo di
questi strumenti anche in modo sereno senza spingere troppo. Perché c’è
il rischio che questi strumenti vengano considerati dei luoghi di
alterità rispetto alla comunità religiosa. Quasi di fuga, per creare
delle relazioni esterne, portandoci a pensare che la nostra è una
relazione limitante che non ci soddisfa. Questo sarebbe deprimente per
la nostra condizione. Io sono un diocesano ma ho vissuto in seminario.
Quindi, ho fatto una esperienza di comunitò. Credo che una delle cose
più deleterie sarebbe quella di utilizzare questi strumenti come luoghi
di ultra comunità, nel senso di ulteriore rispetto a quella di nostra
appartenenza. Possono invece diventare luoghi di evangelizzazione, di
incontro. Ma secondo me sempre, moderati all’interno di una vita
comunitaria. Non è dissimile dal discorso che si fa nell’ambito delle
famiglie. L’importante è parlare di questi strumenti in casa tra
genitori e figli. L’importante è farli entrare questi strumenti appieno
nelle dinamiche familiari. Credo che il modo giusto per i religiosi e le
religiose è di far entrare questi strumenti con la giusta attenzione e
il giusto rispetto per l’età, per le difficoltà e le sensibilità di
ognuno. Ma piano piano e con un uso intelligente. Studiandoli. E
ponendosi l’interrogativo: cosa posso fare con questi strumenti
concretamente nella vita religiosa? Cosa sarebbe invece dannoso?”
Dai
lavori del Sinodo è emerso chiaramente che la sfida decisiva si gioca
sul piano della comunicazione. Ne ha parlato anche il primate della
chiesa ortodossa finlandese, l’arcivescovo Leo di Karelia, secondo cui
“l’evangelizzazione non parte dalla predicazione, ma dall’ascolto”
indicando nel silenzio “la via migliore per essere davvero interlocutori
in un dialogo con il mondo”. Condivide questa affermazione? E come si
può conciliare o meglio adattare alle autostrade informatiche?
“Credo che si adatti nel momento in cui si concepisce il
silenzio come un momento di ascolto. L’ascolto è una dimensione
fondamentale e credo che l’utilizzo di questi strumenti sia un veicolo
capace di grande ascolto per intercettare gli aneliti e le speranze, le
gioie e le sofferenze del nostro mondo. Da questo punto di vista, quello
che è da ricercare è un utilizzo riflessivo di questi strumenti, un
utilizzo attento nel solco dell’ascolto e del silenzio, nel senso dello
spazio che lascio spazio all’altro e alle sue idee, per entrare in
relazione anche in vista di una conversione, opera di tutta la comunità
cristiana. Ci troviamo tutti nella condizione di persone convertite
dall’ascolto della Parola di Gesù. Questo ascolto del mondo è una
dimensione importante, direi fondamentale, anche alla luce
dell’insegnamento conciliare di cui celebriamo il cinquantesimo
anniversario dall’avvio dei lavori”.
Lei ha
fondato AdEthic, una rete pubblicitaria su base etica a disposizione del
mondo cattolico e laico. Alla luce della considerazione che anche la
pubblicità è parte integrante della comunicazione, come è nato questo
progetto e su quali presupposti si fonda?
“Il progetto è nato dalla considerazione che i nostri siti
cattolici hanno l’esigenza di vivere e di sostenersi grazie alla
pubblicità, che è una fonte di sostentamento per tutti i siti sia laici
che cattolici. È nato dalla considerazione che la pubblicità non è una
cosa sporca di per sé, ma che dobbiamo imparare a gestire anche per noi
stessi. Diciamo però con una prospettiva pastorale di intervento su
questo strumento. Quindi, si è voluto far diventare il momento della
pubblicità come un momento che abbia un valore di tipo etico. Pertanto,
ci proponiamo di offrire una pubblicità coerente con i nostri valori,
che proponga valori importanti e non altri. A cui aggiungere il fatto
che il ricavato della pubblicità prodotta venga destinato al sostegno di
iniziative di carità e di solidarietà. In qualche modo, si testimonia
che è possibile attraverso un lavoro aziendale fare del bene per gli
altri, produrre ricchezza da ripartire, e in definitiva fare opere del
bene da distribuire a tutta la società”.
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