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Disoccupazione, precariato, lavoro nero: è sempre più emergenza
occupazione in Italia. Accanto ad un tasso di disoccupazione in salita e
un mercato del lavoro fin troppo ingessato, c’è da registrare una
progressiva perdita di senso dell’occupazione in quanto tale. Una
condizione aggravata dalla rassegnazione di quasi due milioni di giovani
che nel nostro Paese ormai il lavoro neanche lo cercano più. Alla luce
di questa situazione, c’è da riconsiderare certamente la formazione al
lavoro, questione oggi non più eludibile. E la prova che il tema
occupazione è ormai ‘il problema dei problemi” sta anche nel recente
rapporto, elaborato dalla Conferenza Episcopale Italiana e presentato a
Roma, che offre alcune linee di fondo per orientare l’azione politica
nella direzione di una nuova cultura del lavoro. Ne abbiamo parlato con
suor Alessandra Smerilli,
Figlia
di Maria Ausiliatrice: insegna Economia politica presso la Pontificia
Facoltà di Scienze dell'Educazione Auxilium ed Economia
della cooperazione presso l’Università Cattolica di Roma, e neo
segretario del Comitato Scientifico ed Organizzatore delle Settimane
Sociali dei cattolici italiani di cui è membro dal 2007.
Come superare a suo avviso il grande divario tra studio e
attività lavorativa? Soprattutto alla luce della constatazione che
l’università non predispone o forgia il talento per l’occupazione? E che
cosa può fare la Chiesa in questo difficile momento per i giovani in
cerca di un lavoro che non c’è?
“Come in tutti i momenti difficili della storia, vedremo una nuova alba,
una nuova sintesi, che ancora non c’è. Credo che sia molto importante
lavorare per una scuola che risponda di più alle esigenze dell’oggi, che
sappia mettere insieme la formazione intellettuale e il senso del
lavoro, l’esperienza lavorativa e la responsabilità. I carismi sono
fonte di grandi innovazioni nella storia. Se pensiamo alle nostre scuole
dobbiamo chiederci: sono esperienze innovative? Sono diverse da altre
scuole? Hanno un di più per la formazione dei giovani? Se non proponiamo
noi esperienze innovative, da chi dobbiamo aspettarle?”.
Papa Francesco ha più volte invitato i giovani a vivere
l’esistenza seguendo i grandi ideali. C’è una ricetta per aiutare un
ragazzo nel delicato momento in cui si confronta con il mondo del lavoro
e quindi con la sua identità, nel rispetto dei grandi ideali richiamati
dal Santo Padre?
“Ricette in questo campo non ce ne sono. Certo, i giovani vanno
accompagnati nelle fasi delicate della vita, quando si deve decidere in
che cosa specializzarsi, se andare all’estero per un master, se
rimanervi. Soprattutto vanno aiutati a tenere vivi gli ideali, pur nella
concretezza delle situazioni, che a volte chiedono di adattarsi a lavori
non scelti, non sognati. La Chiesa, come già fa del resto, può aiutare a
distinguere tra il posto di lavoro e il senso del lavoro. Ricordando la
sua esperienza del lager, Primo Levi così scriveva: “Ma ad Auschwitz ho
notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del ‘lavoro ben fatto’ è
talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto,
schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita, portandomi
cibo di nascosto per sei mesi, detestava i nazisti, il loro cibo, la
loro lingua, la loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li
faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità” (Levi 1997,
p. 85). Far bene il nostro lavoro, anche quando non ci piace, non ci
riconosciamo in esso, dice la nostra dignità, dice che siamo qualcosa di
più grande e di eccedente rispetto a quello che stiamo facendo”.
Come possono i religiosi e le religiose aiutare i giovani a
vivere questo difficile momento economico come opportunità?
“Innanzitutto i giovani hanno molte
più risorse di quello che noi normalmente pensiamo. Si stanno adattando
molto bene alla situazione e lo fanno con grande creatività. Noi, come
religiosi e religiose, dovremmo avere uno sguardo più positivo sui
giovani e sulle loro potenzialità. In secondo luogo, in una società che
non lascia spazio ai giovani, soprattutto per incarichi di
responsabilità, noi dovremmo invece scommettere su di loro, partire
dalle loro idee, aiutarli a realizzarle. Infine, credo che questo
momento storico ci chiami ad una maggiore condivisione con le ansie dei
giovani e con i problemi del lavoro: non possiamo vivere come normalità
il fatto che mentre nella maggioranza delle nostre comunità il tenore di
vita è sempre uguale (e vitto e alloggio sono per noi assicurati), i
giovani non riescono a costruire un futuro perché costretti a vivere da
precari, o a emigrare… Le nostre comunità possono fare molto nella via
della condivisione. Immagino immobili o parti di essi messi a
disposizione per cooperative di giovani, fondi per microcredito a favore
dei giovani, percorsi di imprenditorialità. Possiamo fare tanto, se
accogliamo l’invito di Papa Francesco ad uscire fuori, verso le
periferie esistenziali”.
Sono tante le facce della medaglia: chi ha una occupazione a
tempo pieno ed indeterminato spesso non riesce a conciliare i tempi del
lavoro con quelli della propria famiglia. Sono tante in questo senso le
donne costrette a rinunciare all’impiego specie quando hanno figli
piccoli. Come contrastare questo fenomeno delle donne che escono dal
mercato del lavoro?
“Il fenomeno è principalmente culturale, ancor prima che economico (in
particolare per le aziende). Innanzitutto il tema della conciliazione
famiglia-lavoro non è un tema solo femminile, ma della famiglia e del
lavoro. Non va visto solo dalla parte della famiglia, ma anche del
lavoro che deve essere a misura di famiglia: tutti ne beneficerebbero,
anche le imprese. E non è un tema legato alla cura dell’infanzia, ma si
estende a tutto l’arco della vita. Vanno ripensati i tempi e i modi del
lavoro, e molti studi dimostrano che nelle aziende più attente ai ritmi
della famiglia, le cose funzionano meglio e i lavoratori sono più
concentrati, perché hanno meno preoccupazioni”.
Un altro aspetto da non trascurare è quello della diversità
salariale tra uomo e donna nella nostra società. Come affrontare e
superare questa situazione?
“Anche qui, il tema è culturale: il gap salariale non è legato né alla
differenza di produttività del lavoro, né alla qualità del lavoro.
Esistono diverse spiegazioni per questo fatto. Ne cito solo due. La
prima è legata alla differenza di comportamento tra uomini e donne
rispetto all’incentivazione. Esperimenti ed evidenza empirica dimostrano
che mediamente le donne, per cultura o per natura, si impegnano di più e
sono più costanti nel lavoro, ma in presenza di incentivi esterni,
sempre in media, gli uomini aumentano la loro produttività. ‘Le donne
non chiedono’ è il titolo di un libro edito da Sole 24 ore:
dai dati a disposizione sembrerebbe che gli uomini rispondono di più
agli incentivi, a forme di pagamento più legate alla produttività,
mentre le donne a volte di fronte agli incentivi individuali si
bloccano, è come se non volessero entrare in competizione: credo che
anche per questo che le forme di pagamento e i livelli salariali
assumono nel tempo un andamento diverso per uomini e donne.
La seconda spiegazione è
legata al tema della gratuità: alla donna è stata sempre attribuita la
caratteristica di vivere in maniera preminente la gratuità, nella cura,
nella famiglia, e anche nel lavoro. Ma una malintesa associazione tra
gratuito e gratis, ha portato a non valutare il lavoro della donna,
soprattutto quello che non passa per il mercato. La non giusta
contrapposizione tra gratuito, inteso come gratis, e remunerazione
monetaria, ha portato a tante forme di sfruttamento del lavoro della
donna, e soprattutto della suora. E’ come se la donna alcune cose debba
farle per vocazione e quindi non si ritiene necessaria la giusta
remunerazione. C’è bisogno di una maggiore consapevolezza su questi
temi, e le prime che devono convincersi che si può lavorare con gratuità
senza lavorare gratis, siamo innanzitutto noi donne”.
Si è parlato spesso di ‘genio femminile’ nel dibattito
all’interno della Chiesa. Ma c’è uno specifico femminile che può offrire
un valido contributo alla società di oggi e mitigarne la tendenza
all’individualismo, di cui il mondo del lavoro ha bisogno sia esso nelle
grandi multinazionali come pure all’interno delle grandi organizzazioni
che fanno capo alla Chiesa?
“Credo che non abbiamo ancora esplorato le potenzialità femminili
nell’economia e in generale nelle organizzazioni. Anche perché fino a
oggi ci sono state poche occasioni per le donne di assumere ruoli di
responsabilità. La parola economia viene dal greco “oikos-nomos”, che
vuol dire gestione della casa: sono convinta che l’economia non si
rinnoverà se non si incontrerà di nuovo con il femminile e con il suo
genio. Il femminile porta con sé alcuni primati. Innanzitutto il primato
della vita sulla legge, come ci dimostrano la tragedia di Antigone, che
muore perché disobbedisce al Re, che le vietava di onorare degnamente il
fratello morto; come ci dimostrano le levatrici egiziane che
disobbediscono ai comandi del faraone; come ci dimostra Maria nella
fierezza del Magnificat, e nell’episodio delle nozze di Cana.
Il femminile porta anche il primato della prassi sulla teoria. Infine
alla donna è stata da sempre riconosciuta la caratteristica di vivere i
rapporti umani non solo strumentalmente, ma come fine in sé. E oggi, in
un momento in cui la domanda di beni relazionali (che da qualche anno
sono riconosciuti come beni economici) è in crescita, l’offerta di tali
beni, in famiglia, nei luoghi di lavoro, nel mercato, è profondamente
legata anche alla donna, e al suo ‘genio’.
Per quanto riguarda la
Chiesa, un’affermazione importante è stata fatta dal teologo Balthasar,
il quale vede la vita della Chiesa come dialettica tra due principi, il
principio Petrino, legato alla dimensione oggettiva, istituzionale e
gerarchica, e il principio Mariano, o carismatico, legato alla
dimensione orizzontale e fraterna. Balthasar, dopo aver legato il
principio mariano al femminile, sostiene che senza di esso: ‘La Chiesa
diventa funzionalistica, senz’anima, una fabbrica febbrile incapace di
sosta, dispersa in rumorosi progetti…mentre la gente si allontana in
massa da una Chiesa di questo genere’”.
Il rapporto Cei sul tema occupazione appena diffuso è anche una
proposta per una nuova cultura del lavoro. Come costruirla, a partire da
dove?
“Il rapporto del progetto culturale della Chiesa italiana sulla
situazione del lavoro in Italia rappresenta un ottimo testo, anche per
le proposte che contiene, oltre che per la lucida analisi dei problemi
del lavoro e delle trasformazioni in atto. Tra le sue proposte quella di
liberare il mercato del lavoro e rinnovare la cultura del lavoro. Si
propone da una parte di rivalutare l'importanza del senso del lavoro,
del lavoro fatto a regola d'arte come uno dei tratti distintivi del
lavoro italiano, soprattutto quello artigiano, dall'altra di rivedere
alcune categorie, come quella di produttività, ad esempio, come concetto
multidimensionale e non solo qualitativo. Il rapporto sottolinea
l'importanza della valorizzazione delle potenzialità femminili per
aiutare a cambiare gli ambienti di lavoro e quindi per rendere il lavoro
più umano. Infine, l'arte del lavoro ben fatto, andrebbe insegnata anche
a scuola, portando il lavoro nella scuola e più scuola, più cultura,
negli ambienti di lavoro. Adriano Olivetti, grande imprenditore
italiano, aveva una biblioteca nelle sue fabbriche, e il tempo passato
dai dipendenti in biblioteca era considerato 'lavoro' a tutti gli
effetti. I monaci benedettini, studiavano e andavano a lavorare i campi:
da questo connubio tra lavoro intellettuale e lavoro manuale nascevano
le innovazioni. Credo che dobbiamo tornare a questa sintesi, se vogliamo
che il lavoro oggi non sia vissuto come un incubo dai giovani (tra
l'esperienza di precarietà e il non trovare il senso di quello che si
fa)”.
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