n. 3
marzo 2004

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Vivere da persone salvate:
per grazia, per "volontà"
di Lilia Sebastiani
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Lo ripetiamo ogni giorno, nel Gloria, con quel
consuetudinarismo liturgico che in parte assopisce un po’ la nostra
riflessione, in parte ribadisce dentro di noi certe idee, in modo
irriflesso e perciò più potente: "Pace agli uomini di buona volontà"! Ci
sembra un caso quasi emblematico di "lieto annuncio" sfigurato e
banalizzato in senso volontaristico, e come tale recepito volentieri
dalla mentalità cristiana corrente, anche se all’origine vi è l’antica
traduzione della Vulgata (benemerita, ma sbagliata e infelice in questo
caso e in qualche altro), hominibus bonae voluntatis.
Da qualche tempo, lo sappiamo bene, la traduzione del
testo evangelico è cambiata, ma la forma tradizionale è rimasta nel
nostro orecchio, nelle abitudini mentali, negli effetti. Ed è
pericolosissima, implicando l’idea che il dono di Dio (espresso in
sintesi con la parola "pace", che biblicamente esprime l’intera
situazione umana ordinata e finalizzata secondo il progetto di Dio; ma
potremmo anche dire la sperimentabilità della salvezza) sia riservato a
quelle persone che hanno, che dimostrano buona volontà. Un po’ come
dire: pace a quelli che la meritano. Ma se così fosse, potremmo ancora
parlare di dono? Elargire una cosa a certe condizioni, se il
beneficiario l’ha "meritata" attraverso un certo agire prestabilito, non
si chiama dono per noi, ma contratto.
La parola ambigua del testo greco è eudokìa,
che in effetti significa "buona disposizione", "buon volere", "volere il
bene", quindi anche voler bene, insomma amare, e ha per soggetto
iniziale Dio e non gli esseri umani. E’ per questo che oggi si
preferisce tradurre: "pace agli uomini che Dio ama". E certo non
possiamo pensare che ce ne sia qualcuno che Dio non ama.
Volontà, volontarismo, "buona volontà"
In latino la parola "volontà" (voluntas)
presenta una evidente parentela con la parola "piacere" (voluptas),
e a unire i due termini è il verbo volo, cioè "volere", e l’idea
connessa: la tensione intima – non della sfera razionale soltanto –
verso qualcosa che è amato e ricercato perché ritenuto buono, bello,
desiderabile.
La volontà non è costrizione, non è conformismo, non
è paura, non è bisogno di sottomissione. La volontà vera è piuttosto
slancio di amore, forza vitale, e molti equivoci sono nati sulla "buona
volontà". Non si intende né disprezzarla né sottovalutarla quando è
"buona", ma troppo a lungo è stata confusa, secondo i contesti, con il
volontarismo, con l’ostinazione, con la prepotenza; troppo a lungo, in
contesti più ascetici, è stata intesa come un virtuoso, meritorio darsi
da fare, cercando eroicamente di capovolgere i propri impulsi e
desideri, giungendo se possibile ad annientarli, a dimenticarli: mèta
sublime, invidiabile record!
Preferiamo intendere la buona volontà, in un senso
peraltro semplicissimo, come "volere il bene". Ovvero, riprendendo un
concetto diffuso nella teologia morale degli anni Settanta e oggi
piuttosto accantonato, come un’opzione fondamentale positiva. Così
inteso, volere il bene non è qualcosa di generico, benintenzionato,
indolore, ma comporta un incessante discernimento della coscienza e
l’assunzione di responsabilità nella logica del Regno.
Evangelo significa lieto annuncio, e una lista di
obblighi, inevitabilmente una lettura rigoristica e pessimistica del
proprio essere e delle proprie inclinazioni, del proprio bisogno di
felicità e di pienezza, è difficile da leggersi come accoglienza e
risposta a un "lieto annuncio".
Il cammino di santità presuppone una riconciliazione
con il proprio essere tutto intero; compresi perciò i desideri, i
bisogni, gli impulsi e anche i lati di cui non possiamo sentirci fieri.
Un’accettazione di sé non paga e narcisistica, certo, né
immobilistica/rassegnata, ma dinamica e dialogica, è anche il
presupposto di una sana umiltà.
Gesù chiede tutto
Quando Gesù dice "Seguimi" a qualcuno, la sua
chiamata suona come una promessa di felicità, di autenticità, di vita
più piena – anche se si sa in partenza che per certi aspetti non sarà un
cammino facile, – non come un invito a sacrificarsi. Non risulta che
qualcuno abbia attraversato crisi interiori per questo. E’ semmai il
cambiamento di prospettiva, il fatto di mettersi a ragionare secondo Dio
e non secondo gli uomini, a costare al discepolo fatica e insuccessi.
Gesù chiama di propria iniziativa, e a tutti i suoi
discepoli chiede una risposta "totale"; ma la totalità che chiede non è
qualcosa di oggettivo, quantificabile, bensì una realtà radicata
nell’unicità della persona (la totalità di uno non è la totalità di un
altro) e in continuo divenire.
Contrariamente a quanto avviene attraverso i secoli
nella comunità che intende richiamarsi al suo nome e al suo esempio,
Gesù non esorta mai alla buona volontà in senso "volontaristico";
dinanzi alle tante situazioni di sofferenza fisica e psichica che lo
interpellano, non esorta mai a sopportare eroicamente, a soffrire per
offrire. Egli stesso non ricerca mai la sofferenza per amore di
sofferenza.
Ricorda ai discepoli che l’altro versante dell’amore
di Dio, il versante inseparabile, è amare il prossimo come se stessi.
Non dice "più di se stessi", eppure la tradizione cristiana ha creduto
di doverlo intendere in questo modo. E’ molto presente nel
cristianesimo, soprattutto in certe epoche, una vaga aspirazione,
probabilmente inconsapevole, a fare meglio di Gesù. Ci sono stati dei
santi che cercavano e/o credevano di amare gli altri in modo eroico, che
perlomeno si assoggettavano a sacrifici inauditi per gli altri, e non
amavano se stessi, anzi quasi si detestavano. Oggi sentiamo che
difficilmente può avere amore per gli altri chi non ne ha per se stesso;
chi non sa perdonarsi nulla, perdona gli altri solo in apparenza.
Non innalziamo troppe croci
Soffrire "per amore di Dio", ovvero perché si
ama Dio? Potrà essere ammirevole come esempio di stoicismo, ma al di là
dell’ammirazione d’obbligo per un nobile esempio umano, siamo certi che
una tale idea di Dio si possa condividere? Soffrire per amore di Dio non
presuppone forse un Dio che si compiace della sofferenza delle sue
creature, che è geloso della loro felicità? Più spirituale sembra l’idea
(quasi) opposta: essere felici per l’amore di Dio, cioè perché ci
si sente amati.
Il Dio a cui diciamo "sia fatta la tua volontà" è un
Dio solidale con gli uomini fino a una sovrabbondanza di amore; non una
divinità irragionevole e intrattabile, assetata di sangue e gelosa della
felicità dei suoi figli.
Come si concilia il bisogno innato di vivere, di
realizzare se stessi e di essere felici con l’invito evangelico a
prendere la croce e seguire Gesù?
Quell’invito, con l’accenno alla croce, è chiaramente
una formulazione postpasquale che presuppone la conoscenza di come
avvenne la morte di Gesù. Non possiamo sapere in quali termini Gesù si
sarà espresso. Comunque ci sono due fatti da tener presenti ogni
qualvolta si ripensa a questa frase evangelica. La prima è che croce,
nella prospettiva del Nuovo Testamento, non evoca solo "sofferenza",
bensì scandalo. Così prendere la croce significa accettare di essere
infamati e rifiutati, ciò che basterebbe a scalzare alla radice
qualsiasi virtù religiosa intesa come esemplarità e perbenismo,
qualunque ascesi intesa come prodezza e rifiuto di sé. La seconda è che
il senso della croce non può leggersi se non alla luce della
Risurrezione.
Amore, impegno e testimonianza vissuti senza riserve
portano inevitabilmente con sé una dimensione di "croce", che significa
solitudine, sofferenza, apparente sconfitta. Non si può fare a meno di
prendere su di sé queste croci, se non rifiutando ogni coinvolgimento,
ogni ideale e la vita stessa. Ma ciò non significa che si possano
innalzare deliberatamente croci su tutte le alture dell’esistenza nostra
e altrui. Anche certe "croci" inessenziali e troppo vagheggiate possono
diventare idoli.
In un’espressione come "rinnegare se stessi" o
"morire a se stessi", il paradosso sembra più importante del significato
letterale. L’ab-negazione è essenzialmente vittoria
sull’egoismo-egocentrismo, quindi anche sulla paura; non sul legittimo
bisogno di felicità, del quale anzi non si può fare a meno. Chi ama
profondamente la vita, infatti, rifiuta di banalizzarla, e amare
profondamente la vita conduce a dare la vita: cioè a spenderla
per un ideale, per arricchire di senso, di valore e di libertà la vita
degli altri.
Una vita ripiegata su se stessa è inaridita e
veramente, nel senso profondo del termine, non vissuta: dunque
"perduta". In questo senso l’invito a dimenticare se stessi, se
significa vincere l’egoismo e la paura da cui l’egoismo scaturisce, è al
servizio della vita, non finalizzato a perdersi, ma a trovarsi. Troppo
spesso invece l’invito a dimenticare se stessi è stato inteso alla
lettera, come rifiuto di approfondire i propri moventi, di riflettere
sulla propria situazione, cercando di dimenticarsi nelle cose da fare,
nell’azione, nelle "pratiche", anche devote, anche utili ad altri, ma
negative per il soggetto che agisce quando vengono usate come
stupefacente o come anestetico.
Aprirsi al dono
Quando leggiamo la Scrittura, le nostre abitudini
volontaristiche, gravide di fraintendimenti spirituali, sono subito in
agguato. Incliniamo d’istinto a una lettura moralistica e riduttiva. Ci
domandiamo: "Che cosa dice a me questa pagina?", subito
traducendo automaticamente: "Dov’è che sbaglio io, allora?". Ovvero, che
cosa mi sta rimproverando Dio in questa pagina?
Invece in ogni pagina della Scrittura, anche nelle
pagine severe e scomode, dovremmo ricercare in primo luogo il positivo
di Dio, Dio che si dona e si rivela, Dio che chiama alla comunione.
I rischi insiti in una lettura moralistica sono di
vario genere. Conosciamo quanta ansia, angoscia, opacità possono
aggravare la vita spirituale e tutta la quotidianità, determinando un
grigiore e una pesantezza che sono agli antipodi di un’esistenza
salvata. Ma ve ne sono anche altri: la superbia, l’autosufficienza,
l’efficientismo devozionale, il "puritanesimo" che, non scevro di
sospetto e morbosità, è tutt’altra cosa dalla vera purezza.
E quando il vino nuovo della salvezza viene
ricacciato a forza negli otri vecchi dei parametri moralistici scontati
e ben noti a tutte le religioni, l’annuncio della salvezza si riduce a
vuote parole.
Il Vangelo non è, almeno in primo luogo, un annuncio
morale; eppure un legame tra Vangelo e morale esiste, e va ricercato
nella vita nuova che Gesù ci ha portato. "Convertitevi e credete al
Vangelo": l’annuncio che, secondo Matteo e Marco, apre la vita pubblica
di Gesù è una specie di freccia direzionale che aiuta la ricerca.
La salvezza di Dio è dono, e il dono, come si diceva
all’inizio, non è condizionato al merito di chi lo riceve; ma un dono
può anche restare potenziale e irrealizzato, se non viene accolto. La
dimensione morale del vivere cristiano riguarda soprattutto
l’accoglienza fedele e creativa del dono.
La grazia è l’Alleanza
Ma qual è per noi lo "specifico", lo specifico
cristiano, ovvero (se questa parola sembra troppo tecnica) il nucleo
centrale dell’essere cristiani?
Se si provasse a domandare questo in giro, anche a
persone credenti e benintenzionate, probabilmente si otterrebbero molte
risposte sulla linea dell’amore e dell’"essere buoni". Quasi dispiace
dirlo; ma non è questo.
Forse essere buoni ha la priorità rispetto a
qualsiasi specifico; è indispensabile a un’esistenza che possa dirsi
umana, e un vivere che non sia pienamente umano non può essere nemmeno
cristiano. Un cristiano che non fosse una persona buona sarebbe un
pessimo cristiano, un non-cristiano di fatto, una vivente smentita della
novità di Gesù. Tuttavia, essere buoni e amare è la vocazione umana
fondamentale, non lo specifico cristiano, perché in ogni religione si
trovano persone buone; in ogni religione e anche al di fuori di ogni
religione. Così come in ogni religione e fuori si trovano persone non
buone o, più probabilmente, non-libere. Siamo, infatti, tentati di dire,
con Gibran Kahlil Gibran ne Il Profeta: "Io posso parlare del
vostro bene, non del vostro male; perché il cattivo altri non è che un
buono tormentato dalla sua fame e dalla sua sete. In verità il buono, se
affamato, può anche cercare il suo cibo in una caverna oscura e,
assetato, può bere un’acqua morta".
Lo specifico della fede giudeocristiana è piuttosto
un evento. Quello che siamo soliti chiamare l’Alleanza: Dio stesso che
si rivela. Dio si fa presenza nella storia umana non con una sovversione
folgorante, non come un Deus ex machina, ma adattando il suo
tutto alla nostra parzialità, relatività e lentezza, affidando con
generosità e dismisura il suo dono al limite umano: limite che
ovviamente è anche possibilità di fraintendere, di rifiutare, di
strumentalizzare.
All’interno di questa visione, poi, vi è uno
specifico cristiano: la fede in Gesù che trasmette agli esseri umani la
prossimità di Dio, che salva tutti con la sua vita, la sua morte, la sua
vittoria sulla morte. Credere in Gesù, ovviamente, non significa dare un
indolore assenso mentale a "idee", fossero pure idee come la figliolanza
divina o la risurrezione; ma accettare il proprio coinvolgimento totale
nel suo evento, fare propria la causa di Gesù di Nazaret.
In questo senso, è evidente, lo specifico cristiano
fa tutt’uno con ciò che siamo anche soliti chiamare la "salvezza".
La salvezza è parola fraintendibile, e ben lo sa chi
si occupa di catechesi: perché nel linguaggio corrente fa pensare subito
allo "scampo", all’evitare qualcosa di molto negativo, o per caso o per
propria abilità o per merito altrui.
In termini di fede, invece, la salvezza è il fatto
stesso che Dio chiama l’essere umano a partecipare della propria vita
divina, e per noi la salvezza è legata indissolubilmente all’evento di
Gesù. E’ un fatto "storico", nel senso che si attua nella storia, ma è
continuamente in opera: è lo Spirito santo a rendere possibile qui e
ora, nella coscienza e nell’esistenza della persona credente, la
salvezza che Gesù ha portato nel mondo una volta per tutte.
Diciamo "Alleanza" se concentriamo l’attenzione
soprattutto sull’evento di Dio che si rivela, diciamo "salvezza" quando
l’attenzione si appunta soprattutto sugli effetti e sulla nostra
responsabilità di redenti; forse si potrebbe recuperare il termine
tradizionale di "grazia" guardando piuttosto agli effetti individuali,
personali.
Perché la grazia è la vicinanza di Dio, è Dio stesso
che offre agli esseri umani di vivere in comunione con la propria
essenza divina infinitamente relazionale (infatti, che altro significa
credere nella Trinità, se non che il Dio in cui crediamo è relazionale
nella sua stessa essenza profonda?), e siamo chiamati a operare questo
"passaggio di piano" senza snaturarci, senza disprezzare quanto è
storico, relativo, corporeo; ma diventando per questa via più
compiutamente umani.
Salvezza, grazia, felicità
Molte cose belle e profonde sono state dette sulla
grazia nel corso dei secoli, eppure l’idea di grazia è stata ed è
tuttora inquinata, deformata dal significato "sociale" (diffuso in
passato assai più di oggi, ma ancora operante) di favore-protezione,
quasi diremmo clientelare; soprattutto sembra rovinata dalle grazie
al plurale, intese come favori divini impetrati dall’alto.
Così, nell’ambito della vita nuova in Cristo,
finiscono col pesare idee estranee di ascendenza pagana, che rafforzano
anche per via inconsapevole l’idea di una divinità terribile e
dispotica, una specie di Moloch che dev’essere "conciliato", "placato"
con vittime possibilmente senza macchia. Ma questa divinità assetata di
sangue e gelosa della felicità delle sue creature non somiglia poi molto
al Dio di Gesù Cristo.
Invece la felicità è un valore di fondo nella vita
nuova che Gesù ci ha portato; ovviamente non si identifica con
l’allegria tout-court, e non ha nulla a che fare con certo
spirito godereccio inconsistente e volgare (il quale semmai ci
interpella come tentativo mal riuscito di esorcizzare la paura). La
felicità di cui parliamo è la vita redenta sperimentata, e dà una
portata diversa e un diverso sapore, oltre che un diverso stile, a ogni
momento di tristezza e di gioia e anche all’attesa, all’insoddisfazione,
all’incompiutezza…
La vita riuscita sulla terra e poi, nella vita
eterna, il suo "compimento infinito" (espressione contraddittoria
secondo la logica terrestre, ma non nella prospettiva del mistero) non
sono in alternativa, ma sono i due versanti dell’unico evento di
salvezza: è l’essere umano concreto a ricevere il dono della salvezza, e
lo riceve dall’uomo Gesù.
Gesù poi non si è mai presentato come uno che
disprezza la felicità, e neppure le più semplici gioie dell’esistenza,
anche se la tradizione cristiana – anzi, una certa ‘ascesi del sospetto’
all’interno di questa tradizione – ha fatto il possibile per sovrapporre
alla sua figura l’immagine dell’asceta cristiano che ci si era formati
nel tempo.
La speranza cristiana, certo, non è facile ottimismo,
il messaggio cristiano è annunciato da Uno che muore in croce. Però,
come dice una teologa americana (Beverly Harrison), Gesù non è stato
crocifisso affinché i suoi seguaci venissero crocifissi come lui, ma per
mettere fine a ogni crocifissione.
Di qui l’esigenza di aprirsi al Dio che Gesù ci ha
portato – il Dio della libertà, – superando il Dio "metafisico", con la
sua assolutezza priva di bisogni e di attese, priva di divenire, per
recuperare il messaggio evangelico nella sua interezza, che è anche
promessa e premessa verso la felicità.
Autentico nel suo "tendere verso", il nostro
desiderio di felicità non è mai infallibile nelle mète parziali. Anche
nel caso in cui la cosa desiderata sia buona in sé e venga raggiunta,
non si elimina il desiderio. Anzi le varie cose buone che desideriamo
talvolta sembrano solo occasioni per far vivere il nostro desiderio, e
ciò è stato letto spesso come segno dell’irrimediabile fragilità e
incompiutezza della persona umana. Ma è nello stesso tempo il segno
della sua nobiltà.
Il desiderio di felicità, quello autentico, è
desiderio di sviluppo di tutte le possibilità pur nell’accettazione
(dinamica!) della propria finitezza; forse nella fase terrena della
nostra esistenza la felicità non può essere uno "stato", ma
un’intuizione vivificante, un nutrimento e un segnale di direzione,
tutto insieme.
La perfezione evangelica
La vita religiosa in passato veniva chiamata "stato
di perfezione". Terminologia pericolosissima; e non importa che la
perfezione venisse riferita allo "stato", al dover "essere" della vita
che si sceglieva e non alle proprie realizzazioni. L’agognata perfezione
resta sempre irraggiungibile; si può realizzare, spesso con grande
sacrificio generatore di stabile tristezza, una vita meritoria e anche
"irreprensibile" (= non rimproverabile) quanto all’agire esterno,
osservabile e oggettivo. E’ una situazione a rischio, lo sappiamo dai
Vangeli, non meno di una realtà peccaminosa; anzi il rischio è maggiore
in quanto più sottile e sfuggente, perché il peccato ha anche una
dimensione alienante e dis-umana che genera sofferenza e può dar luogo a
una reazione di dolore e resipiscenza che aiuta a cambiare strada,
mentre questa "virtù" paga di sé o angosciata dagli scrupoli, si
accompagna a un’esteriore esemplarità che non è facile da leggere come
situazione da cui convertirsi.
"Siate perfetti", dice Gesù ai suoi, nel Discorso del
monte. Anzi: "Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro celeste", ma
con ciò non intende proporre un modello "quantitativo" dichiaratamente
impossibile; vuole invitare ad assumere lo sguardo e la prospettiva del
Padre. La giustizia più grande a cui Gesù invita i suoi seguaci non è un
primato da conquistare, ma un cambiamento di prospettiva. Luca nel passo
parallelo si esprime in modo diverso: "Siate misericordiosi com’è
misericordioso il Padre vostro", ma l’invito al cambiamento di
prospettiva è equivalente; e questi due passi, considerati insieme, ci
ricordano che solo nell’amore e nel perdono possiamo tendere a un
superamento incessante.
La salvezza interpella la nostra responsabilità, ma
non è qualcosa che si possa meritare, acquisire, accumulare. L’Alleanza
non è un contratto, nonostante i termini in cui ci appare formulata in
certe parti del Primo Testamento, con prescrizioni dettagliate e
sanzioni. La giustizia di Dio non somiglia alla giustizia terrena e il
suo simbolo non è la bilancia (evocatrice del fare le parti uguali tra
disuguali), ma l’arcobaleno: segno di riconciliazione, ponte proteso fra
cielo e terra, molteplicità di colori animata e sviluppata dalla luce.
* Teologa.
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