n. 10
ottobre 2004

 

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Dalle nostre parole:
inquinamento o salvezza
di Maria Pia Giudici*

 

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Chi non si ricorda di Cernobil? Un fatto terrificante. Si parlò di ecatombe, di un disastro cosmico. Ma forse più inquietanti furono certe “code” della stessa notizia, esplosa alcuni anni fa.

Mi colpì una pagina di giornale che parlava della pericolosità di scorie e detriti atomici. Per non so quale trascuratezza nell’esecuzione di alcuni provvedimenti, in una certa zona dell’Est ci si accorse che, non subito, ma nel giro di alcuni anni, irradiazioni inquinanti avevano infestato un terreno.

A poco a poco, senza che immediatamente se ne individuasse la ragione, la vita cominciò a intristire. Vegetali, animali e persino bimbi e anziani vennero ghermiti dalla morte.

E’ un quadro che rende perfettamente l’idea di quel male, non subito evidente ma purtroppo assai diffuso e pernicioso, che è la mormorazione.

Sì, le nostre parole sono come la forza atomica. Puoi servirtene per compiere il bene o il male. Illuminare curare perfino guarire. Oppure inquinare e distruggere. Non subito. Ma a poco a poco.

  

La parola: luce o tenebra?

Il card. Martini con la sua sapiente lucidità scrive: «Nella parola il nostro essere profondo si manifesta, la nostra libertà sprigiona le sue capacità operative; la nostra umanità va in cerca dell’umanità degli altri, cerca un contatto con loro, genera consensi, costruisce comunità umane, interviene sulle cose del mondo. Ma la parola umana è anche povera (…). Quante volte, anziché rivelare amore di vita, luce, verità e comunione, produce odio menzogna e discordia».

Proprio inquinamento mortale che non subito ma a poco a poco paralizza, deforma e distrugge ogni forma di vita. Ecco che cos’è la mormorazione. Una realtà spesso larvata ma molto presente nelle nostre comunità religiose.

Lo so, si obietta che è la calunnia a “uccidere”. Cioè inventare il male addebitandolo agli assenti, insinuare con malevolenza sospetti pesanti a partire da leggeri indizi… E si aggiunge: ma il dire male quando è male a proposito di “tizio e caio”, non è mettere a fuoco una situazione negativa e giustamente censurarla? Non abbiamo buttato il cervello all’ammasso consacrandoci a Dio! Usare il senso critico è solo esercizio di intelligenza, di capacità di giudizio. Non è in qualche modo un servizio alla verità? E, aggiunge qualcuno, «se poi dico le cose così come stanno, e sfogo quel tanto di rabbia che ho dentro perché le cose non vanno come sarebbe giusto andassero, che cosa faccio di male? Ho diritto a essere spontanea, a manifestare le mie opinioni, si o no?»

C’è del vero in questo genere di obiezione. Come una piccola lamina d’argento dentro molta sabbia. L’argento sta in questo: la verità va detta! La quiescenza acritica del “sì, Madre, grazie!” è una coltellata alla verità, quando ciò avviene per paura di “giocarsi” responsabilmente, di pagare anche il prezzo del proprio esporsi. Ci sono silenzi sornioni e ipocriti che sulla bilancia pesano negativamente come quel parlottare nei corridoi e per le scale a proposito di tutto quel che è o sembra male. E, attenzione!, proprio perché è un parlottare di scelte o parole o fatti che riguardano persone assenti, la “mormorazione” è anzitutto viltà: sciupìo di parole nella spazzatura di ciò che è sostanzialmente negativo. Detriti inquinanti.

Non solo le persone che mormorano non traggono alcun giovamento da questo “sfogo” sbagliato ma, a lungo andare, inquinano e spengono preziose energie di verità e di vita. Nel loro cuore anzitutto. Poi anche nella comunità a cui appartengono. Quello che non si può approvare va detto. Ma in faccia alle persone. Non alle spalle. Se, in bel modo, parli all’interessata o a chi di dovere, la tua parola è luce di verità. Se parli alle spalle, è la paura di comprometterti che ti gioca. O è lo sfogo superficiale e istintivo e presuntuoso per giunta. Sempre è una manciata di terra che imbratta te e l’ambiente dove vivi.

 

Qualche linea terapeutica: vigila sul tuo cuore

A questo punto è positivo domandarci: contro questo male che, proprio non sembrando tale, è tanto più inquinante, quale terapia?

Dice un testo biblico: «La lingua parla dell’abbondanza del cuore». E’ dunque molto importante, anzitutto, renderci “consapevoli” del nostro cuore, di quella parte profonda e intima che, se davvero è sposata a Dio, deve percepirsi salda in Lui.

“Sposata a Dio” chiaramente non vuol dire andare a caccia di emozioni spiritualistiche, ma vivere a fondo la spiritualità “sponsale” sostenuta e nutrita dalla Sacra Scrittura, specialmente da Ct 6,3, Os 2,16, Is 54,4, Ez 16,1-49. Sono testi che noi consacrate dovremmo imparare a memoria, sussurrarli nell’intimità della nostra camera, nel segreto del cuore. La Parola sacra “ruminata” a lungo, si rivela come un’iniezione di forza, motivazione fondata di pace e irradiazione (dentro di noi e attorno a noi) di un ottimismo inattaccabile.

No, non si tratta di vivacchiare trasformando la propria sensibilità di pensiero in una pelle di ippopotamo che, ti caschi il mondo attorno o addosso, ti impedisce di esserne sconcertata e soprattutto di soffrirne. Guardiamoci da questa sorta di egoismo! Si tratta invece di perseguire con la forza dello Spirito di Dio (che è una cosa sola con la Parola sacra) una nostra personale pace interiore. Come presupposto del nostro vedere e giudicare. Ma, soprattutto, come uno stato di profondo equilibrio realmente appagante il cuore, la persona.

Ma che c’entra tutto questo con un retto esercizio della lingua che guarisce dal malvezzo di mormorare (= dire cose negative sul conto di assenti)?

Non solo c’entra ma è di capitale importanza. La stessa psicologia sempre più ci rende avvertiti di quanto noi “coloriamo” il nostro modo di vedere e di intendere coi “colori” (di luce o di tenebra, di ottimismo o di pessimismo) che pervadono il nostro cuore.

Quante volte succede che si può proiettare, quasi senza accorgersi, un generico ma profondo malessere che è dentro di noi! Ma proprio in quel nostro spazio intimo, se non è abitato da Dio-Sposo d’amore, si rivela il vuoto esistenziale dove grida il disagio più angoscioso. Quanto spesso, dunque, la verità viene distorta, le persone e il loro agire, tutto viene travisato da quel modo “malato” di guardare fuori di noi. Così può succedere che, dentro il gioco della nostra psiche, senza neppure accorgerci, proiettiamo sugli altri quel senso di vuoto, quel confuso malessere, quell’amarezza che abbiamo dentro.

Il cuore, in questo caso, è come la “cisterna screpolata” di cui parla la Bibbia. Non ha acqua per la nostra sete. L’abituarsi poi a mormorare è come un dissetarsi falso e falsamente liberatorio. Non risolve nulla: né dentro né fuori di noi. Anzi inquina. Produce scontento, inaridimento della vita profonda più vera.

In radice la terapia è dunque l’imperativo biblico: «vigila sul tuo cuore». Lasciati pacificare a fondo da Colui che ti ha sposata e ti abita.

 

Terapia dei pensieri

A. Grün, un monaco tedesco autore di molti libri attualissimi, ha un prezioso libretto1 in cui realizza un’operazione di sagacia spirituale. Coniugando le migliori acquisizioni della psicologia contemporanea con la letteratura degli apoftegmi e detti dei Padri del deserto, ci aiuta a individuare una pista molto concreta per sostituire i pensieri negativi che prolificano nella nostra mente con pensieri di positività, di vita e di pace.

In ordine al nostro argomento si tratta, ancora una volta, di far chiarezza. La mormorazione ha le sue radici proprio nei pensieri. Vigilare sul cuore e sulla mente è, dunque, la premessa ineludibile per romperla con la mormorazione, anzi per diventare responsabili delle nostre parole, tali da diventare “sale” e “luce” del mondo nell’ambiente in cui viviamo.

La nostra mente è, infatti, come una macina da mulino. Se ci metti buon grano ne ottieni fior di farina; se vi lasci cadere robaccia, ottiene pula e peggio.

Il buon grano della mente è anzitutto la meditazione della Parola. Ma è ancora la lettura di libri “sapidi”, spiritualmente tonificanti. Quando una suora mi dice: «Non trovo assolutamente tempo per leggere», provo tristezza a causa sua. Avverto che la sua vita (e dunque la sua mente) è allo sbaraglio dell’attivismo, dello svuotamento e dell’indebolimento che ne viene. E’ un campo incolto in balia di ogni negatività.

L’autore che ho appena citato, sulla scorta degli antichi Padri, consiglia di avere un repertorio di sentenze nel ripostiglio della memoria. La strategia è quella di sostituire ai pensieri negativi e spesso ossessivi, alcune di queste sentenze con versetti di salmi, sentenze del Siracide o dei Proverbi, soprattutto Parole di Gesù. Bisogna che siano brevi, come scoccare di saetta. Come l’accensione di una lampada. Queste parole sacre fanno ordine nel caos interiore. Se con coraggio, con determinazione e perseveranza ricorriamo ad esse, impariamo a far fronte ai nostri stati d’animo e mentali.

C’è una cosa molto importante da sottolineare per non cadere, tra l’altro, in una specie di creduloneria che dà sul “magico”. Quel che va tenuto presente è un modo ben preciso di vivere la fede. Per gli antichi Padri non è tanto credere a dogmi e verità rivelate, ma un pensare, vivere e “fare come se”. Che cosa s’intende? Ecco: che la Parola di Dio non solo esprime la verità di Dio ma opera ciò che esprime.

Se, per esempio, sono in preda a pensieri di scoraggiamento, incomincio a ripetermi: «Beato chi trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio» (Sal 83, …). Ma non basta! Devo credere fermamente che questa beatitudine mi sarà data in cuore, così come do per certo che mi è infuso un nuovo vigore da colui che ha ispirato la Parola e l’ha resa sempre efficace, creativa, densa di vita e positività.

 

Concludendo

Mi sembra di poter affermare che è urgente decidersi al vaglio dei propri pensieri e prima ancora alla vigile custodia del cuore. Con forte grido a Dio perché ci aiuti. Così non incorreremo nell’inquinamento della mormorazione. Non solo saremo “liete nella speranza”, ma pian piano cresceremo in novità umano-evangelica. Diverremo capaci di comprendere, senza pretendere che gli altri s’impegnino a comprenderci, capaci di amare senza che noi, facendo perno sul nostro avido ego, pretendiamo di essere amate e di avere intorno a noi le condizioni ottimali per avere pace e donare pace.

Ho qui il fiore di una poesia di un nostro amico poeta: Marco Guzzi. Lo colgo per me e per chi legge:

 

«Non chiedere la pace al mondo.
Non pretendere l’amore da nessuno.
La pace dalla tu. Falla
tutti i giorni con le tue mani.
E dallo tu l’amore.
Scroscia, donati, irradia:
sii felice. E’ dandolo l’amore che lo ricevi.
In abbondanza».

 

* Suora delle Figlie di Maria Ausiliatrice, animatrice della Casa di preghiera e di accoglienza a Subiaco (Roma).

1. A. Grün, Terapia dei pensieri, Queriniana 2004.

 

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