È attuale l’umorismo?
«Gesù
doveva essere un tipo divertente», sostiene il celebre narratore
contemporaneo Anthony Burgess. Siamo quindi ben lontani dalla seriosa
affermazione di sant’Agostino, ripresa da tutta la tradizione in
Occidente, secondo il quale Cristo avrebbe pianto raramente ma sorriso
mai, così che anche i suoi discepoli dovrebbero appartenere alla
categoria (stoica!) degli aghelasti, gli incapaci di riso. C’è
addirittura chi oggi sostiene come «l’umorismo sia l’unica forma di
santità possibile per l’uomo contemporaneo». Così ritiene il poeta e
saggista Franco Cordelli. Aveva quindi ragione il martire san Tommaso
Moro, non per nulla autore dell’Utopia, di chiedere nella
preghiera: «Dammi il senso dell’umorismo», quel «divino senso
dell’umorismo», come verrà chiamato secoli dopo di lui da Fulton J.
Sheen.
Oggi si parla della “necessità
dell’umorismo”: «Dove non c’è umorismo non c’è umanità…, c’è il campo di
concentramento», scrive il commediografo Eugène Jonesco, il quale
aggiunge: «Solo l’umorismo può renderci la serenità». Il tema
dell’umorismo si trova quindi alla ribalta, come si è potuto leggere di
recente su “Agorà” (Avvenire, 19 giugno 2004).
Ma procediamo con ordine, domandandoci
anzitutto che cosa intendiamo per umorismo. Pascal, nelle Lettere
provinciali (IX) parlava di «quell’umore dolce e caldo e di quel
sangue benigno che fanno la gioia», collegando in tal modo il termine
umorismo all’aspetto positivo dell’umore e ravvisandone l’esito nella
gioia. E infatti una delle manifestazioni dell’umorismo consiste nel
cogliere il lato “comico” delle cose, dove il termine comico richiama il
dio Komos, che era il dio dell’allegria.
Cos’è l’umorismo?
«Gli elementi essenziali dell’umorismo» –
leggiamo in un editoriale della Civiltà Cattolica (5 luglio l986)
– «sono: la capacità di cogliere i lati buffi e contradditori della
vita, ridendone con benevola comprensione; uno sguardo superiore che
permette di vedere meglio e “oltre”; un’intelligenza “nuova” che
relativizza e ridimensiona quanto si vorrebbe prendere per assoluto ed
eccelso. Si capisce subito che l’umorismo ha vari elementi in comune con
il comico, con l’ironia e col riso, ma che da essi si diversifica
nettamente», in quanto esprime comprensione, indulgenza e pacatezza.
«Nell’umorista si nasconde una straordinaria forza di sopportazione e
un’irrefrenabile libertà dell’essere: il suo regno è oltre i contrasti
terreni e nessuna fredda valutazione riesce a deprimerlo».
Definiremo dunque l’umorismo come
l’atteggiamento di saper trascendere tutto ciò che non è Dio,
continuando a viverlo in Dio, sottolineando il positivo di quanto accade
e trovando un senso in quanto si presenta come negativo. «L’intimo
nucleo dell’umorismo» – al dire di Ladislaus Boros – «risiede nella
forza del religioso. L’umorismo vede il terreno e l’umano nella
loro inadeguatezza dinanzi a Dio, ma li vede nello specchio dell’amore
di Dio» e suscita di conseguenza un atteggiamento di amore e di pietà
verso il mondo e la storia.
Ci si è chiesto qual è lo specifico
dell’umorismo, che la psicologia annovera tra i meccanismi di difesa, e
le risposte lo ricollegano al senso di superiorità con cui affrontare le
situazioni della vita, oppure al sollievo che esso suscita nei più
disparati frangenti, e infine alla capacità di cogliere senza
drammatizzare incongruenze e discrepanze nel pensiero e nell’azione.
L’umorismo relativizza, porta con sé il senso
delle proporzioni, ravvisa con occhio serenamente critico l’aspetto
positivo o negativo delle vicissitudini dell’esistenza umana, è capace
di demitizzare sé e gli altri. Sa vivere, in una parola, dentro le
contraddizioni e viene considerato ora come un lubrificante ora come un
abrasivo che sblocca rigidità e chiusure, ed è una valvola di scarico
delle tensioni e, infine, è un’esperienza liberatoria. Esso acquisisce
una portata del tutto singolare quando è autodelatorio, vale a dire
rivolto verso se stessi e, se comporta una buona dose di lungimirante
modestia, «per un luminoso istante fa scomparire dal nostro orizzonte la
violenza e l’intolleranza e il suo bagliore dissipa le tenebre
dell’odio» (Moni Ovadia).
Una nota di colore, che non sfigura in una
rivista per religiose, è quanto scrive Sigmund Freud, il fondatore della
psicoanalisi, che cioè «le donne sviluppano e apprezzano l’umorismo
molto più rapidamente degli uomini». Sarà vero?
Radice biblica
Parlando dell’umorismo in chiave cristiana, è
d’obbligo rifarci alla matrice biblica e anzitutto al pensiero ebraico.
Moni Ovadia, l’ebreo scrittore e musicista di origini bulgare, ritiene
che il passaggio dal politeismo al monoteismo sia legato a un gesto
etico-umoristico con il quale Abramo frantumò gli idoli del padre. La
scena si sarebbe svolta così: in assenza di Terach, Abramo spaccò con
una mazza statue e statuette, tranne la più grande che era di granito,
per poi collocare la mazza tra le sue braccia. Tornato, il padre dette
su tutte le furie, incriminando il figlio di quest’atto sacrilego. Ma
Abramo dette la colpa agli idoli più piccoli, accusandoli di aver voluto
sfidare quello più grande e di avere compiuto un simile scempio davanti
ai suoi occhi. Al che Terach reagì dicendo: «Non fare l’idiota. Come è
possibile che pezzi di terracotta o di pietra possano combinare un
simile disastro?» Ma Abramo replicò: «Perché le tue orecchie non
ascoltano ciò che dice la tua bocca? Perché ti inginocchi ad adorare
degli inerti pezzi di pietra?»
Una visione disincantata della realtà, che
consente di sorridere alla vita nei suoi aspetti tragici e che reagisce
di fronte alle derive, spesso drammatiche, della violenza, della
stupidità e del pregiudizio ha dato origine a tutta una letteratura,
quella dei chassidim, per i quali Dio non è soltanto il creatore
del cielo e della terra, ma è anche colui che ha creato la delizia e la
gioia (cfr. M. Ovadia, Ridere fa bene anche alle religioni, in
Vita e pensiero, n. 2/2004, pp. 127-131). Per questo occorre trovare
il lato positivo e provvidenziale degli eventi, e ciò è il compito
dell’umorismo.
A esso le Scritture ebraiche e cristiane
danno non poco rilievo, soprattutto quando parlano del riso (cfr. R.
Poudrier, L’umorismo nella Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo
1996). La letteratura sapienziale afferma che «vi è un tempo per ridere
e uno per piangere» (Qo 3,4:) e indaga sulla natura del riso, da quello
incredulo di Sara a quello proprio dello stolto, paragonato al «crepitio
dei pruni sotto la pentola» (Qo 7,6), mentre «l’uomo saggio sorride in
silenzio» (Sir 21,20); e da quello ingannevole (Sir 13,6.12) a quello
crudele (Sal 80,7: «I nostri nemici ridono di noi»), per approdare al
riso santo (Gb 8,21: «Dio colmerà la bocca di sorriso e le tue labbra di
gioia») e al riso cosmico che coinvolge l’intero creato oggetto della
benevolenza divina (Sal 65,14: «Tutto canta e grida di gioia»).
Nelle beatitudini lucane si parla di un riso
che si converte in pianto e di un pianto che si tradurrà in riso (Lc
6,25; cfr. Gc 4,9). E se «la bocca sorridente rivela quello che (l’uomo)
è» (Sir 19,27), il sorriso segnerà l’avvento del regno di Dio: «La
nostra bocca si aprì al sorriso», canta il salmista (Sal 126,2). E sotto
questo titolo, Alessandro Pronzato ci ha offerto di recente uno dei suoi
gustosi saggi.
La successiva riflessione cristiana metterà
in rilievo il riso buono, definendolo «tacitus et rarus»: è il
riso che viene da una coscienza serena e dalla pregustazione del gaudio
celeste; il riso di chi questo gaudio celeste l’ha già conseguito (il
riso dei beati); e il riso che viene dalla mitezza e dalla benevolenza
della natura, che ricrea, solleva e consola (così si legge nella
francescana Summa fratris Alexandri, del XIII secolo). Questo
riso rientra nell’undicesimo grado di umiltà di cui parla la Regola
di san Benedetto, il santo che esige dal monaco di evitare parole
suscitatrici di risate scomposte, ma chiede soavità e garbo nella
comunicazione. C’è infatti il rischio che il ridere si trasformi in
deridere, così da diventare ironia, sarcasmo, presa in giro, ferita. È
il caso di quel «gran riso vincitore» teorizzato da Voltaire.
In ambito cristiano
Su questa base è possibile sviluppare alcune
considerazioni che intendono cogliere, se è mai possibile, lo specifico
cristiano dell’umorismo, ravvisato in un sorta di “realismo
soprannaturale” che sposa la confidenza in Dio con la fedeltà alla Terra
e alla Storia. «Il cammino dell’umorismo nella vita spirituale va di
pari passo con l’umile amor per la croce e il Crocifisso», leggiamo in
un recente articolo che dell’umorismo indaga la natura e la necessità (L.
Larivera, Natura e necessità dell’umorismo, in La Civiltà
Cattolica, 17 luglio 1904). Un amore che si misura con l’Evento più
paradossale della vicenda umana e divina a un tempo e sa cogliere
nientemeno che la Vita nella morte, e la morte di… Dio. In questo senso
«l’umorismo è proprio di chi, superato l’amore narcisistico di sé, sa
apprezzare realisticamente ciò che egli è, tollerando anche la
percezione del proprio negativo; anzi è capace di integrarlo. Al tempo
stesso, la difesa dell’umorismo protegge la stima poiché consente al
soggetto di non prendersi troppo sul serio, di non pretendere troppo da
sé, di ridimensionare le proprie debolezze senza farne una tragedia; e,
probabilmente, anche di non scaricarle sugli altri». E ancora:
«Nell’umorista si nasconde una straordinaria forza di sopportazione e
un’irrefrenabile libertà dell’essere; il suo regno è oltre i contrasti
terreni e nessuna fredda valutazione riesce a deprimerlo. L’umorismo
cristiano è un nuovo modo di essere e di sentire: converte il pessimismo
in audacia, il disprezzo in pietà, l’insofferenza del limite in feconda
accettazione. Questo sguardo di tenerezza e di indulgenza ci dà la
grazia – poiché di una vera grazia si tratta – di ridere di noi stessi:
dei nostri fallimenti, dei nostri sogni infranti, dei nostri voli
mancati. Il cristiano che ha il senso dell’umorismo, quando cozza contro
la disillusione, comprende e sorride: comprende i suoi limiti e sorride
del crollo delle sue illusioni. Se da un lato l’umorismo, come senso del
relativo e del limite, porta al distacco da sé e si stabilisce
nell’umiltà, da un altro è un invito alla fiducia, anzi all’audacia».
In uno studio sulla psicologia dei santi (A.
Roche, Psicologia dei santi, Paoline Editoriale Libri, Milano
1992), si faceva notare che «l’umorismo è il sale della vita, in un
certo senso è il sale della vita religiosa, il quale la preserva da ogni
guasto». Non per nulla l’agiografia conosce santi e sante che lo hanno
coltivato come una virtù. E qui andiamo dai Padri del deserto a santi
moderni come Filippo Neri, Teresa d’Avila, Francesco di Sales. Essi
hanno dimostrato che la persona religiosa vede la vita come spettacolo e
sorride di amore, e che senza un’autentica fede religiosa l’umorismo o
non esiste o è un suo sottoprodotto.
San Tommaso, sulla scorta di Aristotele,
insegna che la virtù propria dell’umorismo è l’eutrapelía che ci
trova a un tempo «faceti e urbani». Essa infatti «sa volgere bene in
scherzo (solacium) i fatti e le parole» (Summa theologiae,
2.2.168.2). Serietà e gaiezza si fondono nell’eutrapelia, la
quale rimanda all’anèr spoudoghéloios del pensiero greco, ossia
colui che mescola il serio col faceto.
A quanto pare si tratta di una virtù che non
perderà il suo smalto nel regno futuro, se, al dire di Lutero, in una
preghiera rivolta al Signore, «tutte le creature proveranno un piacere,
un amore, una gioia fisica e rideranno con Te e Tu a tua volta riderai
con loro».
“Teologia comica”
Su queste premesse, specialmente in tempi
recenti, si è sviluppata la cosiddetta “teologia comica”, che parla del
Deus ludens e dell’Homo ludens la cui esistenza sarebbe
“gioco”, divertimento (si veda W. Thiede, L’ilarità promessa.
L’umorismo e la teologia, San Paolo, Cinisello Balsamo 1989). Al
Dio che ride è dedicato un midrash del Talmud, il
manuale del retto israelita. E sul «Cristo arlecchino» riflette Harvey
G. Cox in un capitolo de La festa dei folli. La follia
esprime il parossismo dello humour e viene considerata da Erasmo
di Rotterdam, che ne scrisse l’Elogio, come «una dea ben accasata
nel mondo degli dei», ma anche degli uomini. A cominciare da quei “folli
di Dio” che incontriamo nella tradizione agiografica e iconografica
russa.
L’umorismo si traduce quindi in un tratto
caratteristico, si direbbe fondamentale, dell’esperienza religiosa, e in
quella più propriamente cristiana assume forme divenute proverbiali e
classiche. Chi non ricorda l’abbondante uso che ne fanno i Padri del
deserto, o il famoso “risus paschalis” suscitato dai predicatori dopo le
severe catechesi quaresimali (cfr. M.C. Jacobelli, Il Risus paschalis
e il fondamento teologico del piacere sessuale, Queriniana 1990),
oppure il carnevale che consentiva e consente di dare la stura alla
comicità e di risolvere in riso che lenisce le cure della vita?
La pedagogia cristiana fa ricorso
all’umorismo nell’educazione dei giovani con l’istituzione degli
oratori. San Giovanni Bosco, che ne fu uno dei pionieri, intendeva,
attraverso di essi, rallegrare, educare e istruire,
andando ben oltre gli “scherzi da prete” e l’“umorismo di parrocchia”.
All’umorismo ricorre con abbondanza di
“storielle” (così le definisce) Anthony de Mello, il gesuita che ha reso
familiare in Occidente la tipica modalità con cui nell’Oriente si
impartiscono degli insegnamenti attraverso il paradosso e l’ironia.
D’altra parte “spiritoso” non deriva da “spirito”? Chi dunque coltiva la
vita spirituale non può non avere familiare l’umorismo. Su quest’aspetto
il Centro studi religiosi di Modena ha tenuto negli anni 1997-1998,
presso la Fondazione Collegio San Carlo, un ciclo di lezioni dal titolo:
Il sorriso dello spirito, Banca popolare dell’Emilia Romagna,
2000.
Umorismo e vita spirituale
Non ci resta a questo punto che precisare in
quale senso la vita spirituale è fonte di umorismo.
Diremo anzitutto che di sua natura la vita
spirituale ci àncora all’essenziale (e qui il ruolo della
preghiera profonda, eventualmente accompagnata da un buon lavoro sul
piano psicologico, è insostituibile). L’uomo spirituale coglie la
relatività, la transitorietà e l’illusorietà di tanti aspetti della vita
e quindi è in grado di stabilire proporzioni e gerarchia nelle proprie
esperienze. Ed è quanto sostanzia il suo umorismo: una visione
disincantata e per ciò stesso sorridente e benevola.
A questo si accompagna un maggiore
distacco che sfocia in quella “indifferenza”, cara ai santi
dell’antichità (parlavano di apàtheia) non meno che a quelli
della modernità, e quindi di una rettamente intesa “superiorità”.
A favorire una simile attitudine contribuisce
anche il fatto che l’uomo spirituale considera tutto, come si suol dire,
“sub specie aeternitatis” e ritiene che tutto sia sotto la regia
divina e che la Provvidenza sia arbitra degli eventi umani. È
questo il “criterio soprannaturale” che lo ispira e lo guida. E se è
vero che la sapienza divina, «dilettandosi sul globo terreste, prende le
sue delizie – ludit/gioca1, recita il testo latino – tra i figli
dell’uomo» (Prv 8, 31), è altrettanto vero che il suo stile si esprime
in un costante capovolgimento delle sorti. La qual cosa non può non
ingenerare una visione radicalmente positiva e quindi anche umoristica
della vita della persona umana sulla terra e dei suoi ultimi destini.
Possiamo dire che nell’uomo (e nella donna) spirituale ottimismo e
pessimismo vivono riconciliati, e anche questo sfocia nell’umorismo.
La frequentazione della Parola divina
ci consente di penetrare nella mente di Dio, di fare nostro il suo punto
di vista, di condividerne lo sguardo. Quello sguardo che – così leggiamo
in una impressionante testimonianza – si posò anni fa su una persona
dalla condotta viziosa, data per morta (un caso di “pre-morte”) ma
fortunatamente tornata in vita, alla quale l’Essere di Luce disse:
«Dimmi, adesso (che ti trovi al mio cospetto): ne valeva la pena?»
Possiamo concludere che «un po’ di umorismo è
un buon “scivolo” verso l’adorazione», come è stato scritto di recente
(M.P. Giudici, Cercare Dio con cuore semplice, AdV, Roma 2004) e
come è profondamente vero.
* Padre
Barnabita, docente di Spiritualità.