n. 1
gennaio 2005

 

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Vita spirituale come fonte di umorismo
di  Antonio Gentili*

 

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È attuale l’umorismo?

«Gesù doveva essere un tipo divertente», sostiene il celebre narratore contemporaneo Anthony Burgess. Siamo quindi ben lontani dalla seriosa affermazione di sant’Agostino, ripresa da tutta la tradizione in Occidente, secondo il quale Cristo avrebbe pianto raramente ma sorriso mai, così che anche i suoi discepoli dovrebbero appartenere alla categoria (stoica!) degli aghelasti, gli incapaci di riso. C’è addirittura chi oggi sostiene come «l’umorismo sia l’unica forma di santità possibile per l’uomo contemporaneo». Così ritiene il poeta e saggista Franco Cordelli. Aveva quindi ragione il martire san Tommaso Moro, non per nulla autore dell’Utopia, di chiedere nella preghiera: «Dammi il senso dell’umorismo», quel «divino senso dell’umorismo», come verrà chiamato secoli dopo di lui da Fulton J. Sheen.

Oggi si parla della “necessità dell’umorismo”: «Dove non c’è umorismo non c’è umanità…, c’è il campo di concentramento», scrive il commediografo Eugène Jonesco, il quale aggiunge: «Solo l’umorismo può renderci la serenità». Il tema dell’umorismo si trova quindi alla ribalta, come si è potuto leggere di recente su “Agorà” (Avvenire, 19 giugno 2004).

Ma procediamo con ordine, domandandoci anzitutto che cosa intendiamo per umorismo. Pascal, nelle Lettere provinciali (IX) parlava di «quell’umore dolce e caldo e di quel sangue benigno che fanno la gioia», collegando in tal modo il termine umorismo all’aspetto positivo dell’umore e ravvisandone l’esito nella gioia. E infatti una delle manifestazioni dell’umorismo consiste nel cogliere il lato “comico” delle cose, dove il termine comico richiama il dio Komos, che era il dio dell’allegria.

 

Cos’è l’umorismo? 

«Gli elementi essenziali dell’umorismo» – leggiamo in un editoriale della Civiltà Cattolica (5 luglio l986) – «sono: la capacità di cogliere i lati buffi e contradditori della vita, ridendone con benevola comprensione; uno sguardo superiore che permette di vedere meglio e “oltre”; un’intelligenza “nuova” che relativizza e ridimensiona quanto si vorrebbe prendere per assoluto ed eccelso. Si capisce subito che l’umorismo ha vari elementi in comune con il comico, con l’ironia e col riso, ma che da essi si diversifica nettamente», in quanto esprime comprensione, indulgenza e pacatezza. «Nell’umorista si nasconde una straordinaria forza di sopportazione e un’irrefrenabile libertà dell’essere: il suo regno è oltre i contrasti terreni e nessuna fredda valutazione riesce a deprimerlo».

Definiremo dunque l’umorismo come l’atteggiamento di saper trascendere tutto ciò che non è Dio, continuando a viverlo in Dio, sottolineando il positivo di quanto accade e trovando un senso in quanto si presenta come negativo. «L’intimo nucleo dell’umorismo» – al dire di Ladislaus Boros – «risiede nella forza del religioso. L’umorismo vede il terreno e l’umano nella loro inadeguatezza dinanzi a Dio, ma li vede nello specchio dell’amore di Dio» e suscita di conseguenza un atteggiamento di amore e di pietà verso il mondo e la storia.

 Ci si è chiesto qual è lo specifico dell’umorismo, che la psicologia annovera tra i meccanismi di difesa, e le risposte lo ricollegano al senso di superiorità con cui affrontare le situazioni della vita, oppure al sollievo che esso suscita nei più disparati frangenti, e infine alla capacità di cogliere senza drammatizzare incongruenze e discrepanze nel pensiero e nell’azione.

L’umorismo relativizza, porta con sé il senso delle proporzioni, ravvisa con occhio serenamente critico l’aspetto positivo o negativo delle vicissitudini dell’esistenza umana, è capace di demitizzare sé e gli altri. Sa vivere, in una parola, dentro le contraddizioni e viene considerato ora come un lubrificante ora come un abrasivo che sblocca rigidità e chiusure, ed è una valvola di scarico delle tensioni e, infine, è un’esperienza liberatoria. Esso acquisisce una portata del tutto singolare quando è autodelatorio, vale a dire rivolto verso se stessi e, se comporta una buona dose di lungimirante modestia, «per un luminoso istante fa scomparire dal nostro orizzonte la violenza e l’intolleranza e il suo bagliore dissipa le tenebre dell’odio» (Moni Ovadia).

Una nota di colore, che non sfigura in una rivista per religiose, è quanto scrive Sigmund Freud, il fondatore della psicoanalisi, che cioè «le donne sviluppano e apprezzano l’umorismo molto più rapidamente degli uomini». Sarà vero?

  

Radice biblica

Parlando dell’umorismo in chiave cristiana, è d’obbligo rifarci alla matrice biblica e anzitutto al pensiero ebraico. Moni Ovadia, l’ebreo scrittore e musicista di origini bulgare, ritiene che il passaggio dal politeismo al monoteismo sia legato a un gesto etico-umoristico con il quale Abramo frantumò gli idoli del padre. La scena si sarebbe svolta così: in assenza di Terach, Abramo spaccò con una mazza statue e statuette, tranne la più grande che era di granito, per poi collocare la mazza tra le sue braccia. Tornato, il padre dette su tutte le furie, incriminando il figlio di quest’atto sacrilego. Ma Abramo dette la colpa agli idoli più piccoli, accusandoli di aver voluto sfidare quello più grande e di avere compiuto un simile scempio davanti ai suoi occhi. Al che Terach reagì dicendo: «Non fare l’idiota. Come è possibile che pezzi di terracotta o di pietra possano combinare un simile disastro?» Ma Abramo replicò: «Perché le tue orecchie non ascoltano ciò che dice la tua bocca? Perché ti inginocchi ad adorare degli inerti pezzi di pietra?»

Una visione disincantata della realtà, che consente di sorridere alla vita nei suoi aspetti tragici e che reagisce di fronte alle derive, spesso drammatiche, della violenza, della stupidità e del pregiudizio ha dato origine a tutta una letteratura, quella dei chassidim, per i quali Dio non è soltanto il creatore del cielo e della terra, ma è anche colui che ha creato la delizia e la gioia (cfr. M. Ovadia, Ridere fa bene anche alle religioni, in Vita e pensiero, n. 2/2004, pp. 127-131). Per questo occorre trovare il lato positivo e provvidenziale degli eventi, e ciò è il compito dell’umorismo.

A esso le Scritture ebraiche e cristiane danno non poco rilievo, soprattutto quando parlano del riso (cfr. R. Poudrier, L’umorismo nella Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996). La letteratura sapienziale afferma che «vi è un tempo per ridere e uno per piangere» (Qo 3,4:) e indaga sulla natura del riso, da quello incredulo di Sara a quello proprio dello stolto, paragonato al «crepitio dei pruni sotto la pentola» (Qo 7,6), mentre «l’uomo saggio sorride in silenzio» (Sir 21,20); e da quello ingannevole (Sir 13,6.12) a quello crudele (Sal 80,7: «I nostri nemici ridono di noi»), per approdare al riso santo (Gb 8,21: «Dio colmerà la bocca di sorriso e le tue labbra di gioia») e al riso cosmico che coinvolge l’intero creato oggetto della benevolenza divina (Sal 65,14: «Tutto canta e grida di gioia»).

Nelle beatitudini lucane si parla di un riso che si converte in pianto e di un pianto che si tradurrà in riso (Lc 6,25; cfr. Gc 4,9). E se «la bocca sorridente rivela quello che (l’uomo) è» (Sir 19,27), il sorriso segnerà l’avvento del regno di Dio: «La nostra bocca si aprì al sorriso», canta il salmista (Sal 126,2). E sotto questo titolo, Alessandro Pronzato ci ha offerto di recente uno dei suoi gustosi saggi.

La successiva riflessione cristiana metterà in rilievo il riso buono, definendolo «tacitus et rarus»: è il riso che viene da una coscienza serena e dalla pregustazione del gaudio celeste; il riso di chi questo gaudio celeste l’ha già conseguito (il riso dei beati); e il riso che viene dalla mitezza e dalla benevolenza della natura, che ricrea, solleva e consola (così si legge nella francescana Summa fratris Alexandri, del XIII secolo). Questo riso rientra nell’undicesimo grado di umiltà di cui parla la Regola di san Benedetto, il santo che esige dal monaco di evitare parole suscitatrici di risate scomposte, ma chiede soavità e garbo nella comunicazione. C’è infatti il rischio che il ridere si trasformi in deridere, così da diventare ironia, sarcasmo, presa in giro, ferita. È il caso di quel «gran riso vincitore» teorizzato da Voltaire.

 

In ambito cristiano 

Su questa base è possibile sviluppare alcune considerazioni che intendono cogliere, se è mai possibile, lo specifico cristiano dell’umorismo, ravvisato in un sorta di “realismo soprannaturale” che sposa la confidenza in Dio con la fedeltà alla Terra e alla Storia. «Il cammino dell’umorismo nella vita spirituale va di pari passo con l’umile amor per la croce e il Crocifisso», leggiamo in un recente articolo che dell’umorismo indaga la natura e la necessità (L. Larivera, Natura e necessità dell’umorismo, in La Civiltà Cattolica, 17 luglio 1904). Un amore che si misura con l’Evento più paradossale della vicenda umana e divina a un tempo e sa cogliere nientemeno che la Vita nella morte, e la morte di… Dio. In questo senso «l’umorismo è proprio di chi, superato l’amore narcisistico di sé, sa apprezzare realisticamente ciò che egli è, tollerando anche la percezione del proprio negativo; anzi è capace di integrarlo. Al tempo stesso, la difesa dell’umorismo protegge la stima poiché consente al soggetto di non prendersi troppo sul serio, di non pretendere troppo da sé, di ridimensionare le proprie debolezze senza farne una tragedia; e, probabilmente, anche di non scaricarle sugli altri». E ancora: «Nell’umorista si nasconde una straordinaria forza di sopportazione e un’irrefrenabile libertà dell’essere; il suo regno è oltre i contrasti terreni e nessuna fredda valutazione riesce a deprimerlo. L’umorismo cristiano è un nuovo modo di essere e di sentire: converte il pessimismo in audacia, il disprezzo in pietà, l’insofferenza del limite in feconda accettazione. Questo sguardo di tenerezza e di indulgenza ci dà la grazia – poiché di una vera grazia si tratta – di ridere di noi stessi: dei nostri fallimenti, dei nostri sogni infranti, dei nostri voli mancati. Il cristiano che ha il senso dell’umorismo, quando cozza contro la disillusione, comprende e sorride: comprende i suoi limiti e sorride del crollo delle sue illusioni. Se da un lato l’umorismo, come senso del relativo e del limite, porta al distacco da sé e si stabilisce nell’umiltà, da un altro è un invito alla fiducia, anzi all’audacia».

In uno studio sulla psicologia dei santi (A. Roche, Psicologia dei santi, Paoline Editoriale Libri, Milano 1992), si faceva notare che «l’umorismo è il sale della vita, in un certo senso è il sale della vita religiosa, il quale la preserva da ogni guasto». Non per nulla l’agiografia conosce santi e sante che lo hanno coltivato come una virtù. E qui andiamo dai Padri del deserto a santi moderni come Filippo Neri, Teresa d’Avila, Francesco di Sales. Essi hanno dimostrato che la persona religiosa vede la vita come spettacolo e sorride di amore, e che senza un’autentica fede religiosa l’umorismo o non esiste o è un suo sottoprodotto.

San Tommaso, sulla scorta di Aristotele, insegna che la virtù propria dell’umorismo è l’eutrapelía che ci trova a un tempo «faceti e urbani». Essa infatti «sa volgere bene in scherzo (solacium) i fatti e le parole» (Summa theologiae, 2.2.168.2). Serietà e gaiezza si fondono nell’eutrapelia, la quale rimanda all’anèr spoudoghéloios del pensiero greco, ossia colui che mescola il serio col faceto.

A quanto pare si tratta di una virtù che non perderà il suo smalto nel regno futuro, se, al dire di Lutero, in una preghiera rivolta al Signore, «tutte le creature proveranno un piacere, un amore, una gioia fisica e rideranno con Te e Tu a tua volta riderai con loro».

 

“Teologia comica”

Su queste premesse, specialmente in tempi recenti, si è sviluppata la cosiddetta “teologia comica”, che parla del Deus ludens e dell’Homo ludens la cui esistenza sarebbe “gioco”, divertimento (si veda W. Thiede, L’ilarità promessa. L’umorismo e la teologia, San Paolo, Cinisello Balsamo 1989). Al Dio che ride è dedicato un midrash del Talmud, il manuale del retto israelita. E sul «Cristo arlecchino» riflette Harvey G. Cox in un capitolo de La festa dei folli. La follia esprime il parossismo dello humour e viene considerata da Erasmo di Rotterdam, che ne scrisse l’Elogio, come «una dea ben accasata nel mondo degli dei», ma anche degli uomini. A cominciare da quei “folli di Dio” che incontriamo nella tradizione agiografica e iconografica russa.

L’umorismo si traduce quindi in un tratto caratteristico, si direbbe fondamentale, dell’esperienza religiosa, e in quella più propriamente cristiana assume forme divenute proverbiali e classiche. Chi non ricorda l’abbondante uso che ne fanno i Padri del deserto, o il famoso “risus paschalis” suscitato dai predicatori dopo le severe catechesi quaresimali (cfr. M.C. Jacobelli, Il Risus paschalis e il fondamento teologico del piacere sessuale, Queriniana 1990), oppure il carnevale che consentiva e consente di dare la stura alla comicità e di risolvere in riso che lenisce le cure della vita?

 La pedagogia cristiana fa ricorso all’umorismo nell’educazione dei giovani con l’istituzione degli oratori. San Giovanni Bosco, che ne fu uno dei pionieri, intendeva, attraverso di essi, rallegrare, educare e istruire, andando ben oltre gli “scherzi da prete” e l’“umorismo di parrocchia”.

All’umorismo ricorre con abbondanza di “storielle” (così le definisce) Anthony de Mello, il gesuita che ha reso familiare in Occidente la tipica modalità con cui nell’Oriente si impartiscono degli insegnamenti attraverso il paradosso e l’ironia. D’altra parte “spiritoso” non deriva da “spirito”? Chi dunque coltiva la vita spirituale non può non avere familiare l’umorismo. Su quest’aspetto il Centro studi religiosi di Modena ha tenuto negli anni 1997-1998, presso la Fondazione Collegio San Carlo, un ciclo di lezioni dal titolo: Il sorriso dello spirito, Banca popolare dell’Emilia Romagna, 2000.

 

Umorismo e vita spirituale

Non ci resta a questo punto che precisare in quale senso la vita spirituale è fonte di umorismo.

Diremo anzitutto che di sua natura la vita spirituale ci àncora all’essenziale (e qui il ruolo della preghiera profonda, eventualmente accompagnata da un buon lavoro sul piano psicologico, è insostituibile). L’uomo spirituale coglie la relatività, la transitorietà e l’illusorietà di tanti aspetti della vita e quindi è in grado di stabilire proporzioni e gerarchia nelle proprie esperienze. Ed è quanto sostanzia il suo umorismo: una visione disincantata e per ciò stesso sorridente e benevola.

A questo si accompagna un maggiore distacco che sfocia in quella “indifferenza”, cara ai santi dell’antichità (parlavano di apàtheia) non meno che a quelli della modernità, e quindi di una rettamente intesa “superiorità”.

A favorire una simile attitudine contribuisce anche il fatto che l’uomo spirituale considera tutto, come si suol dire, “sub specie aeternitatis” e ritiene che tutto sia sotto la regia divina e che la Provvidenza sia arbitra degli eventi umani. È questo il “criterio soprannaturale” che lo ispira e lo guida. E se è vero che la sapienza divina, «dilettandosi sul globo terreste, prende le sue delizie – ludit/gioca1, recita il testo latino – tra i figli dell’uomo» (Prv 8, 31), è altrettanto vero che il suo stile si esprime in un costante capovolgimento delle sorti. La qual cosa non può non ingenerare una visione radicalmente positiva e quindi anche umoristica della vita della persona umana sulla terra e dei suoi ultimi destini. Possiamo dire che nell’uomo (e nella donna) spirituale ottimismo e pessimismo vivono riconciliati, e anche questo sfocia nell’umorismo.

La frequentazione della Parola divina ci consente di penetrare nella mente di Dio, di fare nostro il suo punto di vista, di condividerne lo sguardo. Quello sguardo che – così leggiamo in una impressionante testimonianza – si posò anni fa su una persona dalla condotta viziosa, data per morta (un caso di “pre-morte”) ma fortunatamente tornata in vita, alla quale l’Essere di Luce disse: «Dimmi, adesso (che ti trovi al mio cospetto): ne valeva la pena?»

Possiamo concludere che «un po’ di umorismo è un buon “scivolo” verso l’adorazione», come è stato scritto di recente (M.P. Giudici, Cercare Dio con cuore semplice, AdV, Roma 2004) e come è profondamente vero. 

* Padre Barnabita, docente di Spiritualità.

 

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