n. 2
febbraio 2005

 

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Rimorsi della coscienza

di Guglielmo Minervini

 

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Recentemente sono stati messi in circolazione parecchi pensieri non conformati. Dissonanti. Provocatori. Eretici. Ad esempio, Francesco non è stato il santo della riconciliazione, della nonviolenza, della follia e del paradosso. No. Siamo artefici di un clamoroso equivoco. Abbiamo compreso male, tutti quanti e per molti secoli. Francesco è stato l’espressione della santità media, ragionevole, del buon senso. Amore sì ma anche guerra, se necessario. Il saio della povertà radicale ma anche la spada della sicurezza e della difesa.

Ancora. I duemila anni di storia cristiana che scorrono nelle vene dell’Europa, improvvisamente si riscoprono contaminati da un micidiale virus anticattolico, così aggressivo da richiedere un’immediata terapia di rigetto. Tutta a base di affermazioni nette. Forti. Integralistiche. Così, la laicità, quella delicata affermazione di autonomia nello spazio mondano, così faticosamente conquistata, diviene un’efebica manifestazione di debolezza di fronte ad una realtà amorale e degenere.

Diogneto è ricordo lontano, bisogna ritornare nel mondo con nuove vesti confessionali.

Conta farsi vedere non solo esserci. Conta quello che conti non quello che fai. Conta quello che appari non quello che sei.

 

Conformisti sempre

L’Italia è così. Il conformismo è sempre l’unica risposta al conformismo. Anche quando si chiama anticonformismo. Fronti che si erigono e truppe che si schierano. Non problemi che si sollevano e teste che si confrontano. L’Italia che si spacca sempre in due senza dividersi mai. L’Italia necessariamente pro o contro, maggioranza o minoranza, ma comunque con una zona grigia sempre in allerta, lì nel mezzo, proprio al centro, per le possibili mediazioni. Melodrammatica, perché la realtà non va mai presa del tutto sul serio: comunque, come in una rappresentazione, l’epilogo sistema sempre, anche l’impossibile. Ricompone con un pianto catartico o un abbraccio materno. Le ragioni del buon cuore rendono solubile ogni conflitto, anche l’Italia “a tarallucci e vino” e dell’inciucio. Di quelli che tengono una posizione ma, sottobanco, negoziano comunque un accordo che consenta la condivisione dei benefici.

Certo anche quest’Italia ha le sue eccezioni, le sue resistenze. La Resistenza, il gesto estremo di insurrezione della coscienza che si spinge fino al sacrificio di parti di sé. E della vita, se occorre. Anche quest’Italia è solcata da frontiere morali su cui talvolta scorre il sangue dei suoi giusti e dei suoi eroi. L’Italia dei Falcone, dei Borrelli e dei Caselli, ma anche degli “eroi borghesi”, degli Ambrosoli, di quelli che semplicemente fanno il loro dovere ma hanno la sfortuna di trovarsi in situazioni estreme, eccezionali, appunto. Quest’Italia esiste, scorre nel sottosuolo della cultura nazionale. Talvolta riemerge, persino, nell’ammirazione degli oltre dodici milioni di telespettatori che piangono dinanzi alla memoria del giudice Borsellino. Ma quei dodici milioni di telespettatori forse sono proprio gli stessi che ci stanno ancora, nonostante tutto, all’imbroglio rituale di Sanremo e al morbo del voyeurismo dell’Isola dei Famosi. Non sono due Italie, ma la stessa Italia. Le eccezioni si ammirano ma non si imitano. Si apprezzano ma non si emulano. Fanno orgoglio non costume.

Conformisti nei consumi più che cittadini nello spirito pubblico.

 

Conformisti estremi

Gli psicologi hanno ampiamente dimostrato che costa meno adattarsi che uscire da una consuetudine. Si tende, insomma, al conformismo per una questione di costi. Come una pallina, su una superficie perfettamente levigata, dissipa meno energie a proseguire il moto intrapreso che a modificarlo. E la maggioranza sprigiona sempre una forza uniformante molto più potente di un movimento inerziale. Stare nella maggioranza rassicura, protegge, identifica e giustifica. Senza richiamare i citatissimi studi di Ash e Milgram, ormai sappiamo che una maggioranza può condurre i singoli a forme di perversione estreme, senza generare alcun senso di colpa. La “banalità del male” che la Arendt rinvenne nel generale Eichmann non ha smesso di muovere all’orrore. Non è una meccanica espulsa per indegnità dalle relazioni umane. All’incirca dieci anni fa l’abbiamo vista agire, in un angolo rimosso dell’Africa centrale, nel Rwanda, in un orribile mattanza che ha risucchiato, forse, più di un milione (bisogna scriverlo con le lettere e non con le cifre) di vite umane. Rileggere le testimonianze dei sopravissuti al massacro dei Grandi Laghi significa comprendere che il “mai più” pronunciato all’uscita dei cancelli di Aushwitz è stato violato. Viene violato, ancora.

Dunque, il conformismo è oggetto da maneggiare con cura, perché può provocare effetti catastrofici.

 

Conformisti ma non troppo

D’accordo, si dice che il nostro Paese sia immune da questo rischio. Benché, dal Risorgimento, si continui a iniettare nel senso comune dosi massicce di retorica militare, resta ancora molto radicata la convinzione che l’eroe in armi non rappresenti l’anima nazionale profonda. Di simboli militari sono farcite le piazze delle città, la memoria di sergenti eroici e capitani coraggiosi continua a sopravvivere sulle targhe della toponomastica urbana, ma le loro virtù non sono entrate nel sangue degli italiani. Qualche anno fa un dibattito circa i “caratteri originali” degli italiani in guerra riaccese l’indagine sulle ragioni che rendevano i nostri soldati più propensi alla difesa che all’attacco. I nostri migliori modelli sono i martiri più che i vincitori. Alcuni la buttarono nell’antropologico, i più convincenti sullo storico. Ma sta di fatto che, nonostante le contaminazioni di un mercato senza più alcuna frontiera nazionale, quella straordinaria metafora della cultura nazionale, che è il calcio italiano, ancor oggi è simbolo di melina, non certo di audacia offensiva.

E non è detto che sia negativo. Certo il gioco di melina dissimula la tentazione del parassitismo, la scelta un po’ vigliacca di smettere la partita, assediando il risultato non appena diventa vantaggioso. Il “catenaccio” è quella palude dove si lascia che l’avversario affondi lentamente quando si avverte che tentare di vincerlo sarebbe rischioso e inutile. L’Italia che arriva lontano, magari senza clamore, senza spettacolo, strappando reti soltanto necessarie, al limite del decoro, è un’Italia che ci piace. Nella quale ci riflettiamo. Poiché gli altri sono migliori di noi, l’Italia è sempre pronta ad accontentarsi di vincere per differenza reti pur di non sprecare le energie delle prove decisive. Quest’Italia del minimo sforzo e del minimo rendimento è una cultura.

 

Conformisti saggi

E poiché aveva ragione Croce nello stabilire che il carattere di un popolo è sempre “la sua storia, niente altro che la sua storia”, anche in questo nostro carattere c’è, per intero, la nostra storia. Il nostro modo specifico di interiorizzare gli eventi che abbiamo vissuto. Subìto ma anche agito. E, infatti, è bene non dimenticare che «l’Italia è arata dagli eventi, una casa aperta che è difficile chiudere in se stessa e in essa succede di tutto. L’Italia si difende e si isola male e ha dentro di sé i mille segni degli invasori, i colori e i nomi di terre vicine e lontane, poca purezza e molti transiti, incroci e arrivi. È, forse, per questo che essa conosce un così acuto contrasto tra l’evidenza dell’unità geofisica (lo stivale) e le nevrotiche variazioni e divisioni delle cartine politiche»1.

E allora ci siamo: anche il conformismo nasconde la sua ambivalenza. Fatalismo di fronte agli eventi ma, nel contempo, anche saggezza sulla complessità dei conflitti. Sfiducia nel cambiamento ma anche sobrietà rispetto alle utopie. Disincanto rispetto alle ragioni delle morali ma anche spiccato intuito delle opportunità. Insomma di conformismo si può morire ma si può anche sopravvivere. In questa Italia almeno, in cui il codice materno prevale sempre su quello paterno, e gli affetti sulle norme, e i bisogni sulle regole, e le reti corte del familismo su quelle lunghe delle solidarietà collettive, e la clientela sullo Stato.

 

Conformisti doppi

Può essere che il nostro sia un conformismo di reazione a un’appartenenza nazionale che non è mai stata assoluta. Si sta sempre nella maggioranza per poter continuare a seguire la bussola del proprio interesse particolare. Conformisti fuori per restare individualisti dentro. Proprio come l’italiano medio di Alberto Sordi: il senso comune di qualche pubblica virtù come coperta per celare il pulviscolo dei feriali vizi privati. Simpatico, estroverso, smaliziato ma non sempre innocuo, in alcuni casi anche perfido.

Restiamo conformisti cauti, insomma. Attenti a non farci del male. Attenti a non fare del male. Ma, regge questa immagine dell’Italia che sta nella mischia del catenaccio, restando pur sempre buona e generosa, in cui ogni cosa, alla fine, si aggiusta? Cosa significa conformismo non nel tempo della grande mediazione e dell’infinito compromesso ma in quello dell’astuzia come metodo, dell’inganno come strumento, del proprio interesse come valore unico, esclusivo e supremo?

Per trovare qualche risposta a queste domande è lecito rivolgersi a chi, per funzione o per mestiere, indaga la parte profonda della cultura di una società.

Conformisti ignavi

In altri tempi, invocando l’intrinseca funzione morale della letteratura, sarebbe stato semplice indicare riferimenti della nostra “coscienza civile”. Ad esempio, la ragione illuministica e quindi scettica con la quale Sciascia rivelò il volto oscuro, buio, inquietante, per alcuni versi addirittura assoluto del potere, nascosto dietro il velo della cultura della mediazione nazionale. Oppure, le provocazioni con cui Pasolini descrisse i devastanti effetti di omologazione delle culture popolari (un autentico genocidio, lo definì) prodotti dalla pratica spregiudicata del compromesso con la cultura unica del consumismo e della mercificazione.

Oggi, invece, l’analisi è ferma sull’incapacità dei nostri intellettuali a scendere nel profondo delle trasformazioni in atto per tradurle in parola, in immagine, in coscienza. Lo sguardo gira a vuoto. Non morde. Non affonda. La narrazione semina a piene mani storie ma elude la storia. Innova la forma, fino a produrre esiti stilisticamente arditi, ma è sterile a suscitare parole e idee generatrici. E, allora, non ci resta che citare l’unico sussulto che si avverte, quello dei padri, dei grandi vecchi. Dossetti che infrange il suo silenzio monastico di quasi mezzo secolo per rispondere al dovere interiore di difendere i valori della Costituzione italiana. Scalfaro che interrompe la sua notoria devozione mariana per calcare nelle piazze i presidi della pace e della legalità. E poi Vittorio Foa, Paolo Sylos Labini e da ultimo Mario Luzi, ultraottuagenari che tuonano con determinazione quasi militante contro il rischio di una rassegnazione conformistica di fronte alla disgregazione del nucleo intimo della convivenza della comunità, quel nucleo di valori che tiene coeso il tutto.

Il ritorno dei padri dice del rischio concreto dello sbandamento. Dice che è non lecito rassegnarsi rispetto a una diversa idea di società che rinunci a farsi carico del destino dell’altro. Non è lecito conformarsi nemmeno se questa idea si dovesse radicare nella pancia del Paese e divenire maggioritaria. Perché in quel momento – e ora ci siamo – proprio in quel momento si solleva un dovere superiore, quello dell’insurrezione della coscienza. Arrendersi alla prevalenza di una società regolata dal principio politico dell’“ognuno per sé” significa disporsi alla catastrofe, in un mondo in cui sempre più, al contrario, tutto è intimamente connesso. Accet-tare che l’egoismo sia elevato a collante necessario e sufficiente per fondare un patto di convivenza tra le persone, significa trasformarsi in complici della micidiale frattura che sta divaricando parti di umanità.

Queste evidenze elementari ci dicono i padri, con una passione che ricorda altri tempi. Quando furono convocati dalla loro coscienza e misero a disposizione la loro vita e quella di tanti altri per riuscire a coniugare insieme la libertà e la giustizia e la solidarietà e il benessere e la pace. Fu come quadrare il cerchio, conciliare opzioni politicamente inconciliabili, ma ci provarono. Per molti versi, ci riuscirono.

 

Conformisti fino a un certo punto

C’è un momento, dunque, in cui uscire dal gruppo non è una scelta ma un dovere. Che avverti incontenibile. Devi metterti di traverso, di sbieco, camminare al contrario. In quel momento il dividendo del conformismo non basta più a colmare tutti i costi del tuo bilancio. E, allora, appare chiaro che se le immobilizzazioni materiali (i successi conseguiti, i traguardi tagliati, la sicurezza acquisita) sono importanti nella contabilità di un’esistenza, molto di più lo sono quelle immateriali perché non si occupano di cose ma di senso. In quel momento, possiamo aver scansato tutti gli sguardi scomodi, imbarazzanti, ma non riusciamo a evitare lo sguardo della nostra coscienza intima. C’è sempre, nella vita di ciascuno, un momento in cui quello sguardo ti impone un’operazione verità sul tuo bilancio. Giunga anche solo all’estremo, ultimo momento, come accadde al mercante borghese Ivan Ilich, di Lev Tolstoj.

 

Conformisti ineducati

La vera questione è che a questa contabilità sottile non si educa più. Siamo rassegnati a questo falso in bilancio con la nostra coscienza. Forse, per questa ragione, nel nostro Paese non si è mai radicata una vera cultura pedagogica. Grandi pedagogisti ma non la nobile tradizione del supremo valore della responsabilità interiore. Maria Montessori e Danilo Dolci, Aldo Capitini e don Lorenzo Milani sono riferimenti anche teorici, noti in tutto il mondo ma stranieri, come i loro itinerari biografici peraltro, alla nostra cultura nazionale. La scuola e, dobbiamo riconoscerlo, anche la Chiesa imprimono l’identità non l’autonomia, il valore della norma non quello del giudizio critico. Il fare non l’essere. Mancano i maestri e mancano pure i luoghi dove si continui a formare una “morale attiva” che agisca dentro la coscienza come impulso per la ricerca della verità, che la solleciti al confronto con la propria responsabilità, cioè al dovere di dare una risposta, come persone innanzi tutto, all’altro. Uno scarto, che talvolta appare incolmabile, di modelli.

 

Conformisti idolatri

Così finisce per contare più la dimensione religiosa che quella di fede. Come se la salvezza per un mondo che cammina sul ciglio del burrone possa derivare da un crocifisso obbligato nei luoghi pubblici. O dalla quantità di volte che si pronuncia il nome di Dio nei talk show televisivi o nelle aule di un parlamento. O, anche, dalla citazione delle radici cristiane nelle carte costituzionali.

L’abuso del secondo comandamento è molto più che l’indizio della dilagante profanazione della parola, che giunge a dissacrare persino la suprema e impronunciabile e indicibile Parola comune a tutte le culture. La Parola dinanzi alla quale l’uomo deve sostare con timore e mistero, con senso del profondo, perché del suo infinito significato può cogliere frammenti, come Giacobbe nella lotta con l’Angelo, solo nella sofferta tensione dell’esperienza mistica.

La prostituzione del nome di Dio è la prova che è in atto il tentativo di ridurre il messaggio, il Kerigma dell’uomo di Nazareth, centrato sull’esperienza di fede come insostituibile esperienza di vita, ad un codice di appartenenza valido per una specifica cultura. La nostra, appunto.

Tentativo destinato a rivelarsi vano. Perché sappiamo che quando si abusa del nome di Dio, in realtà, le intenzioni sono sempre ben altre. Coprire discriminazioni. Legittimare ingiustizie. Giustificare guerre. Come tutti gli altri, anche questo tentativo si lascerà dietro solo la memoria di un’ennesima crociata. Ma il Gesù che continua a pulsare ancora nel cuore di questo uomo totalmente secolarizzato, dall’appartenenza ormai molteplice, mutevole, liquida, per dirla con l’efficace metafora di Baumann, è l’ebreo capace di suscitare la forza interiore che giace riposta in ognuno e che ci restituisce alla pienezza dell’amore. Alla pienezza della relazione che non scorre lungo i confini della legge stabiliti dai sacerdoti e dai re. E’ l’ebreo che riconduce la legge alla funzione – fondamentale ma mai assoluta – di strumento e di mezzo, non di fine. Perché il fine, l’unico fine, resta la persona. L’ebreo che s’intrattiene con l’emorroissa, perdona le prostitute, guarisce anche di sabato, pranza con i pubblicani, elogia i samaritani e non gli scribi e i farisei, compie una rivoluzione ben più radicale, insopportabile, eversiva di quella di Copernico: sgretola il potere dell’autorità per rimettere al centro quello dello Spirito che agisce nella coscienza. E’ il Gesù che rompe tutte le barre invisibili del conformismo per restituire ciascuno alla sua libertà e alla sua responsabilità. E si tratta di un fardello non lieve. Fromm ha spiegato perché dal carico della libertà si tende a fuggire, e Dostoevskj, in una delle sue pagine più memorabili, ha lasciato che sia un grande inquisitore a descrivere il superiore fascino della schiavitù rispetto alla libertà di Cristo.

 

Conformisti, è finita!

Il manifesto migliore sul primato della responsabilità della coscienza resta quello lasciatoci da san Paolo nella Lettera ai Romani. Il suo «non conformatevi alla mentalità di questo secolo ma trasformatevi rinnovando la vostra mente» (Rm 2,12) resta l’elogio più bello che sia stato mai scritto all’autonomia della responsabilità. Non la legge giustifica. Nemmeno quella biologica. Nemmeno quella etnica. Solo l’adesione a quell’esperienza di fede, che poi è sempre e ancora soprattutto un’esperienza di vita, giustifica. E’ giudeo non chi invoca un legame di sangue, un vincolo di razza ma chi, rispondendo alla chiamata del Gesù di Nazareth, matura una capacità interiore di scegliere ciò che è giusto. Che è molto più che fare il “bene”.

Il conformismo è finito. Perché ciascuno di noi non abita più, nella sua vita, un solo villaggio ma ne attraversa continuamente tanti, con diversi codici. E poi, perché in un mondo uniformato il conformismo non è più la veste di una cultura, il codice delle maggioranze. La funzione del conformismo coincide oggi con la produzione della banalità. Dell’in-sulsaggine. Del trash. Conformismo non è più pensare come gli altri pensano, ma non pensare. «Il problema principale del nostro tempo è la stupidità», concludeva amaramente Bonhoeffer. E aveva ragione.

Non è più possibile la risposta del conformismo. Servono – e urgentemente – coscienze salde capaci di tenere la barra degli eventi e delle scelte ancorate a una direzione morale. A un’idea di futuro. Perché l’Alleanza non è altro che una promessa di futuro. In fondo.

1. F. Cassano, Paeninsula, Laterza, Bari, 1998, p. 4

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