Recentemente
sono stati messi in circolazione parecchi
pensieri non conformati. Dissonanti. Provocatori. Eretici. Ad esempio,
Francesco non è stato il santo della riconciliazione, della nonviolenza,
della follia e del paradosso. No. Siamo artefici di un clamoroso
equivoco. Abbiamo compreso male, tutti quanti e per molti secoli.
Francesco è stato l’espressione della santità media, ragionevole, del
buon senso. Amore sì ma anche guerra, se necessario. Il saio della
povertà radicale ma anche la spada della sicurezza e della difesa.
Ancora. I duemila anni di storia cristiana
che scorrono nelle vene dell’Europa, improvvisamente si riscoprono
contaminati da un micidiale virus anticattolico, così aggressivo da
richiedere un’immediata terapia di rigetto. Tutta a base di affermazioni
nette. Forti. Integralistiche. Così, la laicità, quella delicata
affermazione di autonomia nello spazio mondano, così faticosamente
conquistata, diviene un’efebica manifestazione di debolezza di fronte ad
una realtà amorale e degenere.
Diogneto è ricordo lontano, bisogna ritornare
nel mondo con nuove vesti confessionali.
Conta farsi vedere non solo esserci. Conta
quello che conti non quello che fai. Conta quello che appari non quello
che sei.
Conformisti sempre
L’Italia è così. Il conformismo è sempre
l’unica risposta al conformismo. Anche quando si chiama anticonformismo.
Fronti che si erigono e truppe che si schierano. Non problemi che si
sollevano e teste che si confrontano. L’Italia che si spacca sempre in
due senza dividersi mai. L’Italia necessariamente pro o contro,
maggioranza o minoranza, ma comunque con una zona grigia sempre in
allerta, lì nel mezzo, proprio al centro, per le possibili mediazioni.
Melodrammatica, perché la realtà non va mai presa del tutto sul serio:
comunque, come in una rappresentazione, l’epilogo sistema sempre, anche
l’impossibile. Ricompone con un pianto catartico o un abbraccio materno.
Le ragioni del buon cuore rendono solubile ogni conflitto, anche
l’Italia “a tarallucci e vino” e dell’inciucio. Di quelli che
tengono una posizione ma, sottobanco, negoziano comunque un accordo che
consenta la condivisione dei benefici.
Certo anche quest’Italia ha le sue eccezioni,
le sue resistenze. La Resistenza, il gesto estremo di insurrezione della
coscienza che si spinge fino al sacrificio di parti di sé. E della vita,
se occorre. Anche quest’Italia è solcata da frontiere morali su cui
talvolta scorre il sangue dei suoi giusti e dei suoi eroi. L’Italia dei
Falcone, dei Borrelli e dei Caselli, ma anche degli “eroi borghesi”,
degli Ambrosoli, di quelli che semplicemente fanno il loro dovere ma
hanno la sfortuna di trovarsi in situazioni estreme, eccezionali,
appunto. Quest’Italia esiste, scorre nel sottosuolo della cultura
nazionale. Talvolta riemerge, persino, nell’ammirazione degli oltre
dodici milioni di telespettatori che piangono dinanzi alla memoria del
giudice Borsellino. Ma quei dodici milioni di telespettatori forse sono
proprio gli stessi che ci stanno ancora, nonostante tutto, all’imbroglio
rituale di Sanremo e al morbo del voyeurismo dell’Isola dei
Famosi. Non sono due Italie, ma la stessa Italia. Le eccezioni si
ammirano ma non si imitano. Si apprezzano ma non si emulano. Fanno
orgoglio non costume.
Conformisti nei consumi più che cittadini
nello spirito pubblico.
Conformisti estremi
Gli psicologi hanno ampiamente dimostrato che
costa meno adattarsi che uscire da una consuetudine. Si tende, insomma,
al conformismo per una questione di costi. Come una pallina, su una
superficie perfettamente levigata, dissipa meno energie a proseguire il
moto intrapreso che a modificarlo. E la maggioranza sprigiona sempre una
forza uniformante molto più potente di un movimento inerziale. Stare
nella maggioranza rassicura, protegge, identifica e giustifica. Senza
richiamare i citatissimi studi di Ash e Milgram, ormai sappiamo che una
maggioranza può condurre i singoli a forme di perversione estreme, senza
generare alcun senso di colpa. La “banalità del male” che la Arendt
rinvenne nel generale Eichmann non ha smesso di muovere all’orrore. Non
è una meccanica espulsa per indegnità dalle relazioni umane. All’incirca
dieci anni fa l’abbiamo vista agire, in un angolo rimosso dell’Africa
centrale, nel Rwanda, in un orribile mattanza che ha risucchiato, forse,
più di un milione (bisogna scriverlo con le lettere e non con le cifre)
di vite umane. Rileggere le testimonianze dei sopravissuti al massacro
dei Grandi Laghi significa comprendere che il “mai più” pronunciato
all’uscita dei cancelli di Aushwitz è stato violato. Viene violato,
ancora.
Dunque, il conformismo è oggetto da
maneggiare con cura, perché può provocare effetti catastrofici.
Conformisti ma non troppo
D’accordo, si dice che il nostro Paese sia
immune da questo rischio. Benché, dal Risorgimento, si continui a
iniettare nel senso comune dosi massicce di retorica militare, resta
ancora molto radicata la convinzione che l’eroe in armi non rappresenti
l’anima nazionale profonda. Di simboli militari sono farcite le piazze
delle città, la memoria di sergenti eroici e capitani coraggiosi
continua a sopravvivere sulle targhe della toponomastica urbana, ma le
loro virtù non sono entrate nel sangue degli italiani. Qualche anno fa
un dibattito circa i “caratteri originali” degli italiani in guerra
riaccese l’indagine sulle ragioni che rendevano i nostri soldati più
propensi alla difesa che all’attacco. I nostri migliori modelli sono i
martiri più che i vincitori. Alcuni la buttarono nell’antropologico, i
più convincenti sullo storico. Ma sta di fatto che, nonostante le
contaminazioni di un mercato senza più alcuna frontiera nazionale,
quella straordinaria metafora della cultura nazionale, che è il calcio
italiano, ancor oggi è simbolo di melina, non certo di audacia
offensiva.
E non è detto che sia negativo. Certo il
gioco di melina dissimula la tentazione del parassitismo, la scelta un
po’ vigliacca di smettere la partita, assediando il risultato non appena
diventa vantaggioso. Il “catenaccio” è quella palude dove si lascia che
l’avversario affondi lentamente quando si avverte che tentare di
vincerlo sarebbe rischioso e inutile. L’Italia che arriva lontano,
magari senza clamore, senza spettacolo, strappando reti soltanto
necessarie, al limite del decoro, è un’Italia che ci piace. Nella quale
ci riflettiamo. Poiché gli altri sono migliori di noi, l’Italia è sempre
pronta ad accontentarsi di vincere per differenza reti pur di non
sprecare le energie delle prove decisive. Quest’Italia del minimo sforzo
e del minimo rendimento è una cultura.
Conformisti saggi
E poiché aveva ragione Croce nello stabilire
che il carattere di un popolo è sempre “la sua storia, niente altro che
la sua storia”, anche in questo nostro carattere c’è, per intero, la
nostra storia. Il nostro modo specifico di interiorizzare gli eventi che
abbiamo vissuto. Subìto ma anche agito. E, infatti, è bene non
dimenticare che «l’Italia è arata dagli eventi, una casa aperta che è
difficile chiudere in se stessa e in essa succede di tutto. L’Italia si
difende e si isola male e ha dentro di sé i mille segni degli invasori,
i colori e i nomi di terre vicine e lontane, poca purezza e molti
transiti, incroci e arrivi. È, forse, per questo che essa conosce un
così acuto contrasto tra l’evidenza dell’unità geofisica (lo stivale) e
le nevrotiche variazioni e divisioni delle cartine politiche»1.
E allora ci siamo: anche il conformismo
nasconde la sua ambivalenza. Fatalismo di fronte agli eventi ma, nel
contempo, anche saggezza sulla complessità dei conflitti. Sfiducia nel
cambiamento ma anche sobrietà rispetto alle utopie. Disincanto rispetto
alle ragioni delle morali ma anche spiccato intuito delle opportunità.
Insomma di conformismo si può morire ma si può anche sopravvivere. In
questa Italia almeno, in cui il codice materno prevale sempre su quello
paterno, e gli affetti sulle norme, e i bisogni sulle regole, e le reti
corte del familismo su quelle lunghe delle solidarietà collettive, e la
clientela sullo Stato.
Conformisti doppi
Può essere che il nostro sia un conformismo
di reazione a un’appartenenza nazionale che non è mai stata assoluta. Si
sta sempre nella maggioranza per poter continuare a seguire la bussola
del proprio interesse particolare. Conformisti fuori per restare
individualisti dentro. Proprio come l’italiano medio di Alberto Sordi:
il senso comune di qualche pubblica virtù come coperta per celare il
pulviscolo dei feriali vizi privati. Simpatico, estroverso, smaliziato
ma non sempre innocuo, in alcuni casi anche perfido.
Restiamo conformisti cauti, insomma. Attenti
a non farci del male. Attenti a non fare del male. Ma, regge questa
immagine dell’Italia che sta nella mischia del catenaccio, restando pur
sempre buona e generosa, in cui ogni cosa, alla fine, si aggiusta? Cosa
significa conformismo non nel tempo della grande mediazione e
dell’infinito compromesso ma in quello dell’astuzia come metodo,
dell’inganno come strumento, del proprio interesse come valore unico,
esclusivo e supremo?
Per trovare qualche risposta a queste domande
è lecito rivolgersi a chi, per funzione o per mestiere, indaga la parte
profonda della cultura di una società.
Conformisti ignavi
In altri tempi, invocando l’intrinseca
funzione morale della letteratura, sarebbe stato semplice indicare
riferimenti della nostra “coscienza civile”. Ad esempio, la ragione
illuministica e quindi scettica con la quale Sciascia rivelò il volto
oscuro, buio, inquietante, per alcuni versi addirittura assoluto del
potere, nascosto dietro il velo della cultura della mediazione
nazionale. Oppure, le provocazioni con cui Pasolini descrisse i
devastanti effetti di omologazione delle culture popolari (un autentico
genocidio, lo definì) prodotti dalla pratica spregiudicata del
compromesso con la cultura unica del consumismo e della mercificazione.
Oggi, invece, l’analisi è ferma
sull’incapacità dei nostri intellettuali a scendere nel profondo delle
trasformazioni in atto per tradurle in parola, in immagine, in
coscienza. Lo sguardo gira a vuoto. Non morde. Non affonda. La
narrazione semina a piene mani storie ma elude la storia. Innova la
forma, fino a produrre esiti stilisticamente arditi, ma è sterile a
suscitare parole e idee generatrici. E, allora, non ci resta che citare
l’unico sussulto che si avverte, quello dei padri, dei grandi vecchi.
Dossetti che infrange il suo silenzio monastico di quasi mezzo secolo
per rispondere al dovere interiore di difendere i valori della
Costituzione italiana. Scalfaro che interrompe la sua notoria devozione
mariana per calcare nelle piazze i presidi della pace e della legalità.
E poi Vittorio Foa, Paolo Sylos Labini e da ultimo Mario Luzi,
ultraottuagenari che tuonano con determinazione quasi militante contro
il rischio di una rassegnazione conformistica di fronte alla
disgregazione del nucleo intimo della convivenza della comunità, quel
nucleo di valori che tiene coeso il tutto.
Il ritorno dei padri dice del rischio
concreto dello sbandamento. Dice che è non lecito rassegnarsi rispetto a
una diversa idea di società che rinunci a farsi carico del destino
dell’altro. Non è lecito conformarsi nemmeno se questa idea si dovesse
radicare nella pancia del Paese e divenire maggioritaria. Perché in quel
momento – e ora ci siamo – proprio in quel momento si solleva un dovere
superiore, quello dell’insurrezione della coscienza. Arrendersi alla
prevalenza di una società regolata dal principio politico dell’“ognuno
per sé” significa disporsi alla catastrofe, in un mondo in cui sempre
più, al contrario, tutto è intimamente connesso. Accet-tare che
l’egoismo sia elevato a collante necessario e sufficiente per fondare un
patto di convivenza tra le persone, significa trasformarsi in complici
della micidiale frattura che sta divaricando parti di umanità.
Queste evidenze elementari ci dicono i padri,
con una passione che ricorda altri tempi. Quando furono convocati dalla
loro coscienza e misero a disposizione la loro vita e quella di tanti
altri per riuscire a coniugare insieme la libertà e la giustizia e la
solidarietà e il benessere e la pace. Fu come quadrare il cerchio,
conciliare opzioni politicamente inconciliabili, ma ci provarono. Per
molti versi, ci riuscirono.
Conformisti fino a un certo punto
C’è un momento, dunque, in cui uscire dal
gruppo non è una scelta ma un dovere. Che avverti incontenibile. Devi
metterti di traverso, di sbieco, camminare al contrario. In quel momento
il dividendo del conformismo non basta più a colmare tutti i costi del
tuo bilancio. E, allora, appare chiaro che se le immobilizzazioni
materiali (i successi conseguiti, i traguardi tagliati, la sicurezza
acquisita) sono importanti nella contabilità di un’esistenza, molto di
più lo sono quelle immateriali perché non si occupano di cose ma di
senso. In quel momento, possiamo aver scansato tutti gli sguardi
scomodi, imbarazzanti, ma non riusciamo a evitare lo sguardo della
nostra coscienza intima. C’è sempre, nella vita di ciascuno, un momento
in cui quello sguardo ti impone un’operazione verità sul tuo bilancio.
Giunga anche solo all’estremo, ultimo momento, come accadde al mercante
borghese Ivan Ilich, di Lev Tolstoj.
Conformisti ineducati
La vera questione è che a questa contabilità
sottile non si educa più. Siamo rassegnati a questo falso in bilancio
con la nostra coscienza. Forse, per questa ragione, nel nostro Paese non
si è mai radicata una vera cultura pedagogica. Grandi pedagogisti ma non
la nobile tradizione del supremo valore della responsabilità interiore.
Maria Montessori e Danilo Dolci, Aldo Capitini e don Lorenzo Milani sono
riferimenti anche teorici, noti in tutto il mondo ma stranieri, come i
loro itinerari biografici peraltro, alla nostra cultura nazionale. La
scuola e, dobbiamo riconoscerlo, anche la Chiesa imprimono l’identità
non l’autonomia, il valore della norma non quello del giudizio critico.
Il fare non l’essere. Mancano i maestri e mancano pure i luoghi dove si
continui a formare una “morale attiva” che agisca dentro la coscienza
come impulso per la ricerca della verità, che la solleciti al confronto
con la propria responsabilità, cioè al dovere di dare una risposta, come
persone innanzi tutto, all’altro. Uno scarto, che talvolta appare
incolmabile, di modelli.
Conformisti idolatri
Così finisce per contare più la dimensione
religiosa che quella di fede. Come se la salvezza per un mondo che
cammina sul ciglio del burrone possa derivare da un crocifisso obbligato
nei luoghi pubblici. O dalla quantità di volte che si pronuncia il nome
di Dio nei talk show televisivi o nelle aule di un parlamento. O, anche,
dalla citazione delle radici cristiane nelle carte costituzionali.
L’abuso del secondo comandamento è molto più
che l’indizio della dilagante profanazione della parola, che giunge a
dissacrare persino la suprema e impronunciabile e indicibile Parola
comune a tutte le culture. La Parola dinanzi alla quale l’uomo deve
sostare con timore e mistero, con senso del profondo, perché del suo
infinito significato può cogliere frammenti, come Giacobbe nella lotta
con l’Angelo, solo nella sofferta tensione dell’esperienza mistica.
La prostituzione del nome di Dio è la prova
che è in atto il tentativo di ridurre il messaggio, il Kerigma
dell’uomo di Nazareth, centrato sull’esperienza di fede come
insostituibile esperienza di vita, ad un codice di appartenenza valido
per una specifica cultura. La nostra, appunto.
Tentativo destinato a rivelarsi vano. Perché
sappiamo che quando si abusa del nome di Dio, in realtà, le intenzioni
sono sempre ben altre. Coprire discriminazioni. Legittimare ingiustizie.
Giustificare guerre. Come tutti gli altri, anche questo tentativo si
lascerà dietro solo la memoria di un’ennesima crociata. Ma il Gesù che
continua a pulsare ancora nel cuore di questo uomo totalmente
secolarizzato, dall’appartenenza ormai molteplice, mutevole, liquida,
per dirla con l’efficace metafora di Baumann, è l’ebreo capace di
suscitare la forza interiore che giace riposta in ognuno e che ci
restituisce alla pienezza dell’amore. Alla pienezza della relazione che
non scorre lungo i confini della legge stabiliti dai sacerdoti e dai re.
E’ l’ebreo che riconduce la legge alla funzione – fondamentale ma mai
assoluta – di strumento e di mezzo, non di fine. Perché il fine, l’unico
fine, resta la persona. L’ebreo che s’intrattiene con l’emorroissa,
perdona le prostitute, guarisce anche di sabato, pranza con i
pubblicani, elogia i samaritani e non gli scribi e i farisei, compie una
rivoluzione ben più radicale, insopportabile, eversiva di quella di
Copernico: sgretola il potere dell’autorità per rimettere al centro
quello dello Spirito che agisce nella coscienza. E’ il Gesù che rompe
tutte le barre invisibili del conformismo per restituire ciascuno alla
sua libertà e alla sua responsabilità. E si tratta di un fardello non
lieve. Fromm ha spiegato perché dal carico della libertà si tende a
fuggire, e Dostoevskj, in una delle sue pagine più memorabili, ha
lasciato che sia un grande inquisitore a descrivere il superiore fascino
della schiavitù rispetto alla libertà di Cristo.
Conformisti, è finita!
Il manifesto migliore sul primato della
responsabilità della coscienza resta quello lasciatoci da san Paolo
nella Lettera ai Romani. Il suo «non conformatevi alla mentalità di
questo secolo ma trasformatevi rinnovando la vostra mente» (Rm 2,12)
resta l’elogio più bello che sia stato mai scritto all’autonomia della
responsabilità. Non la legge giustifica. Nemmeno quella biologica.
Nemmeno quella etnica. Solo l’adesione a quell’esperienza di fede, che
poi è sempre e ancora soprattutto un’esperienza di vita, giustifica. E’
giudeo non chi invoca un legame di sangue, un vincolo di razza ma chi,
rispondendo alla chiamata del Gesù di Nazareth, matura una capacità
interiore di scegliere ciò che è giusto. Che è molto più che fare il
“bene”.
Il conformismo è finito. Perché ciascuno di
noi non abita più, nella sua vita, un solo villaggio ma ne attraversa
continuamente tanti, con diversi codici. E poi, perché in un mondo
uniformato il conformismo non è più la veste di una cultura, il codice
delle maggioranze. La funzione del conformismo coincide oggi con la
produzione della banalità. Dell’in-sulsaggine. Del trash.
Conformismo non è più pensare come gli altri pensano, ma non pensare.
«Il problema principale del nostro tempo è la stupidità», concludeva
amaramente Bonhoeffer. E aveva ragione.
Non è più possibile la risposta del
conformismo. Servono – e urgentemente – coscienze salde capaci di tenere
la barra degli eventi e delle scelte ancorate a una direzione morale. A
un’idea di futuro. Perché l’Alleanza non è altro che una promessa di
futuro. In fondo.
1. F. Cassano,
Paeninsula, Laterza, Bari, 1998, p. 4