|
|
|
|
I l
dominio di sé è forse oggi
una virtù dimenticata. Raramente, infatti, ne sentiamo parlare,
quasi che il praticarlo non sia importante per la crescita globale della
persona. Anche il termine autocontrollo sembra non essere più
così di moda e, benché i due termini non si equivalgano, i motivi per
cui essi sono entrati in disuso si possono far risalire alle stesse
cause, principalmente di ordine antropologico.
Il concetto di autocontrollo,
infatti, presuppone implicitamente una visione dell’essere umano come
persona che “deve”, “ha bisogno di” porsi dei limiti. Esso riconosce
all’interno dell’individuo la presenza di tendenze istintive che
necessitano un contenimento: le spinte contraddittorie, presenti nella
nostra interiorità, non possono esprimersi liberamente, altrimenti
l’individuo sarebbe incessantemente coinvolto in una lotta estenuante
tra pulsioni contrastanti. Egli ha dunque bisogno di porre dei confini
alle forze e ai dinamismi che lo abitano i quali, se non venissero
controllati, finirebbero per trasformare il suo mondo interno in un caos
o impedirgli di vivere relazioni interpersonali serene.
Le teorie psicoanalitiche mettono in
risalto come il benessere della persona dipenda in gran parte dal
raggiungimento di un equilibrio interiore; esso si acquisisce attraverso
un saggio contenimento delle forze istintuali che, se incanalate verso
scopi socialmente accettabili, permettono all’individuo di gratificare
le proprie pulsioni, senza porre ostacoli a una sana convivenza civile.
Così, per esempio, il soggetto aggressivo può indirizzare la sua collera
verso attività che, nello stesso tempo, gli permettono di scaricare la
tensione creata dalle sue tendenze istintive: potrà allora dedicarsi ad
occupazioni quale quella del macellaio o addirittura del chirurgo, a
mestieri o professioni con componenti aggressive, ma capaci di
incanalarle in modo contemporaneamente controllato e socialmente utile.
Il presupposto antropologico di
queste teorie ritiene che la persona trovi il proprio appagamento se è
inserita in un ambiente in cui tutti fanno uno sforzo per contenere le
proprie spinte interne a beneficio della collettività. L’autocontrollo,
di conseguenza, è finalizzato a un benessere personale e sociale nello
stesso tempo.
Nel contesto culturale attuale non
risulta però così naturale coniugare simultaneamente benessere
personale e benessere collettivo; al contrario, per paura che
il secondo prevalga sul primo, la persona si sente in diritto di
affermare la propria individualità, le sue esigenze, il diritto di
essere ciò che è, senza curarsi degli altri. Per questo motivo,
per esempio, quella stessa aggressività che un tempo si consigliava di
sublimare, orientandola verso scopi socialmente accettabili, ora
viene percepita come una forza da esprimere, da “scaricare”, così come
è, nel momento in cui la si prova, senza preoccuparsi molto del suo
effetto sugli altri. L’autocontrollo, di conseguenza, invece che
strumento di crescita personale e mezzo di benessere individuale e
collettivo, è da molti sentito come una gabbia, un contenitore
paralizzante degli impulsi dell’individuo, una prigione per una psiche
che, al contrario, ha il diritto di “sentire” ed “esprimere” in libertà.
Gettar fuori o
sublimare?
Rispetto a queste due prospettive
psicologiche, di cui la seconda sembra essere attualmente molto più di
moda rispetto alla prima, qual è l’alternativa più “sana” per la persona
desiderosa di vivere serenamente e in armonia con se stessa e con gli
altri?
L’assenza di autocontrollo, oltre che
tipicamente infantile, sembra, in ultima analisi, anche molto
controproducente: essa rischia, infatti, di far prevalere le ragioni del
più forte e di trasformare il mondo in cui si vive in una sorta di
giungla, dove ha la meglio chi esprime nel modo più violento la propria
istintualità. è quindi
molto più proficuo imparare a contenere le pulsioni, orientandole verso
un fine più valido e utile, che permetta alla persona di mantenere un
certo benessere interiore, senza creare danno, ma arrecando invece dei
vantaggi agli altri, oltre che a se stessi.
è
difficile però pensare che un individuo, guidato semplicemente da forze
istintuali, trovi la forza, la disponibilità, il coraggio di contenere
gli impulsi, per incanalarli verso una direzione più appropriata o un
bene comunitario.
Per parlare di vero autocontrollo,
quindi, è necessario ampliare la propria concezione dell’uomo. Un
effettivo e maturo controllo di se stessi richiede, infatti, almeno due
requisiti fondamentali: l’acquisizione della capacità di non lasciarsi
guidare unicamente dagli interessi personali, quegli stessi interessi
che rischiano di motivare il nostro agire, e il riconoscimento delle
forze che, con un termine forse semplicistico, possiamo definire come
“negative”, presenti all’interno del cuore umano.
Il dominio di sé presuppone, infatti,
la disponibilità ad andare al di là di ciò che Freud definiva come il
principio del piacere, la spinta a soddisfare gli impulsi
psicologici in modo istantaneo, al fine di ottenere un benessere
immediato. Questo comportamento, tipico del neonato e del bambino, deve
essere sostituito da criteri più adeguati, capaci di prendere in
considerazione non solo l’istintualità della persona, ma anche le
necessità degli altri, della società. Al principio di piacere si
sostituisce così il principio di realtà, che dilata l’orizzonte
dell’individuo, facendogli considerare, accanto a ciò che è appetibile,
anche quanto è utile e proficuo.
Controllo di sé e dominio di sé
Il passaggio dal principio del
piacere, dalla spinta immediata a gratificare le pulsioni, al
principio di realtà, che induce a prendere in considerazione criteri
più oggettivi rispetto al puro benessere personale, non è tuttavia
sufficiente per definire un controllo di sé maturo. Il motivo per cui
una persona decide di soprassedere alla soddisfazione dei propri bisogni
psicologici può, infatti, trascendere il solo criterio di utilità
sociale o di maggior benessere individuale. Io divento capace di
limitare la mia insaziabile voglia di dolci, perché capisco che
sarebbero dannosi per la salute; nello stesso modo riesco a mordermi la
lingua, per non rispondere in modo maleducato alla consorella quando mi
accusa di disturbarla con il rumore del mio silenziosissimo computer,
solo perché non sopporta che io abbia a disposizione uno strumento che
lei non sa usare o non può utilizzare. Mi trattengo ai fini di una buona
convivenza, per evitare un conflitto, per cercare di non crearmi inutili
guai.
Esistono però in noi motivazioni più
solide, capaci di indurci a un controllo dell’impulsività. Esse non si
basano su criteri di opportunità o di utilità, ma su un orientamento
profondo dell’essere umano; in questo caso la persona non si limita a
prendere in considerazione ciò che più piace o più conviene, ma vuole
invece lasciarsi guidare dai valori, in particolare da quell’unico
valore in grado di sintetizzare tutte le possibili motivazioni
dell’agire umano: la carità verso Dio e verso i fratelli e le sorelle.
In questa linea si pone una sana
psicologia, i cui presupposti antropologici non contraddicono ma, al
contrario, confermano la visione dell’essere umano proposta dalla fede
cristiana. Essa ci permette di dilatare lo sguardo e di considerare
l’autocontrollo non solo come effetto positivo dell’impegno delle nostre
forze psichiche, capaci di contenere un’impulsività eccessiva, ma anche
come frutto di una sinergia. Questo termine, tanto caro ai Padri
della Chiesa, indica una collaborazione, una cooperazione tra l’azione
dello Spirito santo e quella delle forze umane, orientate in un’unica
direzione: la trasformazione dell’uomo, perché diventi sempre più
fatto a immagine di Dio, sul cui volto interiore si riflettono i
lineamenti del Figlio.
In quest’ottica il controllo della
propria persona, necessità imprescindibile dell’essere umano, si
configura come dono da accogliere e non solo come impegno da
assumere. Il dominio di sé, ci dice san Paolo, è un frutto
dello Spirito (Gal 5,22) ed è dunque risultato dell’opera che un
Altro compie dentro di noi. Di conseguenza deve essere prima di tutto
desiderato, percepito come una necessità, come un bisogno
impellente; per questo motivo esso esige la disponibilità a riconoscersi
peccatori, a confessare la propria debolezza e la presenza di zone
oscure, incontrollate, mal orientate, nelle profondità del nostro
essere. Il dominio di sé non è quindi una questione di opportunità, una
necessità nata dalla convivenza sociale, di cui potremmo fare a meno se
coloro che ci vivono accanto fossero disposti ad accogliere le nostre
intemperanze. Esso è, al contrario, una questione di felicità:
l’essere umano, infatti, ha bisogno di mettere ordine nel suo mondo
interiore, poiché la dispersione e la frammentazione gl’impediscono di
diventare ciò che è chiamato ad essere, di realizzare quell’immagine che
costituisce la sua vocazione unica e personale e il compimento di ogni
sua aspirazione profonda.
Lo
Spirito santo, creatore di armonia
Se il dominio di sé è un frutto dello
Spirito santo, possiamo allora pensarlo come effetto di un agire
armonioso e non come un contenimento, un’imposizione, tanto meno come un
freno o una limitazione di forze positive. Lo Spirito, infatti, non
ingabbia, ma armonizza. Nel primo capitolo della Genesi lo vediamo
librarsi sulle acque, mentre il caos si trasforma in cosmo, in un’opera
buona e bella, che il Creatore contempla con gioia e ammirazione. Questa
stessa opera Egli la compie in noi, trasformando il “guazzabuglio” del
nostro cuore in uno spazio ordinato, armonioso, affinché diventi quella
dimora in cui la Trinità desidera abitare (cfr. Gv 14,23).
Perché questo avvenga, sono
necessarie accoglienza e collaborazione da parte dell’uomo, il suo
mettere a disposizione dello Spirito le proprie forze psichiche, perché
Egli le indirizzi, le converta, le purifichi. Tutta la persona è allora
coinvolta in questa “piccola creazione”, che si compie a livello
individuale, in questa trasfigurazione il cui fine è di rendere
trasparenti tutte le potenzialità della persona umana, capaci quindi
di lasciar intravedere la presenza divina nascosta nelle profondità del
nostro essere. Si tratta di permettere allo Spirito, nostro Liberatore,
di svincolarci da tutte le difese che c’ingabbiano, di cancellare le
opacità che ci rendono tenebrosi, di convertire gli istinti distruttivi,
trasformandoli in forze buone, orientate alla crescita.
L’opera che dobbiamo lasciargli
compiere in noi riguarderà pertanto ogni ambito della nostra
persona, perché tutto, nel nostro mondo interiore, deve essere visitato
dallo Spirito, il quale, come un perfetto Architetto, trasforma il
nostro spazio caotico e disordinato in una perfetta dimora, chiamata ad
accogliere il Re dei Re.
Che cosa controllare?
Quali sono gli ambiti in cui
praticare il dominio di sé? Quali sono gli spazi del nostro mondo
interiore in cui lo Spirito santo desidera esercitare il suo compito di
creatore d’armonia?
Sono numerose le zone della nostra
persona che necessitano l’azione dello Spirito santo; qui ci limiteremo
ad accogliere alcuni suggerimenti proposti dalle scienze umane, in cui
ritroviamo però una profonda sintonia con quanto l’ascesi tradizionale
ha sempre suggerito.
Paradossalmente, proprio il
bisogno di controllare costituisce uno degli aspetti su cui è
importante esercitare una forma di autodisciplina. Il dominio di sé
comporta, infatti, la capacità di porre un limite al bisogno di
padroneggiare la realtà, alla tentazione, che costantemente ci abita, di
“pilotare” gli avvenimenti della nostra vita e tenere in pugno il
destino personale. La capacità di controllo, infatti, esprime una
dimensione molto ambivalente della persona: essa manifesta innanzi tutto
una vocazione a cui l’uomo è chiamato. Nel giardino dell’Eden Dio ha
affidato all’essere umano il dominio sul creato, perché potesse
esprimere la sua signoria sulle cose e sugli esseri animati, quella
signoria che fa di lui il vertice della creazione, il mediatore tra Dio
e il cosmo. Con il peccato, però, questo dominio sulla realtà si è
deformato: l’uomo non l’ha più usato unicamente per compiere ciò a cui
Dio lo aveva chiamato, ma l’ha utilizzato in forma autoprotettiva, per i
propri fini personali ed egocentrici. Divenuto mortale e schiavo del
peccato, ha utilizzato la sua capacità di controllo per proteggersi,
difendersi e salvaguardare la propria persona. La sua mente, allora, è
diventata una fucina di pensieri, aventi lo scopo preciso di preservarlo
dai pericoli, di non incorrere in situazioni dannose, dolorose,
frustranti. A tal fine egli ha imparato ad anticipare il futuro,
prevedendo fatti, situazioni, possibilità, in modo da essere pronto ad
affrontarle in caso di pericolo.
Tale atteggiamento, però, ha fatto sì
che il suo mondo interiore, invece che uno spazio accogliente, capace di
ospitare Dio e i fratelli di cui era chiamato a prendersi cura, è
diventato un luogo affollato di pensieri, di preoccupazioni, di ipotesi
e previsioni, spesso in vista di qualcosa che… non accadrà mai. Abbiamo
imparato a ruminare e, invece di meditare e conservare nel
cuore le grandi cose che Dio opera nella nostra vita, rischiamo di
essere costantemente protesi verso il futuro, domandandoci che cosa fare
e come reagire qualora dovesse verificarsi un evento prospettato solo
dalla nostra fantasia, ma soprattutto dalla nostra ansia.
Tale atteggiamento ci allontana dalla
nostra vocazione fondamentale, dalla chiamata ad essere figli di Dio. Il
figlio, lo sappiamo, non si preoccupa, perché il suo atteggiamento
qualificante è una totale dipendenza dal Padre, il quale sa di quali
cose abbiamo bisogno (MT 6,8). Il figlio non anticipa, ma si
abbandona, in un atteggiamento di totale e assoluta fiducia nei
confronti del Padre. Non ha bisogno di prevedere, ma vive il momento
presente, convinto che in esso troverà tutta la grazia di cui ha
bisogno, istante dopo istante.
Quando questa necessità di
controllare è mal orientata, provoca conseguenze molto pericolose per le
persone; in particolare, per quanto riguarda la dimensione psicologica,
essa acuisce la naturale inquietudine dell’essere umano e talvolta
favorisce perfino lo sviluppo di patologie. Non sono rari i film,
comparsi in questi ultimi anni, i cui personaggi principali presentano
sintomi indicatori di un eccessivo bisogno di controllare la realtà:
pensiamo al protagonista di A beautiful mind, il quale riesce a
scoprire il mistero nascosto nei codici segreti che lui solo sa
decifrare, ma viene travolto dalle sue paure fino a precipitare nella
più grave pazzia, o al Jack Nikolson di Qualcosa è cambiato, che
controlla le sue nevrosi attraverso una quantità infinita di gesti e
atti rituali. Anche la persona più normale, però, sperimenta l’effetto
negativo del suo bisogno di controllare, quando esso si esprime in
pensieri continui, in preoccupazioni che occupano la mente, influiscono
sull’umore, rendono distratti, meno efficienti, inquieti. Il credente,
poi, se è attento alla sua vita spirituale, si rende conto di come il
continuo rimuginare non solo crea ostacoli a livello psicologico, ma
occupa anche la mente, lasciando poco spazio per Dio, per orientare il
proprio agire verso di Lui, pensare a Lui, vivere in e per Lui.
Consapevole di questa mancanza di
controllo, che paradossalmente risiede proprio nel suo eccesso, l’ascesi
tradizionale ha proposto l’arte della purificazione del cuore,
attraverso la quale il cristiano apprende a liberarsi dai pensieri,
dalle fantasie, dalle immaginazioni che distolgono la sua attenzione da
Dio e lo rendono schiavo e non figlio, ripiegato su di sé invece che
rivolto verso il Padre.
Purificazione del
cuore
Sappiamo che il cuore per la
tradizione ebraica, e in seguito anche per quella patristica, non
costituisce la sede delle emozioni, come noi occidentali siamo portati a
ritenere. Esso è invece lo sguardo interiore, il modo in cui si pensa,
si reagisce, si ragiona e si giudica. Non è quindi difficile intuire il
nesso profondo che esiste tra quest’arte ascetica, sviluppatasi
soprattutto presso i Padri del deserto, e il dominio di sé. La capacità
di controllare il proprio agire, la possibilità di dominare se stessi
evitando il vizio e praticando la virtù, nasce infatti dall’interno, da
quel centro intimo dove formuliamo giudizi e operiamo scelte, un centro
che può essere quieto e sereno, come un calmo lago alpino, o caotico e
trafficato, talvolta simile alla stazione metropolitana di una grande
città, nell’ora di punta.
Il dominio di sé, quindi, non è prima
di tutto una questione di controllo della volontà, frutto di
irrigidimento, o una sorta di “alpinismo spirituale”, che induce la
persona a una continua auto-osservazione perché venga eliminato tutto
ciò che potrebbe distoglierla da Dio. Indubbiamente, anche se consiste
prima di tutto in un dono, esso esige la partecipazione costante
dell’individuo; si tratta però di una collaborazione che non è mai
frutto di una forzatura, ma effetto di una pacificazione, la cui origine
si colloca all’interno, nel cuore.
è infatti impossibile
controllare o, ancora meglio, orientare nella direzione voluta il
proprio agire, se manca l’attenzione ai pensieri, alle immaginazioni,
preoccupazioni, fantasie che ci abitano e sono capaci di condizionare
non solo il sentire ma anche l’operare.
Il dominio di sé esige la
purificazione interiore, perché l’agire è frutto dello sguardo del
cuore. Prendiamo in esame, per esempio, uno degli ambiti che possiamo
giustamente considerare come una tra le maggiori cause di tensione
all’interno della vita consacrata: i conflitti comunitari, le difficoltà
di relazione fra sorelle. Essi hanno spesso origine in ciò che i Padri e
i maestri spirituali chiamano ira e la psicologia contemporanea
definisce come bisogno di aggressività. Questa propensione
dell’animo umano a vedere l’altro come un nemico, a vivere rapporti
competitivi, sentimenti di gelosia, invidia, rivalità, rende spesso
complicata, talvolta anche fonte di sofferenza, la convivenza fraterna.
Invece di diventare stimolo per la crescita e occasione per esercitare
la carità, la vita comune è intessuta di manifestazioni di ostilità:
diventa difficile dominare la lingua, i gesti, i segni di avversione,
gli sgarbi; talvolta si rischia la perdita di controllo, in cui si
dicono parole che mai si sarebbero volute pronunciare o si compiono
azioni impulsive, solo perché non si è riusciti a contenere l’istinto
del momento.
Quest’assenza di dominio di sé, però,
non è solo il frutto di un’impulsività non educata, che si scontra con
il desiderio di vivere la carità; essa nasce da una dimensione più
profonda, da una mancata vigilanza del cuore e di ciò che lo abita.
Dietro alle nostre durezze e aggressività verso le sorelle non troviamo
forse sempre giudizi negativi conservati a lungo nel cuore, confronti,
immaginazioni, osservazioni accurate dei loro limiti? Se c’è
manifestazione esterna, possiamo essere certi di trovare all’interno
tutta una serie di “pensieri contro”, pensieri che non abbiamo mai osato
portare allo scoperto, per riconoscerli e vagliarli; l’individuarli,
infatti, ci avrebbe costretti ad ammettere, con molta franchezza, che il
nostro cuore è abitato da tante piccinerie, grettezze e meschinità, il
cui potere, quando sono custodite interiormente, è di condizionare la
percezione e l’azione.
Se vogliamo esercitare il dominio su
noi stessi, quindi, dobbiamo avere il coraggio di inabissarci nelle
profondità del nostro Io, anche quando ci sembra oscuro e fangoso, per
scoprire ciò che lo abita e portare alla luce quanto è contrario
all’amore. Nello stesso tempo, non dobbiamo temere di chiudere le
porte in faccia a tutto ciò che allontana la nostra persona dai
valori per i quali vuole vivere. Se con tanta libertà “accarezziamo” e
“coccoliamo” pensieri critici, ostili o addirittura offensivi nei
confronti delle sorelle, non dobbiamo stupirci se, prima o poi, questi
troveranno un canale esterno di espressione, attraverso le nostre parole
e azioni. Per questo motivo, è importante saper vietare l’accesso
a quanto d’interiore e immaginario ha il potere di allontanarci da ciò
che per noi è essenziale.
Dominio di sé e
unificazione interiore
Il dominio di sé non può essere
considerato unicamente come effetto dell’eliminazione di quanto
in noi crea ostacolo alla comunione con Dio e con il prossimo. Se esso è
il frutto di un’interiorità pacificata, può essere favorito anche dalla
ricerca di unificazione interiore.
è dunque importante
coltivare alcuni atteggiamenti atti a favorire questa capacità di
trovare un centro nella propria vita, un’unità da cui prende forma il
pensare e l’agire.
Un aspetto importante cui prestare
attenzione è l’impegno a proteggersi dal dilagare di banalità,
superficialità, esteriorità da cui ogni giorno siamo bombardati e che,
passando dai sensi, viene a prendere dimora nel nostro cuore. La
sobrietà, virtù tipicamente monastica, che invita ad evitare le
curiosità inutili, le distrazioni, il fermarsi in superficie e permette
a tutte le nostre forze spirituali di convergere in un’unica direzione,
è nello stesso tempo conseguenza e origine di un sano controllo su se
stessi. Essa è indubbiamente frutto del dominio di sé, che pone dei
limiti agli interessi inutili, all’attenzione della vista e dell’udito
rivolta a realtà vane, accessorie, superficiali, anche se a volte
seducenti. Nello stesso tempo, però, essa sfocia nella capacità di
autocontrollo: un clima comunitario serenamente austero, in cui trovano
posto lunghi spazi di silenzio e dove il parlare non si limita al solo
chiacchiericcio sterile o alla critica e al pettegolezzo, aiuta i membri
della fraternità a evitare l’immediatezza, l’eccesso di spontaneità,
l’agire in base all’impulso: tutti sintomi di difficoltà, se non
addirittura d’incapacità, a dominare se stessi.
Altro aspetto fondamentale per
l’unificazione interiore è la tensione a ritrovare sempre il proprio
centro, a vivere un’esistenza informata dalla ricerca di Dio, dalla
tensione verso di Lui. L’importanza del dominare se stessi in un’epoca
in cui, come già si è accennato, tende a prevalere lo spontaneismo e
l’affermazione dei propri diritti, acquista significato solo se è in
funzione di un ideale capace di dare senso all’esistenza.
è dunque fondamentale
ritornare sempre ai valori essenziali della vita consacrata, in
particolare alla centralità della persona di Cristo. Purtroppo,
corriamo sovente il rischio di vivere la nostra scelta con uno stile
simile a quello di molti sposati, che si vogliono bene ma, presi da
mille preoccupazioni – talvolta anche legittime –, si dimenticano di
dimostrarselo. Lavorare per la famiglia e provvedere ai figli sembrano
modi sufficienti per comunicarsi l’amore reciproco. Così, poco per
volta, senza nemmeno accorgersene, ci si lascia andare e il legame
matrimoniale diventa un’abitudine, in alcuni momenti anche un peso.
Lo stesso avviene, forse anche di
frequente, all’interno delle comunità religiose: il fatto di servire il
Signore, di spendersi, magari anche con molti sacrifici e rinunce, per
il Suo Regno, pare essere un modo sufficiente per esprimere quell’amore
che aveva spinto la persona in comunità. Così, senza nemmeno rendersene
conto, la religiosa si “lascia andare”. Nelle relazioni comunitarie
tende a prevalere l’ira, nei rapporti con gli altri il bisogno d’affetto
e la preghiera diventa spesso più un desiderio, anche se sincero, o una
nostalgia, che una realtà vissuta. Una relazione non nutrita lascia così
il posto all’accidia, alla rilassatezza, a quella mancanza di
autocontrollo che rischia di rendere insipida una forma di vita chiamata
invece, in modo del tutto particolare, ad essere sale della terra e
luce del mondo (cfr. Mt 5, 13-14).
|