n. 11
novembre 2005

 

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La fraternità come principio regolativo dell'economia

di Stefano Zamagni *

 

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Elementi di economia delle relazioni

La mia riflessione nasce dalla considerazione che il mercato non è un dato di natura ma, come tutte le istituzioni, è un ente creato dagli uomini che vivono in società e quindi il frutto di un lungo percorso e di una ben precisa matrice culturale. Se ci convinciamo di questo possiamo anche pensare di cambiare per il meglio il mercato. Bisogna che il mercato torni a essere civile, luogo di incontro e di relazione fra le persone e non di sole merci. Civilizzare il mercato significa comprendere che non c’è soltanto una dimensione acquisitiva, ma anche una dimensione espressiva alla base del comportamento umano. Occorre fare in modo che tutte le dimensioni dell’umano, e dunque anche quella relazionale, siano riconosciute e opportunamente valorizzate. Parlando di un’economia civile non intendo proporre una logica contro, ma una logica dell’andare oltre, della necessità di accettare la complessità e le sfide che l’organizzazione economico-sociale delle nostre società avanzate ci presenta e di avviare processi possibili di trasformazione anche attraverso il recupero di principi, come ad esempio quello di reciprocità e quello del dono, da troppo tempo dimenticati, o quantomeno trascurati, dalla teoria economica ma, per fortuna, non dalla prassi economica.

 

Efficienza, equità e reciprocità

Prendo le mosse da una considerazione di natura generale: se poniamo mente a un ordine sociale, quale che esso sia – uso l’espressione ordine sociale per significare una società organizzata – si scopre che ogni società, per durare ed essere sostenibile deve darsi un’organizzazione. Ora, prescindendo dalle mutevoli circostanze storiche, se ci domandiamo quali sono i principi regolativi, di un qualsivoglia ordine sociale, non facciamo fatica a individuarne tre.

Il primo è il principio dello scambio di equivalenti di valore, che dice: “chiunque faccia o dia qualcosa a qualcun altro deve riceverne l’equivalente in valore”. L’espressione più comune dell’equivalenza di valore è il prezzo di mercato; quando noi compriamo un oggetto e ne paghiamo il prezzo, anche senza rendercene conto, diamo concreta attuazione al principio in questione. Usualmente, si è soliti affermare che il luogo classico in cui tale principio trova il modo di esprimersi è il mercato. Si dice, infatti, che il mercato è il luogo ideal-tipico dove le relazioni intersoggettive assumono la forma dello scambio di equivalenti di valore. In effetti, c’è del vero in quest’affermazione; anche se non è corretto sostenere che il mercato è l’istituzione compatibile solamente con tale principio.

A cosa ultimamente serve questo principio? Ad assicurare l’ottenimento di un risultato efficiente. Uso il termine “efficienza” nel senso di assenza di spreco delle risorse. Un’allo-cazione è efficiente quando non spreca le risorse. Si ritrova qui il contributo della teoria economica e, in particolare, di una teoria economica molto forte che è quella dell’equilibrio economico generale: sotto un certo insieme di condizioni (tra cui quella di concorrenza perfetta in tutti i mercati, informazione completa, ecc.), un ordine economico basato sul principio dello scambio di equivalenti ottiene un risultato di efficienza. Il che è cosa buona, perché nessuno può pensare che un ordine sociale possa durare nel tempo se non è efficiente. L’efficienza è un valore che non può essere snobbato, anche se non è il valore supremo.

Il secondo principio è quello di “redistribuzione”. Sostan-zialmente, tale principio afferma che, affinché un ordine sociale possa durare nel corso del tempo, è necessario che non solo la ricchezza venga efficientemente prodotta, ma anche che la stessa venga equamente ridistribuita. Se la redistribuzione, per un motivo o per l’altro, non potesse avere luogo, quel sistema è destinato a declinare. La redistribuzione ha come suo fine specifico l’equità, che non significa affatto eguaglianza. Piuttosto, equità significa consentire a tutti i soggetti di poter partecipare al gioco economico. La redistribuzione è quel principio regolativo di un ordine sociale che consente di raggiungere risultati equi. Questo è un argomento che può sembrare scontato, ma in realtà non lo è perché, di solito, si tende a dare dell’equità una giustificazione solamente sotto il profilo etico. Sostengo che l’etica va presa come l’antibiotico, ossia a piccole dosi e quando è strettamente necessario. Il paneticismo, infatti, scade sempre nel moralismo, che è una tentazione molto frequente, soprattutto oggi. L’equità è richiesta dalle esigenze stesse di sostenibilità del processo economico. Non basta, dunque, saper produrre ricchezza: occorre anche saperla ridistribuire equamente. Un sistema economico può essere efficiente fin che si vuole, ma se non soddisfa il requisito dell’equità è destinato al declino. Si pensi al caso odierno dell’Argentina, un Paese virtualmente tra i più ricchi al mondo, dove il 40% della popolazione vive oggi al di sotto della linea della povertà.

C’è, poi, un terzo principio, che è quello di reciprocità. Su questo fronte le cose si complicano perché, mentre efficienza ed equità sono parole che sono entrate nel lessico comune oltre che nella teoria economico-sociale, il principio di reciprocità suona ancora strano. è soltanto negli ultimi anni che nella letteratura di economia, da parte degli studiosi più avvertiti, questa parola è ritornata a circolare. Resta il fatto che il principio di reciprocità è sempre stato emarginato, considerato qualcosa di appartenente ad altri ambiti disciplinari: per alcuni aspetti alla sociologia, per altri all’antropologia e per altri ancora alla psicologia.

Si tratta di una lacuna gravissima, responsabile di non poche delle inadeguatezze dell’attuale discorso economico. Nella storia del pensiero economico il principio di reciprocità ha giocato un ruolo fondamentale, iniziando a scomparire dalla scena – e quindi dall’insegnamento e dalla ricerca dell’economista – con l’avvento della rivoluzione marginalista nella seconda metà dell’800. Con l’affermazione del pensiero economico edificato sulle tesi dell’utilitarismo di Bentham, la parola reciprocità viene cancellata e il personaggio cui si deve quest’operazione molto sottile è l’inglese Philip Wicksteed, autore di un libro famoso in cui egli propone il termine di “non tuismo. Secondo questo studioso, il discorso economico finisce nel momento in cui l’agente economico riconosce nell’altro un “tu”. Da qui la conclusione secondo cui la relazione economica va fondata sul “non tuismo”. Cosa vuol dire che “l’altro è un tu?” Vuol dire che è un soggetto al quale io riconosco un’identità e, simmetricamente, la capacità dell’altro di riconoscere in me un portatore di identità. Nel momento in cui questo avvenisse – sostenne Wicksteed – saremmo fuori dell’orizzonte economico: si entrerebbe nella sociologia, o nell’antropologia. Per dirla in termini un po’ brutali, “business is business”; ossia, gli affari sono affari. Per fare affari non bisogna guardare in faccia nessuno, perché nel momento in cui io ti guardo in faccia, scopro il tuo volto e non posso più fare una transazione economicamente profittevole. In sintesi: per realizzare un profitto io devo dimenticare non solo la mia identità, ma anche la tua identità.

è questa la posizione fondamentale che sorregge la gran parte di tutta la produzione scientifica in campo economico. Eppure tutto questo non è mai stato chiaramente esplicitato. Si è certamente liberi di credere al non-tuismo, ma è necessario dichiararlo fin dall’inizio del discorso, se si è intellettualmente onesti. Comunque sia, è agevole comprendere perché il principio di reciprocità sia stato cancellato dal lessico economico. Abbiamo detto che il fine del principio dello scambio d’equivalenti è l’efficienza; il fine della redistribuzione è l’equità. (Che la redistribuzione venga operata dallo Stato con la tassazione progressiva, o da altri soggetti, con altri strumenti è irrilevante: l’importante è che ci sia). A cosa mira il principio di reciprocità? Mira a mettere in pratica la fraternità. Anche questa parola, come direbbero gli psicologi, è stata rimossa. Eppure, essa appare già nella triade Liberté, egalité, fraternité: in nome della fraternità oltre che della libertà e dell’egalité, (cioè dell’equità), è stata combattuta la Rivoluzione francese. Terminata la quale però, un preciso decreto ne sancì l’annullamento. Se ne può capire la ragione: la fraternità fa paura, dà fastidio, e non vi può essere fraternità in una società dove funziona la ghigliottina. La legge di Le Chapelier stabilirà così che tra lo Stato e il cittadino vi deve essere il vuoto; in altre parole, i “corpi intermedi” della società - dall’associazionismo a tutte le altre espressioni della società civile organizzata - non devono più avere spazio. Nella Francia post rivoluzionaria vi è spazio soltanto per l’individuo (non per la persona) e lo Stato. L’individuo opera nella sfera del privato e lo Stato si occupa invece della sfera del pubblico. Tutto ciò che stava in mezzo fra individuo e Stato – i cosiddetti corpi intermedi – viene decretato fuori legge, sancendo in questo modo la cancellazione di fatto della parola fraternità.

 

Stato, mercato e terzo settore

Per fare sintesi ed esemplificare possiamo utilizzare questo piccolo schema: se noi mettiamo in cima ai tre vertici di un ipotetico triangolo i tre principi, lo scambio d’equivalenti, la redistribuzione e la reciprocità, possiamo domandarci e analizzare come storicamente, nelle società del cosiddetto occidente avanzato, sono andate le cose.

Per rispondere a questa domanda, iniziamo con il provare a considerare il modello di ordine sociale che ha fatto propri i due principi dello scambio di equivalenti e di redistribuzione. Qual è la parola che esprime, in termini sintetici, questo modello d’organizzazione sociale? è il welfare state, laddove la parola chiave è “state” e non “welfare”. Il welfare state è quel particolare modello di ordine sociale i cui i pilastri sono, da un lato, lo scambio di equivalenti (identificato con il mercato) e, dall’altro, la redistribuzione (identificata con lo Stato). Di qui la logica di tipo dicotomico Stato e mercato: il mercato si occupa dell’efficienza e basta; lo Stato si occupa invece dell’equità da ottenersi attraverso la redistribuzione.

Al mercato viene chiesto come unico metro di giudizio, anche morale, di essere efficiente. L’agire economico di mercato non sopporta altri canoni di valutazione, pena la sua perdita di senso. Ciò ha importanti implicazioni. Se l’imprenditore può ottenere risultati efficienti eludendo le norme vigenti o non rispettando pienamente i diritti umani fondamentali, poco male: l’importante è che sia efficiente. Di qui la icastica affermazione di Milton Friedman che oggi viene citata a proposito di corporate social responsability, secondo cui «l’unica responsabilità sociale dell’impresa è la massimizzazione del profitto». Friedman è certamente una persona molto coerente con le premesse di valore del modello dicotomico stato-mercato. è allo Stato, che interviene post factum, che spetta il compito di correggere le market failures.

 

Lo Stato minimale

Consideriamo ora il lato del triangolo che ci raffigura un modello di ordine sociale nel quale i principi base sono lo scambio di equivalenti e il principio di reciprocità e nel quale lo Stato svolge un ruolo minimale. Stato minimale nel senso che si occupa solo di poche funzioni fondamentali quali l’amministrazione della giustizia, la difesa, la sicurezza nazionale e poco altro, e, in cui, tutta una serie di compiti che nel modello di welfare state vengono svolti dallo Stato sono ora assunti dai corpi intermedi e, precisamente, da quelle organizzazioni note come non profit.

Questo modello è stato definito recentemente come il modello del “compassionate conservatorism”, del conservatorismo compassionevole. L’idea alla base di questo modello è la seguente: ai bisogni degli ultimi, degli emarginati, dei portatori di handicap, si deve bensì avere riguardo. Non è quindi vero quello che spesso si dice, e cioè che il modello neoliberista è sostenuto solo da gente priva di scrupoli, incapace di ogni senso di pietà. Piuttosto, l’idea di fondo è che al destino degli ultimi deve provvedere la compassione dei cittadini, più o meno organizzati. In altre parole, coloro che non riescono a vincere nella gara del mercato devono sapere che non vantano un preciso diritto di cittadinanza a vedere soddisfatti i propri bisogni fondamentali, ma solamente una legittima aspettativa di attenzione da parte dei più fortunati. In questo modello lo Stato gioca un ruolo residuale; nel modello di welfare state a giocare un ruolo residuale è, invece, la società civile, i cui corpi intermedi svolgono un ruolo di rimessa alle dipendenze dello Stato.

 

Il superamento del comunitarismo

Sul terzo lato del triangolo – il lato che unisce i vertici intestati al principio di redistribuzione e al principio di reciprocità – si colloca il modello noto come “communitarianism”, ossia del comunitarismo. è la proposta di una corrente di pensatori americani, anche piuttosto influente – A. Etzioni, M. Walzer, M. Unger, R. Sandel – che, sostanzialmente, afferma che bisogna restringere la sfera del mercato perché il mercato è all’origine di tutti i mali.

Il termine “mercato”, come quelli di “merce” e “mercante”, deriva dal latino “mereo” che vuol dire prostituirsi: il mercato, dunque, è luogo di prostituzione. è il luogo dove i rapporti personali sono mercificati e quindi alienati; ciò che occorre fare è allora restringere l’area del mercato ed esaltare, invece, quella dell’intervento dello Stato e della società civile organizzata.

Polanyi, nel suo libro La grande trasformazione, scrive che «il mercato avanza sulla desertificazione della società». è un’affermazione fortissima. Che cosa vuol dire che il mercato avanza sulla desertificazione della società? Questo studioso – e in parte anche A. Hirschmann – afferma che dove c’è più mercato, c’è meno società, e quindi meno relazioni interpersonali. Il mercato “è dunque un male necessario”; necessario, ma pur sempre un male, qualcosa che va controllato; dallo Stato per certi aspetti, e, dalla società civile, per altri.

 

Quale organizzazione sociale?

Ebbene, la sfida che per l’oggi occorre raccogliere, (e possibilmente vincere), è esattamente questa: prefigurare un modello d’ordine sociale nel quale tutti e tre i principi sopra illustrati possano convivere e rinforzarsi mutuamente. Finora questo non si è mai realizzato. Il limite del dibattito culturale in atto è proprio questo: che si continua a ragionare in termini di contrapposizioni: più Stato e meno mercato oppure viceversa.

Credo che ormai quasi tutti si rendano conto che il vecchio modello di welfare state non è più proponibile e vada cambiato, ma non nel senso di abbracciare il modello neoliberalista.

Si tratta di discorsi oziosi, perché non portano lontano; sono discorsi che peccano di ingenuità. Il vero problema non è di preferire un modello all’altro, perché tutti e tre sono obsoleti e non più accettabili: la vera sfida è vedere come trovare un’organizzazione sociale e un assetto istituzionale nel quale tutti e tre i principi trovino concreta espressione. La buona società in cui vivere è quella in cui vi è l’efficienza, l’equità, ma nella quale ci sia anche pratica di fraternità.

 

I limiti del conservatorismo compassionevole

Ho insistito sul principio che ho chiamato di fraternità per affrontare il concetto del “dono”. Ci sono due concetti di dono: il dono come “munus” e il dono come “reciprocità”.

Il dono come munus (munus vuol dire regalo) è il concetto tipico di quel modello che abbiamo chiamato del “conservatorismo compassionevole”. Un modello che affida alla compassione, e dunque alla filantropia, la soluzione dei problemi che pone una società avanzata come la nostra. Io non ho nulla contro la filantropia, ma non mi soddisfa, non mi rassicura, perché il dono come munus, come regalo, tende a spaccare la società, a diminuire la coesione sociale e, soprattutto, il social capital. E questo perché? Io ho trovato la spiegazione più chiara in un passaggio di Seneca nella decima lettera a Lucilio, dove si legge: «non c’è odio più funesto di quello di chi a un certo punto si rende conto di non essere in grado di restituire o di reciprocare il dono o l’aiuto ricevuto». Il dono come munus è pericoloso, perché tende a dividere la società tra donanti e donatari, tra chi dà e chi riceve.

Ben si comprende che, alla lunga, chi riceve dal filantropo prima o poi finirà per odiare chi gli ha dato, perché il dono come munus – salvo che nelle situazioni di emergenza – se diventa sistematico, principio base della società, tende a umiliare, cioè a togliere quella che Adam Smith chiamava la “self estim”, la stima di sé. Quando alle persone togliamo la stima di sé, abbiamo tolto tutto: che cosa resta dell’uomo quando gli abbiamo tolto la dignità, cioè la stima che ognuno ha di se stesso? Infatti, se io ti dono e non ti metto nelle condizioni di reciprocare, tu ti sentirai un assistito. Al contrario, il dono come reciprocità ha una sua caratteristica precisa: non solo dà, ma consente a chi ha ricevuto di reciprocare. Nel dono come regalo quello che conta è l’oggetto donato, mentre nel dono come reciprocità quello che conta non è l’oggetto, il valore della cosa donata, ma la relazione che io stabilisco con l’altro. Il punto è tutto qui. Se io pongo una persona nella condizione di chi deve solo ricevere e mai dare, le sottraggo la parte più nobile di se stessa. Sta qui la ragione per cui non possiamo meravigliarci di fronte a certe forme di violenza, o di certe proteste.

Oggi nelle nostre società abbiamo bisogno di recuperare il concetto della reciprocità e di renderlo un principio regolativo dell’ordine sociale perché, altrimenti, di sola efficienza e di sola equità si può morire.

 

L’esplosione dei bisogni espressivi e di identità

Fino a tempi recenti l’orizzonte dell’azione politica era quello della solidarietà. La mia tesi è che non ci basta una società solidale. La solidarietà, anche se è necessaria, non è sufficiente. La solidarietà, infatti, è il principio che tende a rendere uguali i diversi, cioè a mettere i diversi nelle condizioni di essere uguali rispetto a una qualche dimensione o a una qualche caratterizzazione. (è questo il significato del concetto d’equità). La fraternità, invece, il principio che consente agli uguali di essere diversi. Questo vuol dire consentire a soggetti, che sono sostanzialmente uguali quanto a possibilità e campi di scelta, di affermare la loro specifica individualità. Il problema è che oggi le nostre società non prestano adeguata attenzione alla dimensione identitaria perché la solidarietà è servita, in qualche modo, ad appiattire e a omologare le identità, a renderle più o meno tutte uguali. Questa non è una critica alla solidarietà, ma a chi si è fermato a questo orizzonte. Si può anche immaginare una società solidaristica dove tutti, più o meno, stanno nella stessa condizione, ma una società del genere, in cui le persone non avessero la possibilità d’affermare la propria identità (che può essere religiosa, culturale, etnica, di genere, ecc.), sarebbe una società non corrispondente alle nostre aspettative.

La mancanza d’attenzione per la dimensione della fraternità ha fatto e sta facendo esplodere nelle nostre società i conflitti identitari. Il conflitto d’identità non può essere confuso con quello d’interessi. La società fordista, la società industriale, è stata essenzialmente centrata sul conflitto d’interesse. Il problema è che oggi, nelle nostre società avanzate, è emersa questa nuova categoria di conflitti che non possono essere risolti con gli strumenti con cui si è affrontato il conflitto d’interesse che è declinato sull’asse dell’avere. Il conflitto d’interesse è un conflitto tra chi ha e chi non ha, tra chi ha più e chi ha meno, mentre il conflitto dell’identità è declinato sull’asse dell’essere, tra chi è e chi non è, tra chi è riconosciuto e chi non. Non si può pensare di risolvere il conflitto d’identità che è legato all’essere, cioè alla dimensione esistenziale, usando gli strumenti tipici con cui si sono risolti i conflitti d’interesse. Si può allora iniziare a comprendere perché lo scambio di equivalenti non basta più. Coniugando opportunamente efficienza ed equità possiamo risolvere, anche se non tutti, i conflitti d’interesse. Il grande merito storico del welfare state è stato proprio questo, ma la novità di questa nostra epoca è che il conflitto identitario fa aggio sul conflitto d’interesse e per questo abbiamo bisogno che venga declinato nella pratica il principio di fraternità.

 

Il riequilibrio dei consumi fra utilità e felicità

Possiamo ora porci questa domanda: qual è la caratteristica del modo tradizionale di pensare l’attività di consumo quale che essa sia? Spesso si considera come unico elemento del sistema motivazionale dell’atto di consumo l’utilità che una persona pensa di poter trarre dall’oggetto che acquisisce. Si tende, in definitiva, a confondere il concetto di felicità con il concetto d’utilità, eppure la differenza è notevole. L’utilità è la proprietà della relazione tra l’essere umano, la persona e la cosa. Le cose sono utili, ma la felicità è la proprietà della relazione tra persona e persona. è questo un punto su cui occorre riflettere: durante la lunga stagione della società fordista è accaduto che utilità e felicità, in qualche modo, si sovrapponessero. In altre parole, il consumo degli oggetti, delle cose, mentre mi dava utilità mi consentiva anche di dilatare gli spazi di felicità. Non è difficile da comprendere: se sono affamato e tu mi dai del pane, il pane mi dà l’utilità (e questo è ovvio), ma mi rende anche più felice perché è certo che un affamato non può essere felice.

La novità di questa nostra fase storica è che continuiamo a pensare – sbagliando – che l’utilità possa andare di pari passo con la felicità, mentre non è più così. Io posso essere un massimizzatore di utilità, ma posso essere anche sempre più infelice, perché mentre l’utilità è legata alle cose che io consumo, la felicità è invece legata alle relazioni interpersonali. Bisogna, tuttavia, fare attenzione, perché le relazioni interpersonali mi danno felicità solo se non sono utilizzate in chiave strumentale: la felicità è data dalla relazione in quanto tale. Oggi viviamo in una società nella quale le possibilità di aumentare la nostra utilità sono grandiose, al tempo stesso, però, mentre aumentiamo le nostre utilità tendiamo a ridurre le occasioni di felicità. Le relazioni, per essere coltivate, sono in trade off, in alternativa, alla capacità d’ottenere più reddito con il quale comprare più beni. Ieri non c’era questo trade off, perché si lavorava di più, si guadagnava di più, si compravano più beni che mi davano un’utilità e mi rendevano anche più felice. Oggi, per massimizzare l’utilità mi si dice che devo guadagnare di più, perché solo in questo modo aumenta il mio potere d’acquisto e posso comprare più beni. Ma mai si dice che operando in questo modo sono costretto a ridurre i tempi da dedicare alle relazioni interpersonali, e la felicità dipende essenzialmente da queste relazioni.

Il problema non è tanto quello di diminuire il livello dei consumi – i consumi non vanno assolutamente diminuiti ma aumentati – ma di mutare la composizione degli stessi. Il punto è che stiamo consumando troppi beni “da utilità” e troppo pochi beni “da felicità”; ossia consumiamo troppe cose che danno utilità e non, invece, quei beni in grado di consegnare felicità, i beni relazionali, appunto. Il bene relazionale ha la caratteristica di essere un bene che ha la proprietà dell’anti-rivalità; i beni pubblici hanno la caratteristica della “non rivalità”. “Anti-rivalità” vuol dire che la soddisfazione di ciascun soggetto aumenta con l’aumentare dei soggetti con i quali questi entra in relazione: io sono tanto più soddisfatto, e quindi felice, quanto più riesco a relazionarmi con gli altri.

In altre parole, ci sono due modi in cui noi affermiamo il nostro bisogno di identità e il bisogno di “consumi espressivi”: c’è il modo della posizionalità e quello della relazionalità. Il modo della posizionalità è quello che distrugge. I beni posizionali sono quei beni tali per cui «se li consumo io, tu li devi consumare nello stesso ammontare con segno meno davanti e la loro somma algebrica è uguale a zero». Un tipico bene posizionale è il potere: io ho potere nella misura in cui vi è qualcuno che lo subisce; se non ho nessuno su chi esercitare il mio potere, questo si riduce a nulla (un altro esempio è rappresentato dagli status symbol). La caratteristica del bene posizionale è quindi quella di rispondere a un’esigenza d’espressività, ma ciò avviene in forma deteriore, negativa, cioè con la diminuzione o, al limite estremo, la distruzione dell’altro. La guerra non è altro che la forma più feroce della lotta per beni posizionali, perché con essa si giunge fino alla totale sottomissione o distruzione dell’altro. Il problema vero è fare in modo che l’espressività – un bisogno ineliminabile che c’è in ognuno di noi – anziché prendere la via della posizionalità, prenda la via della relazionalità e questa, come dicevo prima, è anche la strada per civilizzare il mercato, che può aiutarci a comprendere che «io aumento il mio stare bene tanto più quanto più sto con te e quindi, anche il tuo star bene fa parte del mio stare bene».

Non si tratta di un problema di falsa morale ma di comprendere – come insegnava Aristotele – che “l’uomo nasce per la felicità”. Non troveremo mai un essere umano che dica di non voler essere felice; si possono trovare persone che dicono di voler rinunciare all’utilità – e se ne trovano – ma nessuno rinuncia alla felicità. Il problema è diventato serio perché siamo arrivati a uno stadio dello sviluppo umano, in cui, in qualche modo, i bisogni fondamentali, primari, sono stati soddisfatti o possono essere soddisfatti, ma non riusciamo a dare risposta a quel bisogno fondamentale che è il bisogno di felicità. Tutto questo perché il tipo di intersoggettività, che a volte in modo miope stiamo continuando a perseguire anche a livello istituzionale, postula o fa riferimento a una fase storica dello sviluppo che è quella della società fordista, mentre siamo ormai in un’epoca postmoderna, postindustriale, dove il bisogno prepotente è quello dell’espressività. Noi abbiamo sicuramente – e avremo sempre – bisogni acquisitivi, bisogni cioè che soddisfiamo acquisendo e consumando (consumando nel senso letterale del termine, perché nel suo significato etimologico il verbo “consumare” vuol dire distruggere).

Le relazioni interpersonali, in una forma che varia da contesto a contesto, traducono invece quello che viene chiamato “il principio di fraternità”, che significa scoprire il volto dell’altro e scoprire che l’altro è un tu e non un alter ego. L’utilitarista è uno che vede nell’altro un alter ego, cioè un altro io: mi rispecchio, perché voglio vedere nel tuo volto la mia faccia, ma chi fa questo è “uno sciocco razionale”, come ha scritto Amartya Sen alcuni anni fa, un “rational fool. Lo sciocco razionale è questo: una persona che per massimizzare l’utilità, trascura la felicità. Si può essere più sciocchi di così?

 

Umanesimo civile versus umanesimo incivile

Il bisogno di felicità è un bisogno che non può essere compresso e riscoprire oggi questa categoria ci può permettere di ripensare il cosiddetto “modello di sviluppo” ma, soprattutto, di avere una bussola sulla base della quale riorientare le nostre condotte.

L’umanesimo ha conosciuto due versioni: “l’umanesimo civile” e “l’umanesimo incivile”; quello civile trova le sue origini nel pensiero di Aristotele, mentre quello incivile in Platone. L’umanesimo incivile condurrà a Machiavelli, da Machiavelli a Hobbes, da questi a Bernard de Mandeville e quindi a Bentham che chiude il ciclo. In altre parole, un’antropologia iperminimalista dell’uomo secondo cui l’essere umano è soltanto un portatore di bisogni materiali; un “cercatore di utilità” diremmo in termini moderni.

L’antropologia dell’homo economicus, o se volete dell’individualismo ontologico, ha il grave limite di trascurare un altro filone di pensiero: all’inizio, l’economia, il mercato, nascono come “economia civile”, ossia come un tentativo di mettere insieme i tre principi più sopra richiamati. Il mercato, per un certo periodo, nasce sulla base di quest’intuizione, come strumento di civilizzazione e di umanizzazione dei rapporti. è stato Max Weber che, seguendo Hobbes, nel suo famoso saggio, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, fa coincidere la nascita del mercato con l’umanesimo incivile. Contro questa interpretazione resta il fatto che il mercato è nato sulla base di un’idea di civilizzazione dei rapporti interpersonali. Si pensi al mecenatismo che nasce con l’umanesimo civile, oggi confuso con la filantropia anche se nulla a che vedere con questa. Il mercato è luogo di incontri, ma di incontri di persone e non solo di merci. La sfida di oggi, a mio avviso, è il recupero delle ragioni delle origini anche se in forme, ovviamente, completamente rinnovate. Tornare al mercato come luogo di incontri significa anche che la fraternità non può rimanere confinata in una nicchia, come pretendono i sostenitori della teoria del terzo settore: non possiamo accettare un mercato governato dalla sola logica del profitto, dello sfruttamento, ritirandoci nella nicchia dei buoni, o dei buonisti, che si riscattano con i bei gesti. Bisogna che il principio di fraternità entri dentro il mercato per sposarsi con l’efficienza.

Sapere che oggi siamo nelle condizioni storiche in cui una sfida del genere – che è al tempo stesso culturale e politica – può essere raccolta e vinta, ci deve riempire di quella speranza che ci consente di capire che, come diceva Musil, «il futuro è coltivare il senso della possibilità» e cioè, in altre, parole, che è possibile cambiare. Non è vero che siamo prigionieri di determinismi che ci impediscono di avanzare. Coltivare il senso della possibilità equivale a imparare che in fase di crisi – e crisi vuol dire “transizione” – bisogna imparare dalla natura e gettare semi di speranza ad ampie mani: alcuni si perderanno, ma quei pochi che germoglieranno daranno molto frutto.

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