Elementi di economia delle
relazioni
La
mia riflessione nasce dalla considerazione che il mercato non è un dato
di natura ma, come tutte le istituzioni, è un ente creato dagli uomini
che vivono in società e quindi il frutto di un lungo percorso e di una
ben precisa matrice culturale. Se ci convinciamo di questo possiamo
anche pensare di cambiare per il meglio il mercato. Bisogna che il
mercato torni a essere civile, luogo di incontro e di relazione fra le
persone e non di sole merci. Civilizzare il mercato significa
comprendere che non c’è soltanto una dimensione acquisitiva, ma anche
una dimensione espressiva alla base del comportamento umano. Occorre
fare in modo che tutte le dimensioni dell’umano, e dunque anche quella
relazionale, siano riconosciute e opportunamente valorizzate. Parlando
di un’economia civile non intendo proporre una logica contro,
ma una logica dell’andare oltre, della necessità di
accettare la complessità e le sfide che l’organizzazione
economico-sociale delle nostre società avanzate ci presenta e di avviare
processi possibili di trasformazione anche attraverso il recupero di
principi, come ad esempio quello di reciprocità e quello del dono, da
troppo tempo dimenticati, o quantomeno trascurati, dalla teoria
economica ma, per fortuna, non dalla prassi economica.
Efficienza, equità e reciprocità
Prendo le mosse da
una considerazione di natura generale: se poniamo mente a un ordine
sociale, quale che esso sia – uso l’espressione ordine sociale
per significare una società organizzata – si scopre che ogni società,
per durare ed essere sostenibile deve darsi un’organizzazione. Ora,
prescindendo dalle mutevoli circostanze storiche, se ci domandiamo quali
sono i principi regolativi, di un qualsivoglia ordine sociale, non
facciamo fatica a individuarne tre.
Il primo è il
principio dello scambio di equivalenti di valore, che
dice: “chiunque faccia o dia qualcosa a qualcun altro deve riceverne
l’equivalente in valore”. L’espressione più comune
dell’equivalenza di valore è il prezzo di mercato; quando noi compriamo
un oggetto e ne paghiamo il prezzo, anche senza rendercene conto, diamo
concreta attuazione al principio in questione. Usualmente, si è soliti
affermare che il luogo classico in cui tale principio trova il modo di
esprimersi è il mercato. Si dice, infatti, che il mercato è il luogo
ideal-tipico dove le relazioni intersoggettive assumono la forma dello
scambio di equivalenti di valore. In effetti, c’è del vero in quest’affermazione;
anche se non è corretto sostenere che il mercato è l’istituzione
compatibile solamente con tale principio.
A cosa ultimamente
serve questo principio? Ad assicurare l’ottenimento di un risultato
efficiente. Uso il termine “efficienza” nel senso di assenza di spreco
delle risorse. Un’allo-cazione è efficiente quando non spreca le
risorse. Si ritrova qui il contributo della teoria economica e, in
particolare, di una teoria economica molto forte che è quella
dell’equilibrio economico generale: sotto un certo insieme di condizioni
(tra cui quella di concorrenza perfetta in tutti i mercati, informazione
completa, ecc.), un ordine economico basato sul principio dello scambio
di equivalenti ottiene un risultato di efficienza. Il che è cosa buona,
perché nessuno può pensare che un ordine sociale possa durare nel tempo
se non è efficiente. L’efficienza è un valore che non può essere
snobbato, anche se non è il valore supremo.
Il secondo
principio è quello di “redistribuzione”. Sostan-zialmente, tale
principio afferma che, affinché un ordine sociale possa durare nel corso
del tempo, è necessario che non solo la ricchezza venga efficientemente
prodotta, ma anche che la stessa venga equamente ridistribuita. Se la
redistribuzione, per un motivo o per l’altro, non potesse avere luogo,
quel sistema è destinato a declinare. La redistribuzione ha come suo
fine specifico l’equità, che non significa affatto eguaglianza.
Piuttosto, equità significa consentire a tutti i soggetti di poter
partecipare al gioco economico. La redistribuzione è quel principio
regolativo di un ordine sociale che consente di raggiungere risultati
equi. Questo è un argomento che può sembrare scontato, ma in realtà non
lo è perché, di solito, si tende a dare dell’equità una giustificazione
solamente sotto il profilo etico. Sostengo che l’etica va presa come
l’antibiotico, ossia a piccole dosi e quando è strettamente necessario.
Il paneticismo, infatti, scade sempre nel moralismo, che è una
tentazione molto frequente, soprattutto oggi. L’equità è richiesta dalle
esigenze stesse di sostenibilità del processo economico. Non basta,
dunque, saper produrre ricchezza: occorre anche saperla ridistribuire
equamente. Un sistema economico può essere efficiente fin che si vuole,
ma se non soddisfa il requisito dell’equità è destinato al declino. Si
pensi al caso odierno dell’Argentina, un Paese virtualmente tra i più
ricchi al mondo, dove il 40% della popolazione vive oggi al di sotto
della linea della povertà.
C’è, poi, un terzo
principio, che è quello di reciprocità. Su questo fronte le cose
si complicano perché, mentre efficienza ed equità sono parole che sono
entrate nel lessico comune oltre che nella teoria economico-sociale, il
principio di reciprocità suona ancora strano.
è soltanto negli ultimi
anni che nella letteratura di economia, da parte degli studiosi più
avvertiti, questa parola è ritornata a circolare. Resta il fatto che il
principio di reciprocità è sempre stato emarginato, considerato qualcosa
di appartenente ad altri ambiti disciplinari: per alcuni aspetti alla
sociologia, per altri all’antropologia e per altri ancora alla
psicologia.
Si tratta di una
lacuna gravissima, responsabile di non poche delle inadeguatezze
dell’attuale discorso economico. Nella storia del pensiero economico il
principio di reciprocità ha giocato un ruolo fondamentale, iniziando a
scomparire dalla scena – e quindi dall’insegnamento e dalla ricerca
dell’economista – con l’avvento della rivoluzione marginalista nella
seconda metà dell’800. Con l’affermazione del pensiero economico
edificato sulle tesi dell’utilitarismo di Bentham, la parola reciprocità
viene cancellata e il personaggio cui si deve quest’operazione molto
sottile è l’inglese Philip Wicksteed, autore di un libro famoso in cui
egli propone il termine di “non tuismo”. Secondo questo
studioso, il discorso economico finisce nel momento in cui l’agente
economico riconosce nell’altro un “tu”. Da qui la conclusione secondo
cui la relazione economica va fondata sul “non tuismo”. Cosa vuol dire
che “l’altro è un tu?” Vuol dire che è un soggetto al quale io riconosco
un’identità e, simmetricamente, la capacità dell’altro di riconoscere in
me un portatore di identità. Nel momento in cui questo avvenisse –
sostenne Wicksteed – saremmo fuori dell’orizzonte economico: si
entrerebbe nella sociologia, o nell’antropologia. Per dirla in termini
un po’ brutali, “business is business”; ossia, gli affari sono
affari. Per fare affari non bisogna guardare in faccia nessuno, perché
nel momento in cui io ti guardo in faccia, scopro il tuo volto e non
posso più fare una transazione economicamente profittevole. In sintesi:
per realizzare un profitto io devo dimenticare non solo la mia identità,
ma anche la tua identità.
è questa la
posizione fondamentale che sorregge la gran parte di tutta la produzione
scientifica in campo economico. Eppure tutto questo non è mai stato
chiaramente esplicitato. Si è certamente liberi di credere al
non-tuismo, ma è necessario dichiararlo fin dall’inizio del
discorso, se si è intellettualmente onesti. Comunque sia, è agevole
comprendere perché il principio di reciprocità sia stato cancellato dal
lessico economico. Abbiamo detto che il fine del principio dello scambio
d’equivalenti è l’efficienza; il fine della redistribuzione è l’equità.
(Che la redistribuzione venga operata dallo Stato con la
tassazione progressiva, o da altri soggetti, con altri strumenti è
irrilevante: l’importante è che ci sia). A cosa mira il principio di
reciprocità? Mira a mettere in pratica la fraternità. Anche questa
parola, come direbbero gli psicologi, è stata rimossa. Eppure, essa
appare già nella triade Liberté, egalité, fraternité: in nome
della fraternità oltre che della libertà e dell’egalité, (cioè
dell’equità), è stata combattuta la Rivoluzione francese. Terminata la
quale però, un preciso decreto ne sancì l’annullamento. Se ne può capire
la ragione: la fraternità fa paura, dà fastidio, e non vi può essere
fraternità in una società dove funziona la ghigliottina. La legge di Le
Chapelier stabilirà così che tra lo Stato e il cittadino vi deve essere
il vuoto; in altre parole, i “corpi intermedi” della società -
dall’associazionismo a tutte le altre espressioni della società civile
organizzata - non devono più avere spazio. Nella Francia post
rivoluzionaria vi è spazio soltanto per l’individuo (non per la persona)
e lo Stato. L’individuo opera nella sfera del privato e lo Stato si
occupa invece della sfera del pubblico. Tutto ciò che stava in mezzo fra
individuo e Stato – i cosiddetti corpi intermedi – viene decretato fuori
legge, sancendo in questo modo la cancellazione di fatto della parola
fraternità.
Stato, mercato e terzo settore
Per fare sintesi ed
esemplificare possiamo utilizzare questo piccolo schema: se noi mettiamo
in cima ai tre vertici di un ipotetico triangolo i tre principi, lo
scambio d’equivalenti, la redistribuzione e la reciprocità, possiamo
domandarci e analizzare come storicamente, nelle società del cosiddetto
occidente avanzato, sono andate le cose.
Per rispondere a
questa domanda, iniziamo con il provare a considerare il modello di
ordine sociale che ha fatto propri i due principi dello scambio di
equivalenti e di redistribuzione. Qual è la parola che esprime, in
termini sintetici, questo modello d’organizzazione sociale?
è il welfare state,
laddove la parola chiave è “state” e non “welfare”. Il
welfare state è quel particolare modello di ordine sociale i cui i
pilastri sono, da un lato, lo scambio di equivalenti (identificato con
il mercato) e, dall’altro, la redistribuzione (identificata con lo
Stato). Di qui la logica di tipo dicotomico Stato e mercato: il mercato
si occupa dell’efficienza e basta; lo Stato si occupa invece dell’equità
da ottenersi attraverso la redistribuzione.
Al mercato viene
chiesto come unico metro di giudizio, anche morale, di essere
efficiente. L’agire economico di mercato non sopporta altri canoni di
valutazione, pena la sua perdita di senso. Ciò ha importanti
implicazioni. Se l’imprenditore può ottenere risultati efficienti
eludendo le norme vigenti o non rispettando pienamente i diritti umani
fondamentali, poco male: l’importante è che sia efficiente. Di qui la
icastica affermazione di Milton Friedman che oggi viene citata a
proposito di corporate social responsability, secondo cui
«l’unica responsabilità sociale dell’impresa è la massimizzazione del
profitto». Friedman è certamente una persona molto coerente con le
premesse di valore del modello dicotomico stato-mercato.
è allo Stato, che
interviene post factum, che spetta il compito di correggere le
market failures.
Lo Stato minimale
Consideriamo ora il
lato del triangolo che ci raffigura un modello di ordine sociale nel
quale i principi base sono lo scambio di equivalenti e il principio di
reciprocità e nel quale lo Stato svolge un ruolo minimale. Stato
minimale nel senso che si occupa solo di poche funzioni fondamentali
quali l’amministrazione della giustizia, la difesa, la sicurezza
nazionale e poco altro, e, in cui, tutta una serie di compiti che nel
modello di welfare state vengono svolti dallo Stato sono ora
assunti dai corpi intermedi e, precisamente, da quelle organizzazioni
note come non profit.
Questo modello è
stato definito recentemente come il modello del “compassionate
conservatorism”, del conservatorismo compassionevole. L’idea alla
base di questo modello è la seguente: ai bisogni degli ultimi, degli
emarginati, dei portatori di handicap, si deve bensì avere riguardo. Non
è quindi vero quello che spesso si dice, e cioè che il modello
neoliberista è sostenuto solo da gente priva di scrupoli, incapace di
ogni senso di pietà. Piuttosto, l’idea di fondo è che al destino degli
ultimi deve provvedere la compassione dei cittadini, più o meno
organizzati. In altre parole, coloro che non riescono a vincere nella
gara del mercato devono sapere che non vantano un preciso diritto di
cittadinanza a vedere soddisfatti i propri bisogni fondamentali, ma
solamente una legittima aspettativa di attenzione da parte dei più
fortunati. In questo modello lo Stato gioca un ruolo residuale; nel
modello di welfare state a giocare un ruolo residuale è, invece,
la società civile, i cui corpi intermedi svolgono un ruolo di rimessa
alle dipendenze dello Stato.
Il
superamento del comunitarismo
Sul terzo lato del
triangolo – il lato che unisce i vertici intestati al principio di
redistribuzione e al principio di reciprocità – si colloca il modello
noto come “communitarianism”, ossia del comunitarismo.
è la proposta di una corrente di pensatori americani, anche
piuttosto influente – A. Etzioni, M. Walzer, M. Unger, R. Sandel – che,
sostanzialmente, afferma che bisogna restringere la sfera del mercato
perché il mercato è all’origine di tutti i mali.
Il termine
“mercato”, come quelli di “merce” e “mercante”, deriva dal latino “mereo”
che vuol dire prostituirsi: il mercato, dunque, è luogo di
prostituzione. è il luogo
dove i rapporti personali sono mercificati e quindi alienati; ciò che
occorre fare è allora restringere l’area del mercato ed esaltare,
invece, quella dell’intervento dello Stato e della società civile
organizzata.
Polanyi, nel suo
libro La grande trasformazione, scrive che «il mercato avanza
sulla desertificazione della società».
è un’affermazione
fortissima. Che cosa vuol dire che il mercato avanza sulla
desertificazione della società? Questo studioso – e in parte anche A.
Hirschmann – afferma che dove c’è più mercato, c’è meno società, e
quindi meno relazioni interpersonali. Il mercato “è dunque un male
necessario”; necessario, ma pur sempre un male, qualcosa che va
controllato; dallo Stato per certi aspetti, e, dalla società civile, per
altri.
Quale organizzazione sociale?
Ebbene, la sfida
che per l’oggi occorre raccogliere, (e possibilmente vincere), è
esattamente questa: prefigurare un modello d’ordine sociale nel quale
tutti e tre i principi sopra illustrati possano convivere e rinforzarsi
mutuamente. Finora questo non si è mai realizzato. Il limite del
dibattito culturale in atto è proprio questo: che si continua a
ragionare in termini di contrapposizioni: più Stato e meno mercato
oppure viceversa.
Credo che ormai
quasi tutti si rendano conto che il vecchio modello di welfare state
non è più proponibile e vada cambiato, ma non nel senso di abbracciare
il modello neoliberalista.
Si tratta di
discorsi oziosi, perché non portano lontano; sono discorsi che peccano
di ingenuità. Il vero problema non è di preferire un modello all’altro,
perché tutti e tre sono obsoleti e non più accettabili: la vera sfida è
vedere come trovare un’organizzazione sociale e un assetto istituzionale
nel quale tutti e tre i principi trovino concreta espressione. La buona
società in cui vivere è quella in cui vi è l’efficienza, l’equità, ma
nella quale ci sia anche pratica di fraternità.
I limiti del conservatorismo compassionevole
Ho insistito sul
principio che ho chiamato di fraternità per affrontare il concetto del
“dono”. Ci sono due concetti di dono: il dono come “munus” e il
dono come “reciprocità”.
Il dono come
munus (munus vuol dire regalo) è il concetto tipico di quel
modello che abbiamo chiamato del “conservatorismo compassionevole”. Un
modello che affida alla compassione, e dunque alla filantropia, la
soluzione dei problemi che pone una società avanzata come la nostra. Io
non ho nulla contro la filantropia, ma non mi soddisfa, non mi
rassicura, perché il dono come munus, come regalo, tende a
spaccare la società, a diminuire la coesione sociale e, soprattutto, il
social capital. E questo perché? Io ho trovato la spiegazione più
chiara in un passaggio di Seneca nella decima lettera a Lucilio,
dove si legge: «non c’è odio più funesto di quello
di chi a un certo punto si rende conto di non essere in grado di
restituire o di reciprocare il dono o l’aiuto ricevuto». Il dono
come munus è pericoloso, perché tende a dividere la società tra
donanti e donatari, tra chi dà e chi riceve.
Ben si comprende
che, alla lunga, chi riceve dal filantropo prima o poi finirà per odiare
chi gli ha dato, perché il dono come munus – salvo che nelle
situazioni di emergenza – se diventa sistematico, principio base della
società, tende a umiliare, cioè a togliere quella che Adam Smith
chiamava la “self estim”, la stima di sé. Quando alle persone
togliamo la stima di sé, abbiamo tolto tutto: che cosa resta dell’uomo
quando gli abbiamo tolto la dignità, cioè la stima che ognuno ha di se
stesso? Infatti, se io ti dono e non ti metto nelle condizioni di
reciprocare, tu ti sentirai un assistito. Al contrario, il dono come
reciprocità ha una sua caratteristica precisa: non solo dà, ma consente
a chi ha ricevuto di reciprocare. Nel dono come regalo quello che conta
è l’oggetto donato, mentre nel dono come reciprocità quello che conta
non è l’oggetto, il valore della cosa donata, ma la relazione che io
stabilisco con l’altro. Il punto è tutto qui. Se io pongo una persona
nella condizione di chi deve solo ricevere e mai dare, le sottraggo la
parte più nobile di se stessa. Sta qui la ragione per cui non possiamo
meravigliarci di fronte a certe forme di violenza, o di certe proteste.
Oggi nelle nostre
società abbiamo bisogno di recuperare il concetto della reciprocità e di
renderlo un principio regolativo dell’ordine sociale perché, altrimenti,
di sola efficienza e di sola equità si può morire.
L’esplosione dei bisogni espressivi e di identità
Fino a tempi
recenti l’orizzonte dell’azione politica era quello della solidarietà.
La mia tesi è che non ci basta una società solidale. La solidarietà,
anche se è necessaria, non è sufficiente. La solidarietà, infatti, è il
principio che tende a rendere uguali i diversi, cioè a mettere i diversi
nelle condizioni di essere uguali rispetto a una qualche dimensione o a
una qualche caratterizzazione. (è
questo il significato del concetto d’equità). La fraternità, invece, il
principio che consente agli uguali di essere diversi. Questo vuol dire
consentire a soggetti, che sono sostanzialmente uguali quanto a
possibilità e campi di scelta, di affermare la loro specifica
individualità. Il problema è che oggi le nostre società non prestano
adeguata attenzione alla dimensione identitaria perché la solidarietà è
servita, in qualche modo, ad appiattire e a omologare le identità, a
renderle più o meno tutte uguali. Questa non è una critica alla
solidarietà, ma a chi si è fermato a questo orizzonte. Si può anche
immaginare una società solidaristica dove tutti, più o meno, stanno
nella stessa condizione, ma una società del genere, in cui le persone
non avessero la possibilità d’affermare la propria identità (che può
essere religiosa, culturale, etnica, di genere, ecc.), sarebbe una
società non corrispondente alle nostre aspettative.
La mancanza
d’attenzione per la dimensione della fraternità ha fatto e sta facendo
esplodere nelle nostre società i conflitti identitari. Il conflitto
d’identità non può essere confuso con quello d’interessi. La società
fordista, la società industriale, è stata essenzialmente centrata sul
conflitto d’interesse. Il problema è che oggi, nelle nostre società
avanzate, è emersa questa nuova categoria di conflitti che non possono
essere risolti con gli strumenti con cui si è affrontato il conflitto
d’interesse che è declinato sull’asse dell’avere. Il conflitto
d’interesse è un conflitto tra chi ha e chi non ha, tra chi ha più e chi
ha meno, mentre il conflitto dell’identità è declinato sull’asse
dell’essere, tra chi è e chi non è, tra chi è riconosciuto e chi non.
Non si può pensare di risolvere il conflitto d’identità che è legato
all’essere, cioè alla dimensione esistenziale, usando gli strumenti
tipici con cui si sono risolti i conflitti d’interesse. Si può allora
iniziare a comprendere perché lo scambio di equivalenti non basta più.
Coniugando opportunamente efficienza ed equità possiamo risolvere, anche
se non tutti, i conflitti d’interesse. Il grande merito storico del
welfare state è stato proprio questo, ma la novità di questa nostra
epoca è che il conflitto identitario fa aggio sul conflitto d’interesse
e per questo abbiamo bisogno che venga declinato nella pratica il
principio di fraternità.
Il
riequilibrio dei consumi fra utilità e felicità
Possiamo ora porci
questa domanda: qual è la caratteristica del modo tradizionale di
pensare l’attività di consumo quale che essa sia? Spesso si considera
come unico elemento del sistema motivazionale dell’atto di consumo
l’utilità che una persona pensa di poter trarre dall’oggetto che
acquisisce. Si tende, in definitiva, a confondere il concetto di
felicità con il concetto d’utilità, eppure la differenza è notevole.
L’utilità è la proprietà della relazione tra l’essere umano, la persona
e la cosa. Le cose sono utili, ma la felicità è la proprietà della
relazione tra persona e persona.
è questo un punto su cui occorre riflettere: durante la lunga
stagione della società fordista è accaduto che utilità e felicità, in
qualche modo, si sovrapponessero. In altre parole, il consumo degli
oggetti, delle cose, mentre mi dava utilità mi consentiva anche di
dilatare gli spazi di felicità. Non è difficile da comprendere: se sono
affamato e tu mi dai del pane, il pane mi dà l’utilità (e questo è
ovvio), ma mi rende anche più felice perché è certo che un affamato non
può essere felice.
La novità di questa
nostra fase storica è che continuiamo a pensare – sbagliando – che
l’utilità possa andare di pari passo con la felicità, mentre non è più
così. Io posso essere un massimizzatore di utilità, ma posso essere
anche sempre più infelice, perché mentre l’utilità è legata alle cose
che io consumo, la felicità è invece legata alle relazioni
interpersonali. Bisogna, tuttavia, fare attenzione, perché le relazioni
interpersonali mi danno felicità solo se non sono utilizzate in chiave
strumentale: la felicità è data dalla relazione in quanto tale. Oggi
viviamo in una società nella quale le possibilità di aumentare la nostra
utilità sono grandiose, al tempo stesso, però, mentre aumentiamo le
nostre utilità tendiamo a ridurre le occasioni di felicità. Le
relazioni, per essere coltivate, sono in trade off, in
alternativa, alla capacità d’ottenere più reddito con il quale comprare
più beni. Ieri non c’era questo trade off, perché si lavorava di
più, si guadagnava di più, si compravano più beni che mi davano
un’utilità e mi rendevano anche più felice. Oggi, per massimizzare
l’utilità mi si dice che devo guadagnare di più, perché solo in questo
modo aumenta il mio potere d’acquisto e posso comprare più beni. Ma mai
si dice che operando in questo modo sono costretto a ridurre i tempi da
dedicare alle relazioni interpersonali, e la felicità dipende
essenzialmente da queste relazioni.
Il problema non è
tanto quello di diminuire il livello dei consumi – i consumi non
vanno assolutamente diminuiti ma aumentati – ma di mutare la
composizione degli stessi. Il punto è che stiamo consumando troppi beni
“da utilità” e troppo pochi beni “da felicità”; ossia consumiamo troppe
cose che danno utilità e non, invece, quei beni in grado di consegnare
felicità, i beni relazionali, appunto. Il bene relazionale ha la
caratteristica di essere un bene che ha la proprietà dell’anti-rivalità;
i beni pubblici hanno la caratteristica della “non rivalità”.
“Anti-rivalità” vuol dire che la soddisfazione di ciascun soggetto
aumenta con l’aumentare dei soggetti con i quali questi entra in
relazione: io sono tanto più soddisfatto, e quindi felice, quanto più
riesco a relazionarmi con gli altri.
In altre parole, ci
sono due modi in cui noi affermiamo il nostro bisogno di identità e il
bisogno di “consumi espressivi”: c’è il modo della posizionalità
e quello della relazionalità. Il modo della posizionalità è quello che
distrugge. I beni posizionali sono quei beni tali per cui «se li
consumo io, tu li devi consumare nello stesso ammontare con segno meno
davanti e la loro somma algebrica è uguale a zero». Un tipico
bene posizionale è il potere: io ho potere nella misura in cui vi è
qualcuno che lo subisce; se non ho nessuno su chi esercitare il mio
potere, questo si riduce a nulla (un altro esempio è rappresentato dagli
status symbol). La caratteristica del bene posizionale è quindi
quella di rispondere a un’esigenza d’espressività, ma ciò avviene in
forma deteriore, negativa, cioè con la diminuzione o, al limite estremo,
la distruzione dell’altro. La guerra non è altro che la forma più feroce
della lotta per beni posizionali, perché con essa si giunge fino alla
totale sottomissione o distruzione dell’altro. Il problema vero è fare
in modo che l’espressività – un bisogno ineliminabile che c’è in ognuno
di noi – anziché prendere la via della posizionalità, prenda la via
della relazionalità e questa, come dicevo prima, è anche la strada per
civilizzare il mercato, che può aiutarci a comprendere che «io
aumento il mio stare bene tanto più quanto più sto con te e quindi,
anche il tuo star bene fa parte del mio stare bene».
Non si tratta di un
problema di falsa morale ma di comprendere – come insegnava Aristotele –
che “l’uomo nasce per la felicità”. Non troveremo mai un essere umano
che dica di non voler essere felice; si possono trovare persone che
dicono di voler rinunciare all’utilità – e se ne trovano – ma nessuno
rinuncia alla felicità. Il problema è diventato serio perché siamo
arrivati a uno stadio dello sviluppo umano, in cui, in qualche modo, i
bisogni fondamentali, primari, sono stati soddisfatti o possono essere
soddisfatti, ma non riusciamo a dare risposta a quel bisogno
fondamentale che è il bisogno di felicità. Tutto questo perché il tipo
di intersoggettività, che a volte in modo miope stiamo continuando a
perseguire anche a livello istituzionale, postula o fa riferimento a una
fase storica dello sviluppo che è quella della società fordista, mentre
siamo ormai in un’epoca postmoderna, postindustriale, dove il bisogno
prepotente è quello dell’espressività. Noi abbiamo sicuramente – e
avremo sempre – bisogni acquisitivi, bisogni cioè che soddisfiamo
acquisendo e consumando (consumando nel senso letterale del termine,
perché nel suo significato etimologico il verbo “consumare” vuol dire
“distruggere”).
Le relazioni
interpersonali, in una forma che varia da contesto a contesto, traducono
invece quello che viene chiamato “il principio di fraternità”,
che significa scoprire il volto dell’altro e scoprire che l’altro è un
tu e non un alter ego. L’utilitarista è uno che vede
nell’altro un alter ego, cioè un altro io: mi rispecchio, perché voglio
vedere nel tuo volto la mia faccia, ma chi fa questo è “uno sciocco
razionale”, come ha scritto Amartya Sen alcuni anni fa, un “rational
fool”. Lo sciocco razionale è questo: una persona che per
massimizzare l’utilità, trascura la felicità. Si può essere più sciocchi
di così?
Umanesimo civile versus umanesimo incivile
Il bisogno di
felicità è un bisogno che non può essere compresso e riscoprire oggi
questa categoria ci può permettere di ripensare il cosiddetto “modello
di sviluppo” ma, soprattutto, di avere una bussola sulla base della
quale riorientare le nostre condotte.
L’umanesimo ha
conosciuto due versioni: “l’umanesimo civile” e “l’umanesimo incivile”;
quello civile trova le sue origini nel pensiero di Aristotele, mentre
quello incivile in Platone. L’umanesimo incivile condurrà a Machiavelli,
da Machiavelli a Hobbes, da questi a Bernard de Mandeville e quindi a
Bentham che chiude il ciclo. In altre parole, un’antropologia
iperminimalista dell’uomo secondo cui l’essere umano è soltanto un
portatore di bisogni materiali; un “cercatore di utilità” diremmo
in termini moderni.
L’antropologia
dell’homo economicus, o se volete dell’individualismo ontologico,
ha il grave limite di trascurare un altro filone di pensiero:
all’inizio, l’economia, il mercato, nascono come “economia civile”,
ossia come un tentativo di mettere insieme i tre principi più sopra
richiamati. Il mercato, per un certo periodo, nasce sulla base di quest’intuizione,
come strumento di civilizzazione e di umanizzazione dei rapporti.
è stato Max Weber che,
seguendo Hobbes, nel suo famoso saggio, L’etica protestante e lo
spirito del capitalismo, fa coincidere la nascita del mercato con
l’umanesimo incivile. Contro questa interpretazione resta il fatto che
il mercato è nato sulla base di un’idea di civilizzazione dei rapporti
interpersonali. Si pensi al mecenatismo che nasce con l’umanesimo
civile, oggi confuso con la filantropia anche se nulla a che vedere con
questa. Il mercato è luogo di incontri, ma di incontri di persone e non
solo di merci. La sfida di oggi, a mio avviso, è il recupero
delle ragioni delle origini anche se in forme, ovviamente, completamente
rinnovate. Tornare al mercato come luogo di incontri significa anche che
la fraternità non può rimanere confinata in una nicchia, come pretendono
i sostenitori della teoria del terzo settore: non possiamo accettare un
mercato governato dalla sola logica del profitto, dello sfruttamento,
ritirandoci nella nicchia dei buoni, o dei buonisti, che si
riscattano con i bei gesti. Bisogna che il principio di fraternità entri
dentro il mercato per sposarsi con l’efficienza.
Sapere che oggi
siamo nelle condizioni storiche in cui una sfida del genere – che è al
tempo stesso culturale e politica – può essere raccolta e vinta, ci deve
riempire di quella speranza che ci consente di capire che, come diceva
Musil, «il futuro è coltivare il senso della possibilità»
e cioè, in altre, parole, che è possibile cambiare. Non è vero che siamo
prigionieri di determinismi che ci impediscono di avanzare. Coltivare il
senso della possibilità equivale a imparare che in fase di crisi – e
crisi vuol dire “transizione” – bisogna imparare dalla natura e gettare
semi di speranza ad ampie mani: alcuni si perderanno, ma quei pochi che
germoglieranno daranno molto frutto.