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«Non
chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe, e
a lettere di fuoco / lo dichiari e risplenda come un croco / perduto in
mezzo a un polveroso prato. // Ah l’uomo che se ne va sicuro, / agli
altri ed a se stesso amico, / e l’ombra sua non cura che la canicola /
stampa sopra uno scalcinato muro! // Non domandarci la formula che mondi
possa aprirti, / sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. /
Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che
non vogliamo»: è con questa poesia di Eugenio Montale che vorremo
avviarci a scorgere il nostro mondo interiore dinanzi ad un tempo che
impedisce di avere parole chiare circa l’identità di ciascuno e di
sostenere senz’altra domanda sogni e progetti.
Dobbiamo apertamente confessare il
nostro disagio profondo nei confronti di un’epoca che.
lentamente ed inesorabilmente priva
l’animo religioso di ogni antica sicurezza: le nostre parole più care
non trovano cassa di risonanza nel cuore dei più, dei giovani
specialmente, i nostri simboli sono diventati appena riconoscibili ed in
ogni caso non più capaci di indirizzare al loro proprio significato; i
nostri conventi e le nostre case appaiono sempre più vuoti e perciò
alcuni di essi sono destinati ad una prossima chiusura; la stessa
religione, quella per la quale votammo la nostra vita, non è più
percepita come un elemento a sostegno dell’umana felicità, ma quasi a
mo’ di un intralcio alla libera realizzazione dei nostri contemporanei.
Certamente, non dobbiamo aver paura
di riconoscere in noi i segni di questa opera di spoliazione che il
tempo, questo tempo, conduce, eppure, o forse proprio per questo,
anche noi come il poeta non sappiamo come poter dire o ridire oggi
chi siamo, non sappiamo come portare alla luce ciò che
vogliamo, ciò che a noi è apparso, nei giorni della giovinezza,
degno di nulla di meno che della nostra intera esistenza.
Povertà e mistica
A nulla, tuttavia, vale lottare
contro il tempo, neanche contro questo tempo, che chi studia definisce
“postmoderno” e descrive come una radicale mutazione nella sensibilità
media degli uomini e delle donne dell’Europa occidentale.
Per questo la prima tensione
interiore da attivare è quella di scovare e buttar via ogni punta di
risentimento per ciò che ci capita e che in noi quasi naturalmente si è
annidata. Dobbiamo piuttosto riconoscere, dare nome e voce a ciò che
stiamo subendo, patendo. Allontaniamo da noi dunque sogni di impossibile
ritorno ad epoche auree di cristianità, accettiamo piuttosto di vivere
sino in fondo la povertà cui ci costringe il nostro oggi ed in essa ci è
dato di riscoprire una nota genuinamente caratterizzante della nostra
fede. Basterebbe pensare a San Francesco e al suo presepe, a San
Domenico e agli ordini dei mendicanti, a San Giovanni della Croce e alla
notte oscura, a Santa Teresa d’Avila con la sua dialettica del “nada-todo”,
per arrivare sino a Madre Teresa e ai mille missionari sparsi tra i
poveri come poveri.
Ebbene, la povertà che sinora è stata
pensata soprattutto come una pratica di tipo ascetico (liberarsi dal
peso e dal legame di questo mondo per aprirsi a Dio) ci è ora imposta da
questo mondo, il quale ci sottrae la sicurezza di un ruolo ben definito,
di una missione da tutti apprezzata, di un linguaggio da ognuno
compreso, di un prestigio senz’altro riconosciuto, di servizi necessari
alla vita comune. Ma perché tutto questo non diventi occasione di
depressione o di ferito disincanto è necessario un nuovo atteggiamento
mistico. Sì, una mistica della povertà che legga la sottrazione come
liberazione, che ci permetta di confessare in questo “nulla più avere”
l’originario di ogni scelta religiosa: non il mondo, non gli altri, ma
un “tutto essere per Dio”. Nella povertà che il mondo ci assegna,
rinnoviamo la scoperta del primato di Dio.
Da questa mistica della povertà
dovrebbe e potrebbe nascere anche un atteggiamento di autentica gioia:
se uno ha Dio, nulla gli manca, anche quando tutto gli manca. Ed
anche una nuova simpatia per il nostro Dio e per i nostri
contemporanei.
Il nostro Dio è difatti anch’Egli
sottoposto al destino della dimenticanza, dell’agnosia, dell’abbandono,
della povertà: avevano, gli uomini, imparato a vivere naturalmente
con Dio, sino al tardo Medioevo; poi nacquero quelli che iniziarono
a vivere contro Dio; i nostri contemporanei hanno ora iniziato a
cavarsela senza Dio. I giovani soprattutto: la prima generazione
orfana di Dio. E di conseguenza un Dio orfano di noi.
Speranza e profezia
E forse in quest’ultima
constatazione, cioè nel riconoscere che ci troviamo dinanzi a donne e
uomini diventati ormai “poveri di Dio” e di un Dio divenuto “povero di
uomini”, potremmo trovare quella ferita comune che possa ridare peso e
senso alle nostre parole e alle cose che facciamo.
Quando infatti uno non ha Dio, tutto
gli manca, anche se nulla gli manca.
Gli manca soprattutto la speranza: nel cielo grigio dell’assenza di Dio,
il respiro si raccorcia, lo sguardo non ha più lucidità e forza,
emergono gli spazi dell’egoismo e dell’individualismo, la vita perde
sapore e colore, tanti piccoli idoli assediano il cuore umano,
succhiandogli il sangue e la gioia elementare dell’essere. Dovremmo
diventare più sensibili, sviluppando in noi capacità sismografiche per
questi moti interiori dei nostri contemporanei, leggendo dietro e dentro
i loro sorrisi sofferti e i volti corrucciati la fatica di una libertà,
che, sganciata da Dio, ogni giorno deve inventarsi ragioni di vita e di
senso.
Tutto ciò richiede che venga meglio
alla luce la dimensione profetica della vita consacrata, di quel
gusto e di quella connaturalità con le cose che valgono davvero, che
rendano la nostra esistenza illuminante per la vita dei nostri
fratelli e delle nostre sorelle.
Ecco di cosa oggi vi è bisogno: di
una parola profetica che ricordi a ciascuno che questo mondo non è il
paradiso, che la vita non vale per le cose che possediamo e meno che mai
per le cose che non possediamo; di una parola che ricordi, insomma, che
la vita vale solo per l’amore di cui siamo capaci e che alla fine
convinca ciascuno che nessuno di noi è Dio e che solo accogliendo la
nostra finitezza potremmo convertirla in luogo di benedizione della vita
che ci è toccata in sorte.
Comunità e futuro
Non si tratta, è ovvio, di un cammino
semplice, ma la specificità della vita consacrata è data anche dalla
vita di comunità, dal fatto che nessuno è lasciato a se stesso, ma
ognuno viene accompagnato e sostenuto dalla preghiera e dalla presenza
degli altri.
È davvero importante dare nuovo
vigore ad un tale tratto dell’essere insieme specifico della vita
religiosa, che non riguarda la semplice organizzazione esterna di una
congregazione, ma che tocca fino in fondo la verità dell’essere umano.
Scommettere di nuovo sulla forza
della comunione, anche quando costa, anche quando non ci viene
spontaneo, è decisivo esattamente in ordine alla testimonianza da dare
ad un mondo che tenta di dividere, di separare i destini degli uni da
quelli degli altri, che continua a disinteressarsi di milioni di esseri
umani che possono addurre ragionevoli motivi per maledire la loro
esistenza malridotta, sottoposta alla scarsità di igiene, di medicine,
di cibo, di pace.
Il futuro cresce dove ci si fa carico
gli uni degli altri ed in modo particolare dei più giovani e dei più
svantaggiati. Per fare questo è necessario inventare stili di vita che
si ispirino ad un paradigma dell’unità e della comunione del genere
umano, e in tutto ciò le nostre comunità dovrebbero diventare “casa e
scuola di comunione”. Ma il primo passo si compie sempre nella propria
anima.
Conclusione
Dopo aver esplorato qualche passaggio
del paesaggio dell’anima che ci tocca al presente abitare, vorremmo
ritornare alla quotidiana fatica, accompagnati dalla parole di un altro
poeta, anzi di una poetessa, Nelly Sachs, che in una straordinaria
folgorazione scrive: «Se i profeti irrompessero / per le porte della
notte / e cercassero un orecchio come patria // Orecchio degli uomini /
ostruito d’ortica / sapresti ascoltare?».
Non sappiamo dove stiamo portando il
nostro mondo né indicare come e quando le orecchie degli uomini potranno
venire “aperte” a quella parola profetica che è la vita consacrata.
Sappiamo però che lo Spirito si fa
strada nei sentieri della storia, fa breccia dentro le strade affannate
e polverose di questo nostro mondo. A Lui chiediamo che la nostra
fiducia sia più forte di ogni possibile risentimento e che la nostra
testimonianza trovi anche oggi formule che sappiano aprire il cuore e
l’orecchio di questo mondo a Dio. Chi infatti non manca di nulla, ma
è povero di Dio, manca di tutto.
Matteo Armando
Assistente ecclesiastico nazionale della FUCI
c/o Casa Assistenti Via F.
Marchetta Selvaggiani, 22
00165 Roma
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