 |
 |
 |
 |
«Ogni
atleta è temperante», gridava Paolo ai Corinzi (1Cor 9,25), e fra questi
poneva se stesso, con la convinzione che se non ci si tiene su di tono,
tutto si decompone, anche nella vita spirituale.
Di fatto nella tradizione cristiana
per secoli della “esercitazione” metodica – appunto questo il senso
della askesis greca – s’è parlato a dismisura e soprattutto s’è
organizzato un sistema pratico fatto di mortificazioni e privazioni,
sacrifici e rinunce, paure e terapie, davanti al quale oggi si resta
perplessi. La cultura lo ha semplicemente gettato via, con una perdita
secca anche della sua stessa sapienza.
Per secoli, e forse ancora per una
certa frangia di credenti oggi, la vera grandezza di un “santo” si
misura sulle forme di “penitenza” e di “straordinaria mortificazione”:
ben lontano quindi dal modello biblico della tenerezza, della
vulnerabilità, del cuore mite e sapiente. Certi santi sono stati
campioni più prossimi ai “fachiri” che agli invitati al banchetto del
Regno, vestiti con la veste bella. Ma perché questo stereotipo di santo
come “nemico di tutto ciò che è umano” ha avuto tanta fortuna?
Un groviglio storico
Per quanto si possa riconoscere tutta
una serie di influssi extrabiblici per es. le correnti stoiche, quelle
platoniche, quelle catare non c’è dubbio che vi è stato come un
accanimento, spesso terapeutico per buoni fini, ma spesso anche
masochista, quasi che il corpo e le sue esigenze e pulsioni siano
patologie “diaboliche” dell’anima, da estirpare senza pietà. Chi se ne
intende sa bene che questa visione “dualista” non è monopolio dei
cristiani, ma trasversalmente si ritrova in tutte le religioni: e forse
i cristiani nella loro identità preideologica (vale a dire negli eventi
fondativi, Gesù di Nazaret), sono anzi i meno inquinati, data la base
incarnatoria della loro visione della salvezza.
Dai monaci del deserto, che nelle
loro aspre solitudini trascinavano certo una qualche tinta di stoicismo
esasperato, ai monaci missionari irlandesi che inventarono anche la
penitenza tariffata per meglio regolare il traffico penitenziale, alle
associazioni medievali dei “battuti” che giravano a fare bella mostra
delle loro “battiture” prolungate e ammonitrici. E poi dalle donne
sante anoressiche che si nutrivano solo del pane eucaristico alle
folkloriche consuetudini barocche di penitenze strane e spettacolari per
chiamare a conversione (pensiamo a certe processioni quaresimali), ce ne
sarebbero da raccontare. Faccio solo un cenno alla fioritura di testi
incentrati sul combattimento spirituale, di cui il teatino
Lorenzo Scupoli alla fine del Cinquecento è stato sintetizzatore
eccellente. Una scenografia di battaglia e di scaramucce, di stendardi e
di assalti, di armi e strategie, segno evidente di altri contesti.
Eppure attorno a questo immaginario si è protratta una spiritualità
“combattiva”, fino a ridosso del Vaticano II, certo sempre meno
credibile, ma comunque comoda per contrapporre bene e male.
Ma dobbiamo mettere di mezzo anche
una parte di modernità, che con l’esaltazione della dignità umana e
tutto quello che vi è correlato ha corroso gli archi rampanti
dell’impianto che slanciava l’edificio ascetico, trascinandolo verso il
basso, e caso mai spostandosi a fare da appoggio all’autorealizzazione
come nuova religiosità.
Certamente i secoli della modernità
non hanno di botto buttato tutto a terra, ma a partire dal canone della
bellezza corporea (degli artisti il merito) e poi dall’autonomia del
pensiero (Cartesio va citato) e ancora con l’esaltazione del progresso e
della razionalità, contro ogni forma di mitologia evasiva e religiosità
deresponsabilizzante (Kant e Marx meritano un cenno), hanno disseminato
crepe e mine che in seguito si sono rivelate fatali nell’ultimo secolo.
Peccato che nella destrutturazione sono andati giù tutti, buoni e
cattivi princìpi, saggezze secolari e stupidaggini pseudo religiose,
messianismi secolarizzati e utopie evangeliche.
Un patrimonio, quello “ascetico”, non
tutto spregevole, ma che nel giro di qualche decennio si è come
volatilizzato, è evaporato sotto la spinta di una secolarizzazione
dissacratoria, prima, e poi per il sopravvenire di altre antropologie
che hanno tolto il terreno sotto i piedi a queste tradizioni. Primo fra
tutti il nuovo approccio al corpo e alla corporeità: su cui faceva
fortuna la vecchia ascesi con il suo “disprezzo”, e che evidenziava un
disagio spesso patologico; mentre ora viene proposto un approccio
olistico, positivo, quale visibilizzazione di tutti i valori e le
potenzialità dell’individuo; e poi con una rivalutazione del corpo, ma
sganciato dai paradigmi cristiani della sua creaturalità e della
relazione con il soffio divino di vita (diciamo in termini tradizionali:
l’anima immortale). E qui sì rischiamo davvero la divinizzazione del
corpo, visto che l’anima ormai è argomento che sfuma quasi nel nulla.
Giustamente qualcuno ha anche parlato del “furto dell’anima” nel nostro
contesto culturale (cf. P. Barcellona).
Da dove ricominciare?
Ci si potrebbe domandare se vale la
pena rilanciare l’ascesi oggi, nel nostro contesto secolarizzato e
consumista. Intanto bisogna prima di tutto vigilare, perché l’inclinamento
schizofrenico natura/soprannatura, cielo/terra, corpo/anima, peccato/
grazia, mondo/chiesa, ecc. non è affatto scomparso nella mentalità e nel
linguaggio, nell’immaginario e anche nella sensibilità religiosa della
gente semplice e di molte persone religiose.
Anzi, ci sono certi segnali di
risorgenza confusa e magmatica, a cominciare dai rigurgiti sugli angeli
e i diavoli, allargandoci alla riapparsa di forme “ascetiche”
(chiamiamole pure così, ma con qualche benevolenza) che rasentano
venature masochistiche e gusto del “farsi male”.
Quando vedo scritto a caratteri
cubitali nel piazzale di un famoso santuario italiano: «Un corpo per
soffrire e un cuore per amare», mi domando se sono io che ho perso il
contatto col reale o se qualcuno è rimasto impigliato in linguaggi
fioriti in contesti ed in epoche non più significative.
Perciò per prima cosa direi che
bisogna abbandonare il linguaggio dualista, o anche sospettoso verso la
corporeità, e prendere questa come un’unità dinamica (di corpo e anima),
che è soggetta ad un divenire, che dà forma a valori e assunzioni di
valori assiologici incentrati meno sulla miniatura dell’anima impigliata
nei tentacoli del corpo e più sulla dinamica dell’attualizzazione delle
potenzialità della personalità (che è fatta di anima e corpo
inscindibili), che è esistenza in relazione, non più solipsistica, come
ieri.
Quella che Gaudium et Spes
chiama «una lotta drammatica tra il bene e il male» (GS 13) non va
intesa come esperienza di annientamento reciproco, come se si trattasse
di eserciti contrapposti che si devono distruggere.
Piuttosto va vista come esperienza
progressiva di sintesi ed equilibrio fra tendenze “secondo la carne”
(opere della carne) per dirla in termini paolini: cioè dove prevale
l’egoismo, la mancanza di trascendenza, la chiusura ambiziosa e ostile,
il mal uso delle pulsioni corporee, ecc. e le “tendenze secondo lo
spirito” (o opere dello spirito) dove al contrario prevalgono
l’oblazione, il perdono, il servizio, la collaborazione, la
misericordia, la pace. Perché solo in casi più unici che rari ci
troviamo di fronte a persone dove le opere della carne sono scomparse
del tutto. In genere tutti ci trasciniamo con fatica fra ideali alti e
possibilità concrete meno elevate.
E dobbiamo trovare un equilibrio
orientatore, un autocontrollo non maniacale, ma realista e paziente. Per
questo dico che bisogna trovare un equilibrio progredente, che abbia per
meta certo il camminare totale e trasfigurante secondo lo Spirito,
ma che intanto, come del resto Paolo stesso sinceramente confessava,
tenga a bada le pulsioni corporali, incanalandole, controllandole,
orientandole secondo il principio di una sinergia positiva e
comunitaria.
Non un suicidio
«simbolico» del corpo
Si
tratta cioè di abituarci ed educarci al dono di sé all’altro, non
immaginando di appartenere agli esseri angelici, ma nella realtà fragile
e peccaminosa che ci impasta tutti. In passato s’insisteva sulle
pratiche espiatorie e automaceranti. Oggi si insiste più opportunamente
su una vigilanza personale e una sinergia comunitaria che supporti
dialogo e abbraccio, vigilanza e discernimento, intuizione e attesa
paziente. A volte si ha l’impressione che per “salvare l’anima” si operi
una specie di “suicidio” simbolico del corpo, pensando che così si onora
Dio che è “divino”, appunto, cioè non ha nulla di “umano” (vale a dire
fragile). Ma non è questa la fede dei cristiani, che aderiscono al
“Verbo incarnato”, crocifisso e umiliato.
Nella nostra vita ci sono “fenomeni
di attrito” a sufficienza, senza che li andiamo a fabbricare da
sonnambuli ansiogeni: cioè abbiamo elementi di finitudine, malattia,
morte, disastri naturali,.sensazioni sgradevoli, convivenze tribolate.
Sarebbe opportuno gestire queste situazioni con sapiente prospettiva.
Anzitutto impegnarsi per trasformare i mali evidenti in risorse meno
tragiche, per una convivenza più solidale. Poi vivere la consapevolezza
che la sofferenza deve diventare “memoria pericolosa” che fermenta il
convivere e il proprio vivere, nella prospettiva della redenzione
operata dalla croce umiliante, ma redentrice. Infine imparare una
“sopportazione attiva” (come quella di Giobbe) che nella fede stringe i
denti e permane stabile nell’attesa di una luce decisiva, senza
sotterfugi magicosacrali. La prova della notte oscura e della fede di
Santa Teresina, potrebbe insegnarci qualche cosa di buono.
La solidarietà umana nella sofferenza
non è la somma delle sofferenze personali, più o meno conosciute, ma è
la strategia che mettiamo in atto come credenti, alla luce di Colui che
ha dato se stesso per noi, per rimanere coscienti della relazione
irrisolvibile della limitatezza umana rispetto al suo destino eterno. Si
solidarizza non per negare la precarietà dolorosa, o almeno per trovare
nel “mal comune mezzo gaudio”, ma per riconoscere che questa passio
mundi che ci accomuna è come un gemere della terra e dell’intera
creazione, per una redenzione trasformatrice, ma non puramente angelica.
Stringendo mani e cuori nella solidarietà, si afferma che questo nostro
eone non sarà trasfigurato se non nella speranza che infonde l’icona del
Crocifisso.
Bruno Secondin
Docente alla Pontificia Università Gregoriana
Borgo S. Angelo, 15 –
00193 Roma
 |