n. 1
gennaio 2010

 

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Il Vangelo e lo sviluppo umano

di LILIA SEBASTIANI

 

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Il progresso, parola che sembra così moderna, accompagna da sempre lo sviluppo dell’umanità. Non così la riflessione teorica su di esso. In certe epoche non si pensava affatto che gli uomini dovessero progredire: la finitezza era vista come la loro caratteristica principale, la moderazione costituiva un requisito etico fondamentale e raccomandato. Nella mitologia greca Prometeo, ‘eroe della modernità’ e amico degli uomini, che comunque non è un uomo ma un titano, quindi appartenente ad altra sfera, viene punito terribilmente dal re degli dei per aver dato un impulso decisivo allo sviluppo della civiltà umana con il dono del fuoco... Ma anche in età cristiana il pensiero non cambia automaticamente. Così pure nel nostro Medio Evo occidentale, era difficile pensare uno sviluppo che non fosse nel senso di un maggiore avvicinamento a Dio: l’esistenza terrena non era considerata un valore in se stessa.

"Essere di più"

Concezioni teoriche e prassi non necessariamente concordavano: l’ansia di avere di più, di essere di più, si riscontrano e producono conseguenze di valore immenso, accanto a conseguenze distruttive, anche in epoche che non riconoscono l’idea di progresso come valore. L’idea di progresso, l’impulso a progredire, i progressi stessi realizzati in ogni ambito, sono ambivalenti: di per sé al servizio dell’umanizzazione, possono giungere fino all’empietà e alla dissennatezza ed essere usati contro l’umanità.

Ogni difficoltà che l’umanità ha incontrato sul suo cammino ha dato l’impulso a elaborare una strategia di superamento: ogni povertà dà la spinta a un progresso, e così pure ogni sovrabbondanza. Questo cammino sempre in avanti, sempre segnato dal persistere di un limite, ma animato dalla disposizione a spostare in avanti il proprio limite, è in sé molto bello e possiede un’insita carica teologico-spirituale. Il fatto che i suoi frutti non siano stati sempre buoni né sempre umani non deve indurre a negarne la dignità, né far dimenticare che il progresso umano rientra senza dubbio nel disegno originario di Dio, è un modo di rispondere a Dio.

L’enciclica Populorum progressio di Paolo VI, sistematicamente richiamata dall’attuale pontefice nella Caritas in Veritate, affermava che la vocazione al progresso spinge gli uomini a "fare, conoscere e avere di più, per essere di più" (n. 41). È da rilevare l’equilibrio di questa espressione, che riprende in una luce critica e articolata la distinzione classica tra avere e essere: sottolinea che il fare, l’avere, il conoscere sono al servizio dell’essere.

Ovviamente sul concetto di "essere di più" si addensano i possibili equivoci. Lo spirito di potere e sopraffazione, spesso dissimulato sotto insospettabili apparenze, è in agguato; il senso del nostro essere si confonde con quello dell’importanza che gli altri ci attribuiscono; il mistero dell’unicità personale si confonde con il ruolo, insomma l’essere si confonde con l’essere riconosciuto, la facoltà di agire con il potere nella sua declinazione più volgare, e per questa via l’essere può ricadere nella sfera dell’avere, pericolosissima quando sia onnicomprensiva.

Sviluppo umano e crescita del Regno

Le parole "progresso" e "sviluppo " vengono spesso adoperate come sinonimi. In realtà l’idea di sviluppo ci appare più vasta: comprende anche il progresso nei vari ambiti, ma forse sarebbe riduttivo identificarlo con questo.

La Populorum progressio affermava che il vero sviluppo è di tutti gli uomini e di tutto l’uomo, e questa idea veramente fondamentale e irrinunciabile (una delle idee portanti del Concilio Vaticano II) viene ripresa da Benedetto XVI in tutta la sua enciclica, ma in modo particolare al n.18, in cui si afferma in sostanza che il Vangelo costituisce un elemento fondamentale dello sviluppo umano.

Non si parla qui dei Vangeli, di un testo specifico, ma del messaggio di Gesù, ci si riferisce a tutto l’insieme del suo evento, al suo insegnamento inteso come unità di parola e di atto.

Per noi cristiani l’evento di Gesù costituisce la tappa definitiva dell’alleanza: Gesù porta il Padre agli uomini e gli uomini al Padre. Tutta la sua vita pubblica si identifica con l’annuncio del Regno, questa realtà misteriosa e totale che all’orecchio di chi non ha familiarità con l’evangelo tende a suonare un po’ come "il Paradiso", ad essere spostato oltre la vita terrena, oltre la storia, diventando di fatto una realtà ininfluente.

La vita pubblica di Gesù comincia con l’annuncio del Regno vicino (cf Mc 1,15), di un Dio vicino, solidale con gli uomini più di quanto gli schemi religiosi consueti di ogni religione permettano di credere; di una speranza oltre ogni evidenza, di un perdono la cui misura giusta è la dismisura.

Non si tratta però di un’altra alleanza, di un’altra rivelazione in alternativa a quella del primo Testamento. Nel messaggio evangelico ritroviamo l’idea centrale dell’antropologia teologica dei racconti di creazione: l’essere umano immagine di Dio, la creazione come chiamata, la creaturalità come missione. Nel secondo racconto di creazione viene detto che il Giardino di Eden – immagine simbolica di un mondo armonico e a misura d’uomo - viene affidato all’essere umano appena creato "affinché lo coltivasse e lo custodisse" (Gen 2,15). Coltivare vuole dire mettere una certa realtà in condizione di dare frutto; custodire significa l’atteggiamento vigile di chi cerca di tenere al riparo da ogni male la realtà che ama e di cui si sente responsabile. La missione di Adam non viene meno dopo la caduta, anzi si amplia: non più verso il Giardino, ma verso il mondo. Il luogo della complessità, della contraddizione, della fatica, ma sempre il luogo di cui Dio si dà pensiero. E se talvolta il suo silenzio apparente ci turba, quel silenzio potrebbe essere una specie di domanda, una sfida piena di amore, l’attesa di una parola umana autonoma.

Perché autonomia, creatività, libertà, sono dimensioni della logica di creazione e di salvezza, non "nonostante Dio" ma, per i credenti, radicate in Dio.

Centralità della carità

Il Pontefice ricorda che "la visione cristiana ha la peculiarità di affermare e giustificare il valore incondizionato della persona umana e il senso della sua crescita" (CV 18).

Vivere nella logica del Vangelo significa credere "non a parole, ma con i fatti e nella verità " che l’essere umano è immagine di Dio. Notiamo che è possibile credere e vivere questo, in certe situazioni esistenziali, anche senza un consapevole richiamo a Dio. Vi sono persone apparentemente non credenti che vivono in questa logica in modo esemplare: Dio e il suo Spirito hanno infinite strade per operare nel cuore dell’uomo e nelle vicende della storia. Da questa centralità della persona scaturisce ogni principio etico, ogni spiritualità delle realtà terrene: chi crede questo tratterà sempre (è l’indimenticabile espressione kantiana) come un fine e non come un mezzo. Così nei rapporti individuali, così nelle decisioni organizzative e strutturali, così nella più vasta progettualità storico-politica.

L’approdo logico di questa visione viene affermato dal Pontefice nel successivo n.19 della Caritas in Veritate: centrale nello sviluppo umano è la carità. Centrale nel senso che la sua mancanza impedirebbe ad ogni progresso di essere integrale e ‘umano’; e anche nel senso che ogni vero progresso è anche una crescita nell’amore, comunque lo chiamino quelli che lo vivono.

Sappiamo che parecchi non credenti, insofferenti non solo e non tanto di una visione religiosa dell’esistenza, ma di un lessico che rinvia immediatamente all’uso religioso, hanno

assai criticato quest’idea, come se attentasse alla legittima autonomia delle realtà terrene o incrinasse la centralità della giustizia. In realtà ci sembra uno degli apporti più significativi dell’enciclica questo appello a sdoganare, per così dire, la carità dall’ambito tradizionalmente privato in cui si tende a confinarla, per farne il motore e, almeno tensionalmente, il principio guida della vita pubblica nelle sue varie dimensioni, secondo uno stile che sia coerente con il principio-carità: cioè di dialogo, di collaborazione, di rispetto. Il primo requisito della carità è tener conto dell’altro (singolo o collettivo che sia) e non usare nei suoi confronti atteggiamenti operativi o culturali che potrebbero venir percepiti, anche a torto, come offensivi. Anche qui, l’annuncio è essenzialmente un problema di linguaggio.

Perciò la carità - tra cristiani continuiamo a chiamarla così per sottolinearne la dimensione agapica, mentre ‘amore’ nel linguaggio comune sembra sempre troppo legato alla sfera dei sentimenti, alla simpatia - deve essere vissuta e resa possibilmente irradiante, contagiosa, senza chiamarla con il suo nome, quando il suo nome dovesse sembrare qualcosa che ostacola il dialogo anziché aiutarlo. Non è affatto opportunismo, non strategia, ma qualcosa di molto più nobile: una forma di prudenza-discrezione e rispetto dell’altro che sentiamo non dissociabili dalla carità.

Lilia Sebastiani
Articolista
e conferenziera in materia teologica
Via Isonzo, 9 – 05100 Terni

 

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