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Il
progresso, parola che sembra così moderna, accompagna da sempre lo
sviluppo dell’umanità. Non così la riflessione teorica su di esso. In
certe epoche non si pensava affatto che gli uomini dovessero progredire:
la finitezza era vista come la loro caratteristica principale, la
moderazione costituiva un requisito etico fondamentale e raccomandato.
Nella mitologia greca Prometeo, ‘eroe della modernità’ e amico degli
uomini, che comunque non è un uomo ma un titano, quindi appartenente ad
altra sfera, viene punito terribilmente dal re degli dei per aver dato
un impulso decisivo allo sviluppo della civiltà umana con il dono del
fuoco... Ma anche in età cristiana il pensiero non cambia
automaticamente. Così pure nel nostro Medio Evo occidentale, era
difficile pensare uno sviluppo che non fosse nel senso di un maggiore
avvicinamento a Dio: l’esistenza terrena non era considerata un valore
in se stessa.
"Essere di più"
Concezioni teoriche e prassi non necessariamente
concordavano: l’ansia di avere di più, di essere di più, si riscontrano
e producono conseguenze di valore immenso, accanto a conseguenze
distruttive, anche in epoche che non riconoscono l’idea di progresso
come valore. L’idea di progresso, l’impulso a progredire, i progressi
stessi realizzati in ogni ambito, sono ambivalenti: di per sé al
servizio dell’umanizzazione, possono giungere fino all’empietà e alla
dissennatezza ed essere usati contro l’umanità.
Ogni difficoltà che l’umanità ha incontrato sul suo
cammino ha dato l’impulso a elaborare una strategia di superamento: ogni
povertà dà la spinta a un progresso, e così pure ogni sovrabbondanza.
Questo cammino sempre in avanti, sempre segnato dal persistere di un
limite, ma animato dalla disposizione a spostare in avanti il proprio
limite, è in sé molto bello e possiede un’insita carica
teologico-spirituale. Il fatto che i suoi frutti non siano stati sempre
buoni né sempre umani non deve indurre a negarne la dignità, né far
dimenticare che il progresso umano rientra senza dubbio nel disegno
originario di Dio, è un modo di rispondere a Dio.
L’enciclica Populorum progressio di Paolo VI,
sistematicamente richiamata dall’attuale pontefice nella Caritas in
Veritate, affermava che la vocazione al progresso spinge gli uomini
a "fare, conoscere e avere di più, per essere di più" (n. 41). È da
rilevare l’equilibrio di questa espressione, che riprende in una luce
critica e articolata la distinzione classica tra avere e essere:
sottolinea che il fare, l’avere, il conoscere sono al servizio
dell’essere.
Ovviamente sul concetto di "essere di più" si
addensano i possibili equivoci. Lo spirito di potere e sopraffazione,
spesso dissimulato sotto insospettabili apparenze, è in agguato; il
senso del nostro essere si confonde con quello dell’importanza che gli
altri ci attribuiscono; il mistero dell’unicità personale si confonde
con il ruolo, insomma l’essere si confonde con l’essere riconosciuto, la
facoltà di agire con il potere nella sua declinazione più volgare, e per
questa via l’essere può ricadere nella sfera dell’avere, pericolosissima
quando sia onnicomprensiva.
Sviluppo umano e crescita del Regno
Le parole "progresso" e "sviluppo " vengono spesso
adoperate come sinonimi. In realtà l’idea di sviluppo ci appare più
vasta: comprende anche il progresso nei vari ambiti, ma forse sarebbe
riduttivo identificarlo con questo.
La Populorum progressio affermava che il vero
sviluppo è di tutti gli uomini e di tutto l’uomo, e questa idea
veramente fondamentale e irrinunciabile (una delle idee portanti del
Concilio Vaticano II) viene ripresa da Benedetto XVI in tutta la sua
enciclica, ma in modo particolare al n.18, in cui si afferma in sostanza
che il Vangelo costituisce un elemento fondamentale dello sviluppo
umano.
Non si parla qui dei Vangeli, di un testo specifico,
ma del messaggio di Gesù, ci si riferisce a tutto l’insieme del suo
evento, al suo insegnamento inteso come unità di parola e di atto.
Per noi cristiani l’evento di Gesù costituisce la
tappa definitiva dell’alleanza: Gesù porta il Padre agli uomini e gli
uomini al Padre. Tutta la sua vita pubblica si identifica con l’annuncio
del Regno, questa realtà misteriosa e totale che all’orecchio di chi non
ha familiarità con l’evangelo tende a suonare un po’ come "il Paradiso",
ad essere spostato oltre la vita terrena, oltre la storia, diventando di
fatto una realtà ininfluente.
La vita pubblica di Gesù comincia con l’annuncio del
Regno vicino (cf Mc 1,15), di un Dio vicino, solidale con gli uomini più
di quanto gli schemi religiosi consueti di ogni religione permettano di
credere; di una speranza oltre ogni evidenza, di un perdono la cui
misura giusta è la dismisura.
Non si tratta però di un’altra alleanza, di un’altra
rivelazione in alternativa a quella del primo Testamento. Nel messaggio
evangelico ritroviamo l’idea centrale dell’antropologia teologica dei
racconti di creazione: l’essere umano immagine di Dio, la creazione come
chiamata, la creaturalità come missione. Nel secondo racconto di
creazione viene detto che il Giardino di Eden – immagine simbolica di un
mondo armonico e a misura d’uomo - viene affidato all’essere umano
appena creato "affinché lo coltivasse e lo custodisse" (Gen 2,15).
Coltivare vuole dire mettere una certa realtà in condizione di dare
frutto; custodire significa l’atteggiamento vigile di chi cerca di
tenere al riparo da ogni male la realtà che ama e di cui si sente
responsabile. La missione di Adam non viene meno dopo la caduta, anzi si
amplia: non più verso il Giardino, ma verso il mondo. Il luogo della
complessità, della contraddizione, della fatica, ma sempre il luogo di
cui Dio si dà pensiero. E se talvolta il suo silenzio apparente ci
turba, quel silenzio potrebbe essere una specie di domanda, una sfida
piena di amore, l’attesa di una parola umana autonoma.
Perché autonomia, creatività, libertà, sono
dimensioni della logica di creazione e di salvezza, non "nonostante Dio"
ma, per i credenti, radicate in Dio.
Centralità della carità
Il Pontefice ricorda che "la visione cristiana ha la
peculiarità di affermare e giustificare il valore incondizionato della
persona umana e il senso della sua crescita" (CV 18).
Vivere nella logica del Vangelo significa credere
"non a parole, ma con i fatti e nella verità " che l’essere umano è
immagine di Dio. Notiamo che è possibile credere e vivere questo, in
certe situazioni esistenziali, anche senza un consapevole richiamo a
Dio. Vi sono persone apparentemente non credenti che vivono in questa
logica in modo esemplare: Dio e il suo Spirito hanno infinite strade per
operare nel cuore dell’uomo e nelle vicende della storia. Da questa
centralità della persona scaturisce ogni principio etico, ogni
spiritualità delle realtà terrene: chi crede questo tratterà sempre (è
l’indimenticabile espressione kantiana) come un fine e non come un
mezzo. Così nei rapporti individuali, così nelle decisioni organizzative
e strutturali, così nella più vasta progettualità storico-politica.
L’approdo logico di questa visione viene affermato
dal Pontefice nel successivo n.19 della Caritas in Veritate:
centrale nello sviluppo umano è la carità. Centrale nel senso che la sua
mancanza impedirebbe ad ogni progresso di essere integrale e ‘umano’; e
anche nel senso che ogni vero progresso è anche una crescita nell’amore,
comunque lo chiamino quelli che lo vivono.
Sappiamo che parecchi non credenti, insofferenti non
solo e non tanto di una visione religiosa dell’esistenza, ma di un
lessico che rinvia immediatamente all’uso religioso, hanno
assai criticato quest’idea, come se attentasse alla
legittima autonomia delle realtà terrene o incrinasse la centralità
della giustizia. In realtà ci sembra uno degli apporti più significativi
dell’enciclica questo appello a sdoganare, per così dire, la carità
dall’ambito tradizionalmente privato in cui si tende a confinarla, per
farne il motore e, almeno tensionalmente, il principio guida della vita
pubblica nelle sue varie dimensioni, secondo uno stile che sia coerente
con il principio-carità: cioè di dialogo, di collaborazione, di
rispetto. Il primo requisito della carità è tener conto dell’altro
(singolo o collettivo che sia) e non usare nei suoi confronti
atteggiamenti operativi o culturali che potrebbero venir percepiti,
anche a torto, come offensivi. Anche qui, l’annuncio è essenzialmente un
problema di linguaggio.
Perciò la carità - tra cristiani continuiamo a
chiamarla così per sottolinearne la dimensione agapica, mentre ‘amore’
nel linguaggio comune sembra sempre troppo legato alla sfera dei
sentimenti, alla simpatia - deve essere vissuta e resa possibilmente
irradiante, contagiosa, senza chiamarla con il suo nome, quando il suo
nome dovesse sembrare qualcosa che ostacola il dialogo anziché aiutarlo.
Non è affatto opportunismo, non strategia, ma qualcosa di molto più
nobile: una forma di prudenza-discrezione e rispetto dell’altro che
sentiamo non dissociabili dalla carità.
Lilia Sebastiani
Articolista
e conferenziera in materia teologica
Via Isonzo, 9 – 05100 Terni
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