Quando
accosto la parola di Dio, mi sorprende e mi accompagna spesso un
sentimento d’intima gratitudine per un dono così grande: è la parola che
Dio rivolge anche a me, a te, e rischiara, orienta e corrobora tutta la
mia persona. Si stabilisce un dialogo di vita che Dio mantiene aperto
con quanti lo cercano e a lui aderiscono. In comunione con coloro che
leggono, meditano, contemplano, pregano la Parola, anch’io cerco con
tutto il cuore che essa plasmi e trasformi la mia vita.
Il contesto
La parabola dei talenti (Mtc25,14-30) è un brano
molto bello e coinvolgente per una lectio divina comunitaria.
Apre ad una visione sapienziale e spirituale di quello che è il nostro
servizio apostolico; svela la ricchezza della diversità e specificità di
ogni persona, nonché la necessità di cooperare alla causa del Regno;
rivela il senso della storia, del mondo, dell’uomo, fatto a immagine e
somiglianza di Dio. Oggi, in modo particolare, c’è bisogno di scoprire
il senso alto e profondo di ogni vita umana; nella stessa vita religiosa
è forte l’esigenza di rimotivare la propria scelta di chi "seguire" e
"servire".
Nel Vangelo di Matteo la parabola dei talenti si
colloca tra la parabola delle dieci vergini (Mt 25,1-13) e il brano del
giudizio finale (Mt 25,31-46). Si tratta di un intero capitolo, il 25°,
che chiarisce il concetto relativo al tempo dell’avvento del Regno ed
evidenzia come l’idea che ci facciamo di Dio è una delle dimensioni che
maggiormente incidono nella nostra vita e nelle nostre scelte. Una falsa
immagine di Dio isola l’essere umano, uccide la comunità, impedisce di
vivere nella gioia, impoverisce la vita.
La parabola delle dieci vergini insiste sulla
vigilanza: il regno di Dio può giungere da un momento all’altro. La
parabola dei talenti indugia sulla crescita del Regno: cresce
quando usiamo i doni ricevuti per servire. Il brano del giudizio
finale insegna come entrare nel Regno: vi entriamo, quando
accogliamo "i piccoli".
La parabola dei talenti si può suddividere in tre
tempi: uno passato, in cui abbiamo ricevuto il dono; uno presente, in
cui siamo chiamati a farlo fruttificare; uno futuro, in cui ci verrà
chiesto di rendere conto di ciò che nella vita ne abbiamo fatto.
In questa riflessione sostiamo su alcuni dei
molteplici aspetti che la parabola dei talenti mette in luce: il padrone
fa dei suoi servi degli amici cui affida tutti i
suoi averi; la ricchezza della diversità è un bene
per tutti; i talenti a noi affidati vanno riconsegnati a Dio con frutto.
Da servi ad amici
La nostra parabola apre il cuore al senso di una vita
piena che ci troviamo tra le mani come dono gratuito di Dio-Creatore.
Colui che ha pensato a noi e ci ha chiamato all’esistenza ci affida i
suoi "talenti" per il bene dei fratelli. Dietro l’immagine del talento
si cela la somma dei doni di grazia a noi elargiti dal Signore. Il
"denaro del padrone", i beni del Regno sono l’amore, il servizio, la
condivisione, il dono gratuito; talento è tutto quello che fa crescere
la comunità e che rivela la presenza di Dio. Quando ci si chiude in noi
stessi per paura di perdere il poco che si ha, lo si perde davvero,
perché l’amore muore, la giustizia si indebolisce, la condivisione
scompare. Al contrario, la persona che non pensa a sé e si dona agli
altri cresce e riceve in modo sorprendente tutto ciò che ha dato e molto
di più. "Chi vorrà salvare la propria vita – dice Gesù - la perderà, ma
chi perderà la propria vita per causa mia la troverà (Mt 10, 39).
La parabola, in particolare mette in risalto la
relazione libera e liberante del padrone con i suoi servi: "Avverrà
infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi
e consegnò loro i suoi beni". Si tratta di un rapporto non solo di
fiducia, ma anche di condivisione piena che allontana ogni esclusiva di
potere e di dominio. Il Signore ci associa a sé, concreatori nel mondo
che ci ha affidato, responsabilmente attivi nella costruzione del regno
di Dio che è la presenza divina nella storia. È la chiamata alla vita
nuova.
La distribuzione dei beni ai servi rimanda ad un
significato più profondo che dà senso al lavoro dell’uomo, associato
all’opera di Dio, che offre al nostro servizio apostolico l’obiettivo
alto di collaborare al suo progetto nella storia, perché siano rivelati
al mondo la bellezza della sua opera e l’amore per ogni creatura.
La ricchezza della diversità
I criteri che il padrone segue nel distribuire i suoi
beni potrebbero mettere in agitazione sindacalisti e difensori della
giustizia, ma anche suscitare in chi legge una certa confusione e
necessità di cogliere il perché di una diversità così plateale di
trattamento. È difficile accogliere tali criteri senza un cambio di
mentalità: i beni che ci sono affidati sono distribuiti in maniera
diversa, non secondo una generica e anonima uguaglianza, ma con una
personale e amorosa differenziazione che sta alla base delle scelte del
padrone.
La diversità non evidenzia solo i nostri limiti, ma
mette anche in risalto la specificità di ogni persona in quello spazio
di amore che Dio riserva a ciascuno. Solo così la diversità diventa
ricchezza l’uno per l’altro; quando non è così, la diversità diventa lo
spazio della divisione e dell’accusa, dell’invidia e della rapina, della
violenza e della morte.1
Possiamo dire che, in realtà, i talenti non sono le
doti o i beni da moltiplicare: rappresentano invece l’olio del brano
della precedente parabola delle dieci vergini, come pure l’amore verso i
poveri del brano seguente del giudizio finale. Il talento è l’amore che
il Padre ha verso di me, che deve "duplicarsi" nella mia risposta
d’amore verso i fratelli. Rispondere a questo amore mi rende ciò che
sono, figlio uguale al Padre.
Nella parabola, di fronte alla diversità del dono
ricevuto, c’è chi mette a frutto tutto quanto possiede e chi nasconde il
poco che ha. Gesù sembra non accettare l’atteggiamento del servo che
sotterra il suo unico talento, poiché non è il poco che ostacola la
crescita del Regno, ma la sterilità che mortifica l’espandersi
dell’amore nella persona e nella comunità.
Portare frutto
Il Signore Gesù elevato prima sulla croce e poi in
cielo non ci ha lasciati soli: ci ha dato il suo Spirito e aspetta di
essere riamato, perché noi, amando, realizziamo la nostra identità. Se
il talento è il dono d’amore ricevuto, il nostro amore per lui verso i
poveri è il talento che siamo chiamati a guadagnare. Solo così entriamo
come figli nella gloria del Padre suo e nostro.2
Siamo sollecitati dunque ad una vigilanza saggia e operosa, non inerte;
chi non investe il suo talento lo perde. La causa del fallimento è
spesso la falsa immagine che abbiamo del Signore: se lo consideriamo
severo ed esigente, il nostro rapporto con lui non sarà di amore, ma
legalistico, pauroso, sterile.
Far fruttificare i doni ricevuti, portare frutto, ci
immette nella corrente di quell’amore trinitario che fonda la crescita
di ogni persona e la costruzione di una comunità cristiana.
L’atteggiamento del servo che ha sotterrato il talento per timore del
suo padrone, esprime una situazione che facilmente si può riscontrare
anche
nella vita religiosa. Penso ad una possibile paralisi
istituzionale, quando non si osa rischiare di più; a una diffusa inerzia
spirituale giustificata da paure, resistenze, contrasti a livello
personale e comunitario, o motivata dai condizionamenti
socio-psicologici con i quali ci imbattiamo nel nostro quotidiano.
La sterilità è una categoria anticristiana. Pigrizia
e disimpegno sono atteggiamenti inaccettabili di fronte al dono della
fede e alla conseguente responsabilità missionaria di annunciare il
Vangelo. Ogni battezzato è chiamato a operare in sinergia con lo Spirito
Santo affinché non manchino luce, sale, lievito necessari a custodire la
famiglia umana nella solidarietà e nella comunione.
La vita comunitaria la possiamo paragonare ad una
banca in cui investire i nostri talenti; in cui si accoglie la diversa
distribuzione dei doni, non come misura di maggior o minor prestigio
personale, ma quale riconoscimento di una sapiente complementarietà di
carismi per la crescita del bene comune. La parabola dei talenti è la
parabola della creatività nella comunità e della liberalità dell’amore
che siamo chiamati a vivere come "operai della vigna del Signore".
Non basta essere conservatori della Parola, per paura
del rischio o per mancanza di iniziativa; il dono della fede impegna i
cristiani ad essere soprattutto promotori intraprendenti e generosi del
Vangelo di Gesù e dei beni della salvezza. Paolo VI ci ha lasciato un
monito severo per chi non mette a profitto il talento-dono della fede:
"Chi trascura il mandato missionario di annunciare Gesù Cristo, mette a
rischio perfino la sua salvezza personale e la sopravvivenza delle
comunità" (EN 80).
1Cf M. ORSATTI, Solo l’amore basta. Meditazioni
sul Vangelo di Matteo, Àncora, Milano 2001, 177-193.
2 Cf S. FAUSTI, Una comunità legge il Vangelo di
Matteo II, Dehoniane, Bologna 1999, 495-499.
Teresa Simionato
Madre generale
delle Maestre di Santa Dorotea
Via R. Conforti, 25 – 00166 Roma
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