n. 10
ottobre 2010

 

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Dal profetismo del corpo alla sua teologia

di MARIA TRIGILA

 

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Dire una parola franca che affonda la sua autorevolezza non in un dogma ma in un vissuto è uno degli elementi che ci rendono capaci di dialogare nella diversità e nel rispetto delle singole identità. Ed in quanto persone con un corpo e un’anima, fatte ad immagine e somiglianza di Dio, troviamo il significato della vita attraverso la scoperta di cosa significhi essere immagine di Dio e di cosa i nostri corpi abbiano a che fare con essa.

Siamo immagine di Dio non solo attraverso il dono della libertà, ma anche attraverso la comunione con gli altri. Giovanni Paolo II ha spiegato così che "l’uomo diventa immagine di Dio non solo attraverso la sua personale umanità, ma anche tramite quella comunione di persone che l’uomo e la donna formano fin dalla loro origine".

Tutto questo acquista profondo significato se teniamo come orizzonte il significato della parola "cuore". È un moto del cuore l’essere dono per l’altro e al tempo stesso accoglienza del dono dell’altro. E "prendersi cura" l’uno dell’altro esprime la ricchezza di una fecondità fondata su una pari dignità ed equivalenza. Per comprenderne le sfumature non è sufficiente il quoziente dell’intelligenza. Ci vuole il quoziente del cuore, inteso come fonte primaria della vita e sede dell’anima, della coscienza, del pensiero, della memoria e dei desideri. Il quoziente del cuore che permette a tutte le operazioni intellettuali della persona di esprimersi. Non a caso nella Bibbia si usa il sintagma "parlare con il cuore".

"L’amore umano nel piano divino"

L’unicità del termine cuore fa sì che non può esserci un rigido dualismo tra intelletto e volontà, tra sentimento e ragione, tra scienza e virtù, tra anima e corpo. E dal cuore, come filo rosso ininterrotto che s’intreccia con tutte le emozioni della nostra vita, prende le mosse l’approccio di Giovanni Paolo II quando parla de L’amore umano nel piano divino: è il titolo del volume curato da Gilfredo Marengo e pubblicato nel 2009 dalla Libreria Editrice Vaticana in collaborazione con il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia. Da esso emerge l’approccio innovativo di papa Wojtyla nell’affrontare - nelle 129 udienze generali del mercoledì da lui tenute nei primi cinque anni del suo pontificato (1979-1984) - la questione antropologica de La redenzione del corpo e la sacra mentalità del matrimonio, come dichiara il sottotitolo. Si tratta di un approccio che scaturisce dalla sua sensibilità pastorale e dal suo bagaglio filosofico.

Egli parla del corpo, tra l’altro, non come una superficie di scrittura ma come un sistema sociale composto di segni e simboli da decifrare. Emerge così un’idea chiara: i nostri corpi sono piuttosto relazionali che sessuali. Attraverso il rapporto sessuale che unisce un uomo e una donna nel matrimonio, essi giungono ad una nuova consapevolezza di chi sono: creature fatte ad immagine e somiglianza di Dio.

La sessualità quindi è importante per la teologia del corpo, ma il corpo è fatto per le relazioni e solo allora la sessualità trova il suo autentico significato. E si fanno strada parole come alleanza, libertà, verità, dono, comunione, dignità, persona, significato. Tutti temi che ricorrono nelle catechesi di Giovanni Paolo II in cui sottolinea che dobbiamo prima di tutto conoscere lo scopo della nostra esistenza e per cosa siamo stati creati, se vogliamo vivere una vita piena di significato.

In questo modo Papa Wojtyla esplora lo scopo della nostra esistenza e parla dell’amore e della sessualità in un modo comprensibile all’uomo moderno: dal corpo segno d’identità alla teologia del corpo.

È stato questo, tra l’altro, uno dei concetti che mons. Livio Melina, preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, la dott.ssa Barbara Palombella, giornalista e mons. Gilfredo Marengo, curatore del volume, hanno spiegato nel corso della tavola rotonda di presentazione (4 giugno 2010), moderata da don Giuseppe Costa, direttore della Libreria Editrice Vaticana.

Profetismo del corpo

"Profetismo del corpo", diceva Giovanni Paolo II. Il corpo parla di Dio, ne svela la bontà e la sapienza: esso parla anche di noi, dell’uomo e della donna e della nostra vocazione all’amore. È una parola profetica, che il corpo pronuncia a nome di Dio, puntualizza mons. Melina, per rivelarci una strada da percorrere, di pienezza umana: la strada dell’amore, in cui l’immagine originaria, impressa nell’uomo e nella donna, possa realizzarsi e risplendere in una comunione feconda di persone, aperta al dono della vita. In particolare la differenza sessuale è colta nel suo nesso col mistero di Dio.

Veniamo da secoli in cui, per l’influenza di una mentalità dualistica venata di manicheismo e di puritanesimo, il corpo umano è stato non sufficientemente valorizzato: guardato con sospetto o con inquietudine, quasi si trattasse di una minaccia alla natura spirituale dell’uomo e al suo destino; dimensione affettiva e sessuale, come se comportasse tentazioni e pericoli. Oggi il pendolo sembra volgersi dalla parte opposta, con un culto del corpo, che lo esalta finché è giovane, bello e fonte di piacere, ma che poi lo rifiuta quando testimonia la decadenza, la malattia e la morte. Queste due posizioni condividono un identico riduzionismo antropologico, che rende impossibile integrare il corpo nella realtà della persona e quindi valorizzarlo adeguatamente nella sua soggettività.

Nelle catechesi Giovanni Paolo II rivendica il carattere "sacramentale" della corporeità. E così sfida la cultura contemporanea proprio sul suo stesso campo di battaglia: l’apparente esaltazione del corpo, e in particolare della sessualità, non raggiunge il suo scopo quando è separata dalla comprensione della dignità della persona e dal riferimento a Dio Creatore e Redentore.

Verso una "visione" della sorgente

Il punto decisivo per superare queste riduzioni – commenta mons. Melina - è cogliere l’orizzonte completo, la "visione", che la teologia del corpo delle catechesi implica. Contemplando gli affreschi michelangioleschi della Cappella Sistina, Giovanni Paolo II ebbe a dire, l’8 aprile 1994: "Nell’ambito della luce che proviene da Dio, anche il corpo umano conserva il suo splendore e la sua dignità. Se lo si stacca da tale dimensione, diventa in certo modo un oggetto, che molto facilmente viene svilito, poiché soltanto dinanzi agli occhi di Dio il corpo umano può rimanere nudo e scoperto e conservare intatto il suo splendore e la sua bellezza".

Il corpo dell’uomo e della donna è "presacramento" e "segno di perenne Amore", dirà ancora papa Wojtyla, ritornando sulle immagini della Genesi di quella stessa Cappella Sistina, "santuario della teologia del corpo". La vera parola chiave di questa teologia del corpo è "visione". Il grande Michelangelo è un veggente: vede le immagini nella luce di Dio, ha la visione di Dio Creatore attraverso la rappresentazione dei corpi di Adamo e di Eva. Il cammino che conduce alla sorgente è allora un cammino per diventare vedenti: per imparare da Dio a vedere. L’orizzonte così è completo e si dischiude nella formula "teologia del corpo": il corpo diventa "via" da percorrere verso la sorgente, perché ci permette di vedere meglio Dio.

In questo senso la novità metodologica e contenutistica della "teologia del corpo" è come una sorgente che spinge a ripensare i grandi temi dell’antropologia, della metafisica e dell’etica.

Unico raggio di luce Tre rifrazioni

Dopo trent’anni di riflessione, per il preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, si sono delineate tre piste.

Una prima prospettiva è quella che è stata aperta a partire dall’antropologia teologica e che ha portato alla comprensione del "mistero nuziale", come struttura di ogni forma di amore. La riflessione sull’esperienza originaria dell’amore mostra che il corpo, per la sua vitale apertura simbolica, rimanda sempre ad una triplice dimensione: la differenza sessuale, il dono reciproco di sé e l’apertura alla comunicazione della vita. Si tratta di un aspetto trascendentale rinvenibile, secondo le regole dell’analogia, in qualunque forma di amore, da quello più elevato e divino a quello più deformato dal peccato. Il tentativo di scardinamento dei fattori costitutivi dell’amore, proprio della cultura pansessualista in cui siamo immersi, ha portato ad una scissione tra differenza sessuale e dono di sé (sessualità scissa dall’amore), tra differenza sessuale e procreazione (contraccezione e fecondazione artificiale), e ultimamente anche all’affermazione del possibile superamento della differenza sessuale (teoria del gender).

La seconda prospettiva, di carattere più metafisico, è quella che ha condotto all’elaborazione di una ontologia del dono, come struttura stessa dell’essere creato. Il corpo è testimone della "sacra mentalità primordiale" dell’uomo e del mondo. Quella che Giovanni Paolo II definisce "solitudine originaria" non ha primariamente un riferimento sessuale al rapporto uomo/donna, ma all’originaria relazione dell’uomo con Dio. Il corpo ci parla innanzitutto dell’origine da cui proviene: l’apertura verso Dio e la chiamata a una relazione filiale con lui hanno una priorità rispetto alla relazione sponsale.

Infine la terza è quella aperta sul piano etico, che considera il corpo nell’orizzonte dinamico dell’amore, come chiamata ad una pienezza di vita. Il corpo umano partecipa alla soggettività morale della persona nella sua integrità, in quanto porta "segni anticipatori, l’espressione e la promessa del dono di sé, in conformità con il sapiente disegno del Creatore". Grazie alla mediazione dell’affettività diventa possibile l’assunzione reale della dimensione corporea della persona umana secondo quella prospettiva del soggetto, che è tipica della morale. Ciò permette una ridefinizione della vocazione all’amore dal punto di vista dell’identità personale, nell’itinerario che va dal riconoscersi figlio, per diventare sposo e giungere ad essere padre/madre, esprimendo così quel complesso di relazioni umane che marcano le azioni degli uomini a livello di legami personali e non solo di natura.

Appare dunque necessario vedere la stessa teologia del corpo in quella luce che è l’amore stesso, perché solo così si scopre la pienezza del suo significato e il modo adeguato di viverlo.

Maria Trigila fma
Pontificia Facoltà
Scienze dell’Educazione "Auxilium"
Via Cremolino 141 - 00166 Roma

 

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