«Siamo
famiglia di tutto ciò che germoglia, cresce, matura, si stanca, muore e
rinasce. Ogni bambino ha molti padri, zii, fratelli, nonni. Nonni sono i
morti e le montagne. Figli della terra e del sole, irrigati dalle piogge
femmine e dalle piogge maschi, siamo tutti parenti dei semi, del mais,
dei fiumi e delle volpi che ululano annunciando come sarà l’anno che
viene. Le pietre sono parenti dei serpenti e delle lucertoline. Il mais
e il fagiolo sono fratelli tra loro, crescono insieme senza picchiarsi.
Le patate sono figlie e madri di coloro che le piantano, perché chi crea
è creato. Tutto è sacro, e noi anche. A volte noi siamo dei e gli dei
sono, a volte, semplicemente delle personcine. Così dicono, così sanno,
gli indigeni delle Ande»
(EDUARDO
GALEANO).
Echi della realtà
«Siamo famiglia di…»: uno strano riconoscimento comunitario; memoria e
desiderio, archetipo e ispirazione per il futuro di una complessa realtà
che chiamiamo anche storia e, da sempre, anche se a volte non ci piace,
storia comunitaria. Storia di ciascuno di noi; storia di popoli, ma
anche della terra e del cielo:
piogge femmine e piogge maschi … siamo tutti parenti.
Inizio il mio intervento con questo testo perché vorrei, fin da subito,
affrontare il tema non come una problematica esclusiva della vita
religiosa, ma come inquietudine di tutti coloro che vivono in questa
storia e, non solo gli esseri umani, ma tutta la più svariata
biodiversità cosmica.
Penso, infatti, che il sogno della comunità è un sogno divino e, come
ogni sogno divino, è troppo grande per essere proprietà e interesse di
poche persone. Per cui questo racconto - che per altro relaziono con un
altro racconto del mito ebraico-cristiano della convivenza e cioè Isaia
11 -
non è la poetica narrazione di ancestrali culture, ma una prospettiva.
Ciò
che vorrei fare, condividendo queste riflessioni, è ribadire e
risvegliare la prospettiva della comunità o della comunione, non come
qualcosa di nostro, ma che riguarda tutti e la possiamo ripensare
coinvolgendo più gente possibile.
Inoltre, per poterci aiutare e dare concretezza alla narrazione della
cosmovisione Andina, faccio memoria del contesto socio-politico da cui
provengo: il contesto boliviano, dove dal 2005 il sogno della
ricostruzione di un ancestrale tessuto comunitario è divenuto progetto
politico di tutto un paese che, appunto per questo, oggi, nella sua
nuova Costituzione, si definisce: «Stato Plurinazionale e Comunitario».
E questo lo dico con la consapevolezza della fatica di un popolo che,
oggi come oggi, è chiamato a vigilare su questo sogno. Il sogno
comunitario ha una storia molto antica e, ancor prima di essere storia
religiosa, è storia dell’umano più umano di individui e popoli.
Riconoscere il sogno di tutti
Ritengo che il tema della nostra riflessione non possa essere affrontato
come
se si tratti di analizzare un oggetto. La comunità non è un oggetto da
osservare e nemmeno un paradigma esterno che qualcuno ci propone da
imitare. Questo argomento ha la sua storia, e una storia molto
complessa. Porta con sé la medesima fisionomia umana; lineamenti e
comportamenti di popoli, culture e individui; visioni di Dio e del
mondo, anche se, come spesso accade con altri aspetti della vita, a
volte cerchiamo di appropriarcene per circoscriverli e definirli, quasi
davvero si trattasse di semplici oggetti.
Probabilmente, il genere letterario più adatto per parlare della
comunità è il genere narrativo, non nel senso di sentirci testimoni di
un modello o autori e autrici di qualcosa che bisogna testimoniare ad
altri, ma narrazione intesa come storia dei nostri sogni umani, delle
nostre intuizioni, visioni e progetti lungo le differenti epoche.
Penso, dunque, che la vita religiosa è chiamata a confrontarsi non con
modelli, ma con l’infinito
ed etico desiderio
dell’umanità e della creazione: imparare a vivere insieme. Sforzo e
ricerca della vita stessa, nelle sue più intime fibre biogenetiche, e
anche sforzo dell’umanità, di donne e uomini, in tutte le epoche, che
seguono
processi evolutivi,
rivoluzionari e rivelativi.
La
mia proposta perciò non è la descrizione di un modello comunitario da
recuperare o da inventare, ma un aiuto a riconoscerla come un sogno di
tutti, in un mondo in cui le coordinate geografiche sembrano essersi
accorciate e, nello stesso tempo, in un mondo che rivela sempre più
lineamenti differenti e infinite diversità, nella rivendicazione e nelle
storie delle identità di individui e culture.
Dunque, più che presentare un modello comunitario, più o meno adatto
alla nostra epoca, intendo riconoscere e sostenere la ricerca che, in
modo diverso, accompagna individui e gruppi umani nelle tappe della
propria storia, per poter costruire spazi di vita degna, giusta,
solidale, creativa...
Interesse per la vita
La
vita comunitaria è come
un
processo di maturità
di
individui e gruppi umani e non solo; un processo lungo e a volte
difficile, simile più a un
costante apprendistato
che
ad una ordinata organizzazione. Per questo nella vita religiosa ci si
relaziona con i voti, sottolineando così che si tratta di un itinerario
esistenziale che coinvolge non solo la fede, ma anche i nostri corpi, le
relazioni con gli altri e con le cose, nell’opzione della giustizia
(povertà), in quella della nonviolenza delle relazioni (castità) e
nell’umile ricerca di chi impara a camminare umilmente con Dio e diviene
responsabile e creativo/a nel tempo (obbedienza).
Ora,
nella vita religiosa, la vita comunitaria appare come uno degli aspetti
più dinamici. Infatti, potremmo parlare di un vero e proprio ciclo
vitale e come in ogni ciclo vitale, anche la vita religiosa è ritmata
da nascita,
sviluppo,
morte.
Momenti di crescita, evoluzioni, involuzioni che, come qualcuno ha
scritto, sono indipendenti dalla breve o lunga durata puramente
cronologica, nel senso che non sono legati ad anni temporali, ma a
quello che chiamerei spirito, soffio, anima, senso. L’ajayu,
come si direbbe nella tradizione andina, la forza vitale, ciò che rende
qualcuno o qualcosa vivo e non semplicemente esistente nella storia.
Non
si tratta infatti, d’imparare a contarci, ma a vivere e vivere con gli
altri.1 Di per sé, cronologicamente, questo ciclo vitale
potrebbe essere anche breve. Non è la durata che ci interessa, ma la
vita stessa e il come restiamo in essa.
Forse anche questo potrebbe essere un tema da ripensare riguardo alla
vita religiosa. Come restituire lo spirito a questo stile di vita, come
restituire l’ajayu?
Di fatto l’abbiamo perso, pur restando presenti nella storia e nella
società attuale in forma istituzionale e come gruppo. Nelle culture
andine, si direbbe: chi ci ha portato via l’ajayu?
Come farlo ritornare? Interessante notare che quasi sempre l’ajayu
si
perde per uno spavento: la paura.
Quante volte, lungo la storia, la vita religiosa istituzionale era
forte, organizzata e, invece, all’interno, soffriva profonde crisi e
conviveva con segni di morte, indipendenti dal numero di persone che
formavano le comunità! La vita religiosa, dunque, e la vita comunitaria,
non possono essere descritte solo in modo cronologico. Le sue
trasformazioni sono un andirivieni di energie, alti e bassi, dubbi e
tanti, tanti tentativi, come se il suo esistere sia costantemente
provocato dalla visione della realtà che la circonda. Forse c’è una
domanda che sottende questo tema; una domanda simile a quella evangelica
che sosteneva la ricerca delle prime comunità: «Sei tu o dobbiamo
aspettare un altro …» (Mt 11,3), eco di un’inquietudine non solo
mistica, ma anche politica: «Signore, quando ti abbiamo visto … ?» (cf
Mt 25,31-46).
Tra evoluzioni, rivoluzioni e rivelazioni
Allora, probabilmente, per parlare di comunità e percepire il dinamismo
di questa problematica, ci viene richiesto anche di rivisitare la storia
della chiesa e rileggere i differenti stili comunitari come momenti di
comprensione differente delle intuizioni, dei sogni e, a volte, anche
delle paure. Ci sono modelli comunitari, infatti, che rispecchiano più
il bisogno dell’essere umano di difendersi e rivestirsi di uno
status
sociale, che di riconoscere e accogliere l’archetipo sogno divino, umano
e cosmico.
Rivisitare la storia
Domandiamoci dunque come si è sviluppato questo stile di vita
comunitaria lungo i secoli, tra lineare continuità e spezzate rotture.
In questo caso si tratterebbe di rivisitare, se fosse possibile,
l’intuizione iniziale in memoria di loro: donne e uomini che ci hanno
preceduto, e che hanno interpretato il sogno di Gesù come il sogno
fedele di Dio e hanno incominciato a camminare nella storia nell’eco di
alcuni ricordi: «Non potete servire a due padroni …», «non fate come …»,
«dove due o tre si riuniscono nel mio nome io starò in mezzo a loro».
Esperienze mistico-politiche nate da una realtà molto piccola, dopo il
trauma della morte del loro amico e maestro. Intensa ricerca, espressa
nelle parole della comunità giovannea: «Hanno portato via il mio Signore
e non so dove l’hanno posto …» (cf Gv 20,13), e allora, mettersi a
cercare. Ma anche
desiderio di continuare a perpetuare ciò che avevano visto, udito,
contemplato, imparato (cf 1Gv 1,1-4). E qui l’accento va sulla vita che
si è resa visibile e non su uno stile, un modello.
Ma
la storia continua e così le sue metamorfosi. Non è mia intenzione e non
mi sembra questo lo spazio appropriato per riconsiderare in modo
dettagliato questa parte di storia, ma è chiaro che, nella vita
religiosa, ci sono stati dei cambiamenti profondi, interiori ed
esteriori. Nasciamo
in
una solitaria ricerca, cresciamo con influssi gnostici-manichei: ci
strutturiamo nel monachesimo, tra oriente e occidente.
Fuga
mundi
per
avvicinarsi umilmente al Mistero, per alcuni; e
fuga
mundi
per
uscire dal centro del mondo del potere e dei privilegi, per altri.
Solitudine come linea trasversale di queste scelte, ma tra cenobi,
monasteri, conventi… Insomma stili diversi, tutti segnati da fedeli
ricerche non esenti da influssi storici, culturali, sociali. Questione
di fedeltà, dunque, ma anche questione di genere, di riforme ecclesiali
e sociali; oriente, occidente; storia di trasformazione dovuta anche a
nuove scoperte e nuove geografie.
Rottura di uno schema
Allora, il nostro tema non è legato ad uno stile e quindi alla domanda:
Quale stile seguire, quale il migliore? Piuttosto si collega al senso, a
quello che nell’immaginario individuale e collettivo di tutti evoca il
termine comunità.
Ed è
qui che si risveglia la nostra inquietudine: ogni comunità umana nasce
attorno a progetti o sogni di vita e dunque di liberazione. Forse è
anche in questo senso che dovremmo leggere il testo evangelico di
Matteo: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o
madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e
avrà in eredità la vita eterna …» (Mt 19,29). Non si tratta, infatti, di
una ricompensa resa ad un sacrificio. Qui occorre scavalcare l’immagine
fissa di comunità o di vita insieme divenuta lungo i secoli un paradigma
intoccabile, in qualche caso immagine gerarchica, patriarcale o
matriarcale di una società, mentre Gesù allarga questi confini
codificati e ne propone altri. In Matteo c’è, infatti, la descrizione
del tipico contesto ufficiale dei legami, che era impensabile poter
superare:
padri,
madri,
sorelle,
fratelli…
Gesù apre una nuova prospettiva che discepoli e discepole provano a
realizzare. Questo testo rompe lo schema classico non solo dei vincoli
familiari, ma anche di quelli economici: campi, case … Vincoli che
potrebbero frenare i rapporti, oppure falsificarli.
Percorsi
A
questo punto, riprendo alcuni fili preziosi della nostra tradizione
ebraico-cristiana. Come ho ricordato, il vivere insieme è una
progressiva presa di coscienza dell’essere umano nelle sue evoluzioni
storiche, individuali e collettive. È segno di maturità il percepire la
propria vita in mezzo a quella di altri e un mondo abitato non solo da
altri, ma anche dall’Altro.
Imparare a vivere insieme
Uno
degli aspetti più belli nella descrizione delle prime comunità cristiane
è quello di vederle riunite attorno alla ricerca del significato
dell’imparare a vivere insieme e dell’uso di una simbologia molto calda
e umana. Dicono i vangeli sinottici: «Gesù, preso un bambino, lo pose in
mezzo a loro …», e ancora: «… allora chiamò a sé un bambino, lo pose in
mezzo a loro …» (cf Mc 9,36; Mt 18,2).
Un
bambino, il simbolo di tutto ciò che deve crescere o sta crescendo.
Invece noi abbiamo ridotto questa problematica ad un discorso preciso,
ad un modello o qualcosa che già indica certezza e stabilità. Se c’è uno
stare nel mezzo,
significa che è un tentativo di costruzione circolare; e se nel mezzo
c’è un bambino è perché stiamo crescendo. Secondo la versione di Matteo,
la descrizione è ancora più dettagliata. Per la comunità di Matteo i
piccoli sono i meno afferrati nella legge di Mosè, coloro che la
trasgrediscono più facilmente. In altre parole, sono i peccatori, i più
deboli. Questo è bellissimo; il sogno comunitario nasce in un clima di
insufficienza, di precarietà, di limite, non solo nell’ambito umano, ma
anche nell’ambito religioso: non riescono a mettere sempre in pratica la
legge. Pensiamo invece come abbiamo avvolto l’immagine comunitaria in
una apparente nube di perfezione, un modello ed esempio per altri che
“non vivono come noi”.
Ricreare una Presenza
Nel
capitolo 18 di Matteo troviamo dei verbi che ricorrono con insistenza:
accogliere, non scandalizzare. Secondo la versione greca, lo scandalo è
pietra d’inciampo sulla strada, una trappola. Forse lo scandalo
comunitario è proprio questo: credere di non aver niente a che fare con
la fatica degli altri, con la loro ricerca, la loro crescita. Lo
scandalo è l’atteggiamento di sufficienza e di arroganza; atteggiamenti
che, nelle relazioni interpersonali e in quelle socio-politiche, creano
profondi squilibri e ritardano la possibilità di vivere insieme.
Inoltre, il capitolo 18 si chiude con il riferimento al perdono
illimitato: un lento processo di trasformazione delle relazioni e della
vita, senza il quale è difficile procedere nelle metamorfosi più
profonde dell’esistenza di ciascuno o di interi gruppi umani. Da questi
e altri testi, sorgono indicazioni importanti per comprendere cosa
significhi nell’universo neotestamentario la vita in comunità.
Le
prime comunità nascono attorno a una nostalgia: ricreare il clima di
“Presenza”, perché Cristo non c’e più. Basti pensare a Emmaus o alla
descrizione di alcuni episodi dopo la risurrezione: sulla riva del lago;
nella casa … Per far questo è importante la memoria costante: «Ci aveva
detto… », e in questo ricordo ritornano alla memoria le parole di Gesù:
«Dove due o tre si riuniscono … io sarò in mezzo a loro …» (Mt 18,20).
Questo significa che la comunità non è un progetto organizzativo, per
portare avanti qualcosa, ma, come ogni legame affettivo vero,
possibilità di vita. Per le discepole e i discepoli la vita insieme è
garanzia del suo ritorno: «Dove due o tre …». In questa vita insieme
Cristo sta nel mezzo, vale a dire al centro: la nostra attenzione cade
su di lui.
Stile mistico e politico
Un
altro aspetto potrebbe essere quello di una comunità che nasce per
recuperare il sogno messianico che Gesù aveva condiviso con i discepoli
e le discepole: il sogno della giustizia, che potremmo definire come la
frazione del pane. Non mi riferisco al culto celebrativo
dell’eucaristia, ma ad una vita condivisa con tutti e in ogni luogo.
Nell’incontro postpasquale, tutto si consacra attorno al cibo: la
nostalgia del banchetto, il mangiare insieme e il restituire il cibo a
chi ne è privo. Lo stile di comunità è dunque uno stile critico,
mistico-politico.
Mistico
perché ricrea la presenza, la rievoca nell’ascolto e nella ricerca
costante;
politico
perché mette in circolo i beni, cioè la possibilità di vita. La frazione
del pane è il gesto più vicino ai bisogni di tutti e ciascuno. Si
capisce allora il perché della complessa struttura delle prime comunità
cristiane. Non si tratta di complessità istituzionale, organizzativa, ma
di quella che sorge dal mettere insieme persone differenti, superando
gli antichi canoni culturali e sociali dell’epoca. È complessa perché
vivono insieme molteplici identità: s’incorporano gli stranieri (i
pagani); si battezzano gli eunuchi; si fa comunità in casa di donne
giuste e solidali; si lavora come tutti …
In
un contesto socio-religioso, che usava la violenza per mantenere
l’ordine vigente; in una società dove si manteneva un’evidente distanza
tra uomini e donne, si coltiva la pratica nonviolenta, la parità di
genere. La tradizione, in queste giovani comunità cristiane, è mantenuta
dagli anziani (presbiteri) che avevano
visto,
udito,
contemplato…
e, in particolare, dalle donne, e non da una dottrina. Chi mantiene il
legame, la continuità, dopo il trauma della morte di Gesù e lo stupore
della risurrezione, sono le donne. In questa comunità si coltiva la
spiritualità di un Dio attento alla precarietà di chi fa fatica a
vivere, contrariamente ad una cultura ufficiale dell’esclusione. Lo
spazio, attorno al quale si ricostruisce quest’esperienza di comunione,
non è solo spazio cultuale (il tempio), ma la casa. Da qui nasce
l’importanza della “chiesa domestica”, che non è “la famiglia”, come
traduciamo malamente, ma sono le comunità in casa (la casa di Marta,
Maria e Lazzaro), negli spazi quotidiani della vita.
Coltivare il sogno comunitario
I
gesti che garantiscono questo stile sono semplici e riflettono la sacra
mentalità della vita nelle sue espressioni quotidiane: lo scambio,
l’aiuto reciproco, la cura, l’interpretazione degli avvenimenti e delle
Scritture. Tutto sembra essere contrario allo schema legalista dei gesti
cultuali: purificazione, offerte, sacrifici… Gesti che rasentano sempre
il pericolo dell’esclusione di qualcuno e creano una ristretta élite di
persone. In queste comunità, invece, resta vivo l’eco delle parole di
Gesù che dilata la mentalità e gli spazi e ri-converte le relazioni: «…
questi sono i miei fratelli, sorelle, e mia madre…» (cf Lc 8,19-21; Mc
3, 31).
Seguire Gesù è un’alternativa per ripensare le relazioni; non inventare
un’organizzazione, ma superare quei legami fissi, programmati,
gerarchici che vincolano e non permettono di camminare (cf Mc 10,28-31).
Il
problema non è definire uno stile, ma coltivare questo sogno, questa
passione che ci potrebbe tirare fuori dall’egocentrismo personale e
comunitario, individuale e istituzionale. Forse questo è il cammino per
recuperare l’animus.
Nessuno è maestro, nessuno dà esempi di vita comunitaria e ancor meno
impone modelli, ma tutti siamo ricercatori o ricercatrici della vita.
Quegli adagi che hanno riempito la vita religiosa, prima di essere
dogmatizzati, in realtà significavano questo: disponibilità, itineranza,
distaccamento da cose e persone … Noi li abbiamo fissati, come le tesi
luterane, sulle porte delle chiese; o come i filatteri dei farisei.
Invece erano semplici intuizioni di vita. È normale che ci venga chiesta
disponibilità, che non è eroismo, perché la disponibilità ci rende
ancora vivi, ci rimette in contatto con molti. È normale che ci venga
chiesta sobrietà, perché è difficile muoverci con l’idea che tutto è
nostro. Ma forse dovremmo domandarci: Come coltiviamo questi
atteggiamenti? Cos’è che nutre il sogno comunitario?
La
memoria di Cristo “nel mezzo”, certamente; la memoria di lui “nel
centro”, come interesse e ascolto del
kairos,
il tempo opportuno. Questi eventi (kairoi)
parlano, si dipanano nella nostra storia quotidiana e in quella di
tutti. Questa è docilità e obbedienza. Noi purtroppo pretendiamo
d’insegnare degli stili, perché altri si inseriscano nelle nostre
realtà. Le comunità si formano giorno dopo giorno, in mezzo alle
esigenze reali della vita.
Osare comunità
La
vita religiosa non può confrontarsi con modelli, ma con l’infinito ed
etico desiderio dell’umanità e della creazione: imparare a vivere
insieme Uno sforzo e una ricerca della vita stessa, nelle sue intime
fibre biogenetiche, ma anche uno sforzo dell’umanità, di donne e uomini
in tutte le epoche. Sforzo che nasce da processi evolutivi,
rivoluzionari e rivelativi della vita stessa.
Si
tratta davvero di osare la vita in comunità. Oggi come oggi questo è
forse uno degli aspetti più veri da riscoprire, in questo momento
storico che ci fa dubitare del fatto che sia possibile vivere insieme e,
per molti, ancor più drammaticamente, se sia possibile vivere. Dovremmo
allora ripensare questo tema, non per rinchiuderci e riconfermare stili
già acquisiti, ma per allargare possibilità di vita. Sembra quasi che la
comunità nasca da osati gesti; osare, pensare che è possibile vivere in
un altro modo che non riguarda solo le relazioni umane, ma comprende
anche tutta la realtà che ci circonda, con le sue risorse naturali e i
suoi difficili equilibri.
La
crisi di una comunità può essere certamente la crisi di un modello, ma
soprattutto è la crisi di individui; è la crisi della nostra fede,
quando intuiamo che non esiste un modello e nessuno è esperto su questo
tema, e non lo sarà mai, perché si tratta della possibilità d’imparare a
vivere con altri e, dunque, di una ricerca costante. La crisi di una
comunità, forse, è dovuta al fatto di sentire insufficiente uno stile
che si pensava significativo e importante, quasi l’unico esempio per
tutti. È la crisi di chi percepisce che non era quello che scriveva
Paolo VI nella
Populorum progressio,
quando parlava della Chiesa
esperta in umanità.
Forse sentiamo proprio questo: non siamo così esperti in umanità. Anzi,
le problematiche più complesse del nostro vivere riguardano questa
mancanza di esperienza con l’umano più umano.
Il
vero problema è il desiderio di vivere insieme, l’imparare a vivere con
altri, perché altri continuino a vivere o tornino a vivere. I modelli
sono relativi, cambiano o possono cambiare. In questo senso non posso e
non voglio raccontare il mio vissuto, posso solo raccontare un
desiderio; posso solo scrivere timide visioni che a volte mi sembra di
avere, come Giovanni, stando su un’isola, intesa non come luogo
geografico, ma simbolico: un punto in mezzo a molti altri dell’universo.
E la visione più bella che ho della storia e della vita comunitaria è
simile a quella di Apocalisse: «Dopo queste cose vidi: ecco una
moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù,
popolo e lingua. Tutti stavano in piedi …» (Ap 7,9).
Questa per me è l’esperienza più bella: percepire che da un’isola si
espandono i confini e che questi confini e coloro che li abitano sono
così tanti che non possiamo nemmeno contare le dimensioni. Mentre
percepisco questo, chiedo anche perdono perché, invece, i nostri
orizzonti sono ancora troppo ristretti e le nostre visioni comunitarie
ancora troppo grette con la vita e la sua abbondanza. Di fronte a queste
inquietudini, vorrei avere una più grande immaginazione, per poter
vedere l’invisibile e poter dire: è possibile vivere insieme.
Antonietta Potente op
Teologa, missionaria in Bolivia
wayrurito@gmail.com