n. 7/8
luglio/agosto 2011

 

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«Dove due o tre…»
Tra sogni, intuizioni e progetti

ANTONIETTA POTENTE

 

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«Siamo famiglia di tutto ciò che germoglia, cresce, matura, si stanca, muore e rinasce. Ogni bambino ha molti padri, zii, fratelli, nonni. Nonni sono i morti e le montagne. Figli della terra e del sole, irrigati dalle piogge femmine e dalle piogge maschi, siamo tutti parenti dei semi, del mais, dei fiumi e delle volpi che ululano annunciando come sarà l’anno che viene. Le pietre sono parenti dei serpenti e delle lucertoline. Il mais e il fagiolo sono fratelli tra loro, crescono insieme senza picchiarsi. Le patate sono figlie e madri di coloro che le piantano, perché chi crea è creato. Tutto è sacro, e noi anche. A volte noi siamo dei e gli dei sono, a volte, semplicemente delle personcine. Così dicono, così sanno, gli indigeni delle Ande» (EDUARDO GALEANO).

Echi della realtà

«Siamo famiglia di…»: uno strano riconoscimento comunitario; memoria e desiderio, archetipo e ispirazione per il futuro di una complessa realtà che chiamiamo anche storia e, da sempre, anche se a volte non ci piace, storia comunitaria. Storia di ciascuno di noi; storia di popoli, ma anche della terra e del cielo: piogge femmine e piogge maschi … siamo tutti parenti. Inizio il mio intervento con questo testo perché vorrei, fin da subito, affrontare il tema non come una problematica esclusiva della vita religiosa, ma come inquietudine di tutti coloro che vivono in questa storia e, non solo gli esseri umani, ma tutta la più svariata biodiversità cosmica.

Penso, infatti, che il sogno della comunità è un sogno divino e, come ogni sogno divino, è troppo grande per essere proprietà e interesse di poche persone. Per cui questo racconto - che per altro relaziono con un altro racconto del mito ebraico-cristiano della convivenza e cioè Isaia

11 - non è la poetica narrazione di ancestrali culture, ma una prospettiva.

Ciò che vorrei fare, condividendo queste riflessioni, è ribadire e risvegliare la prospettiva della comunità o della comunione, non come qualcosa di nostro, ma che riguarda tutti e la possiamo ripensare coinvolgendo più gente possibile.

Inoltre, per poterci aiutare e dare concretezza alla narrazione della cosmovisione Andina, faccio memoria del contesto socio-politico da cui provengo: il contesto boliviano, dove dal 2005 il sogno della ricostruzione di un ancestrale tessuto comunitario è divenuto progetto politico di tutto un paese che, appunto per questo, oggi, nella sua nuova Costituzione, si definisce: «Stato Plurinazionale e Comunitario». E questo lo dico con la consapevolezza della fatica di un popolo che, oggi come oggi, è chiamato a vigilare su questo sogno. Il sogno comunitario ha una storia molto antica e, ancor prima di essere storia religiosa, è storia dell’umano più umano di individui e popoli.

Riconoscere il sogno di tutti

Ritengo che il tema della nostra riflessione non possa essere affrontato come se si tratti di analizzare un oggetto. La comunità non è un oggetto da osservare e nemmeno un paradigma esterno che qualcuno ci propone da imitare. Questo argomento ha la sua storia, e una storia molto complessa. Porta con sé la medesima fisionomia umana; lineamenti e comportamenti di popoli, culture e individui; visioni di Dio e del mondo, anche se, come spesso accade con altri aspetti della vita, a volte cerchiamo di appropriarcene per circoscriverli e definirli, quasi davvero si trattasse di semplici oggetti.

Probabilmente, il genere letterario più adatto per parlare della comunità è il genere narrativo, non nel senso di sentirci testimoni di un modello o autori e autrici di qualcosa che bisogna testimoniare ad altri, ma narrazione intesa come storia dei nostri sogni umani, delle nostre intuizioni, visioni e progetti lungo le differenti epoche.

Penso, dunque, che la vita religiosa è chiamata a confrontarsi non con modelli, ma con l’infinito ed etico desiderio dell’umanità e della creazione: imparare a vivere insieme. Sforzo e ricerca della vita stessa, nelle sue più intime fibre biogenetiche, e anche sforzo dell’umanità, di donne e uomini, in tutte le epoche, che seguono processi evolutivi, rivoluzionari e rivelativi.

La mia proposta perciò non è la descrizione di un modello comunitario da recuperare o da inventare, ma un aiuto a riconoscerla come un sogno di tutti, in un mondo in cui le coordinate geografiche sembrano essersi accorciate e, nello stesso tempo, in un mondo che rivela sempre più lineamenti differenti e infinite diversità, nella rivendicazione e nelle storie delle identità di individui e culture.

Dunque, più che presentare un modello comunitario, più o meno adatto alla nostra epoca, intendo riconoscere e sostenere la ricerca che, in modo diverso, accompagna individui e gruppi umani nelle tappe della propria storia, per poter costruire spazi di vita degna, giusta, solidale, creativa...

Interesse per la vita

La vita comunitaria è come un processo di maturità di individui e gruppi umani e non solo; un processo lungo e a volte difficile, simile più a un costante apprendistato che ad una ordinata organizzazione. Per questo nella vita religiosa ci si relaziona con i voti, sottolineando così che si tratta di un itinerario esistenziale che coinvolge non solo la fede, ma anche i nostri corpi, le relazioni con gli altri e con le cose, nell’opzione della giustizia (povertà), in quella della nonviolenza delle relazioni (castità) e nell’umile ricerca di chi impara a camminare umilmente con Dio e diviene responsabile e creativo/a nel tempo (obbedienza).

Ora, nella vita religiosa, la vita comunitaria appare come uno degli aspetti più dinamici. Infatti, potremmo parlare di un vero e proprio ciclo vitale e come in ogni ciclo vitale, anche la vita religiosa è ritmata da  nascita, sviluppo, morte. Momenti di crescita, evoluzioni, involuzioni che, come qualcuno ha scritto, sono indipendenti dalla breve o lunga durata puramente cronologica, nel senso che non sono legati ad anni temporali, ma a quello che chiamerei spirito, soffio, anima, senso. L’ajayu, come si direbbe nella tradizione andina, la forza vitale, ciò che rende qualcuno o qualcosa vivo e non semplicemente esistente nella storia.

Non si tratta infatti, d’imparare a contarci, ma a vivere e vivere con gli altri.1 Di per sé, cronologicamente, questo ciclo vitale potrebbe essere anche breve. Non è la durata che ci interessa, ma la vita stessa e il come restiamo in essa.

Forse anche questo potrebbe essere un tema da ripensare riguardo alla vita religiosa. Come restituire lo spirito a questo stile di vita, come restituire l’ajayu? Di fatto l’abbiamo perso, pur restando presenti nella storia e nella società attuale in forma istituzionale e come gruppo. Nelle culture andine, si direbbe: chi ci ha portato via l’ajayu? Come farlo ritornare? Interessante notare che quasi sempre l’ajayu si perde per uno spavento: la paura.

Quante volte, lungo la storia, la vita religiosa istituzionale era forte, organizzata e, invece, all’interno, soffriva profonde crisi e conviveva con segni di morte, indipendenti dal numero di persone che formavano le comunità! La vita religiosa, dunque, e la vita comunitaria, non possono essere descritte solo in modo cronologico. Le sue trasformazioni sono un andirivieni di energie, alti e bassi, dubbi e tanti, tanti tentativi, come se il suo esistere sia costantemente provocato dalla visione della realtà che la circonda. Forse c’è una domanda che sottende questo tema; una domanda simile a quella evangelica che sosteneva la ricerca delle prime comunità: «Sei tu o dobbiamo aspettare un altro …» (Mt 11,3), eco di un’inquietudine non solo mistica, ma anche politica: «Signore, quando ti abbiamo visto … ?» (cf Mt 25,31-46).

Tra evoluzioni, rivoluzioni e rivelazioni

Allora, probabilmente, per parlare di comunità e percepire il dinamismo di questa problematica, ci viene richiesto anche di rivisitare la storia della chiesa e rileggere i differenti stili comunitari come momenti di comprensione differente delle intuizioni, dei sogni e, a volte, anche delle paure. Ci sono modelli comunitari, infatti, che rispecchiano più il bisogno dell’essere umano di difendersi e rivestirsi di uno status sociale, che di riconoscere e accogliere l’archetipo sogno divino, umano e cosmico.

Rivisitare la storia

Domandiamoci dunque come si è sviluppato questo stile di vita comunitaria lungo i secoli, tra lineare continuità e spezzate rotture. In questo caso si tratterebbe di rivisitare, se fosse possibile, l’intuizione iniziale in memoria di loro: donne e uomini che ci hanno preceduto, e che hanno interpretato il sogno di Gesù come il sogno fedele di Dio e hanno incominciato a camminare nella storia nell’eco di alcuni ricordi: «Non potete servire a due padroni …», «non fate come …», «dove due o tre si riuniscono nel mio nome io starò in mezzo a loro». Esperienze mistico-politiche nate da una realtà molto piccola, dopo il trauma della morte del loro amico e maestro. Intensa ricerca, espressa nelle parole della comunità giovannea: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto …» (cf Gv 20,13), e allora, mettersi a cercare. Ma anche

desiderio di continuare a perpetuare ciò che avevano visto, udito, contemplato, imparato (cf 1Gv 1,1-4). E qui l’accento va sulla vita che si è resa visibile e non su uno stile, un modello.

Ma la storia continua e così le sue metamorfosi. Non è mia intenzione e non mi sembra questo lo spazio appropriato per riconsiderare in modo dettagliato questa parte di storia, ma è chiaro che, nella vita religiosa, ci sono stati dei cambiamenti profondi, interiori ed esteriori. Nasciamo

in una solitaria ricerca, cresciamo con influssi gnostici-manichei: ci strutturiamo nel monachesimo, tra oriente e occidente. Fuga mundi per avvicinarsi umilmente al Mistero, per alcuni; e fuga mundi per uscire dal centro del mondo del potere e dei privilegi, per altri. Solitudine  come linea trasversale di queste scelte, ma tra cenobi, monasteri, conventi… Insomma stili diversi, tutti segnati da fedeli ricerche non esenti da influssi storici, culturali, sociali. Questione di fedeltà, dunque, ma anche questione di genere, di riforme ecclesiali e sociali; oriente, occidente; storia di trasformazione dovuta anche a nuove scoperte e nuove geografie.

Rottura di uno schema

Allora, il nostro tema non è legato ad uno stile e quindi alla domanda: Quale stile seguire, quale il migliore? Piuttosto si collega al senso, a quello che  nell’immaginario individuale e collettivo di tutti evoca il termine comunità.

Ed è qui che si risveglia la nostra inquietudine: ogni comunità umana nasce attorno a progetti o sogni di vita e dunque di liberazione. Forse è anche in questo senso che dovremmo leggere il testo evangelico di Matteo: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna …» (Mt 19,29). Non si tratta, infatti, di una ricompensa resa ad un sacrificio. Qui occorre scavalcare l’immagine fissa di comunità o di vita insieme divenuta lungo i secoli un paradigma intoccabile, in qualche caso immagine gerarchica, patriarcale o matriarcale di una società, mentre Gesù allarga questi confini codificati e ne propone altri. In Matteo c’è, infatti, la descrizione del tipico contesto ufficiale dei legami, che era impensabile poter superare: padri, madri, sorelle, fratelli… Gesù apre una nuova prospettiva che discepoli e discepole provano a realizzare. Questo testo rompe lo schema classico non solo dei vincoli familiari, ma anche di quelli economici: campi, case … Vincoli che potrebbero frenare i rapporti, oppure falsificarli.

Percorsi

A questo punto, riprendo alcuni fili preziosi della nostra tradizione ebraico-cristiana. Come ho ricordato, il vivere insieme è una progressiva presa di coscienza dell’essere umano nelle sue evoluzioni storiche, individuali e collettive. È segno di maturità il percepire la propria vita in mezzo a quella di altri e un mondo abitato non solo da altri, ma anche dall’Altro.

Imparare a vivere insieme

Uno degli aspetti più belli nella descrizione delle prime comunità cristiane è quello di vederle riunite attorno alla ricerca del significato dell’imparare a vivere insieme e dell’uso di una simbologia molto calda e umana. Dicono i vangeli sinottici: «Gesù, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro …», e ancora: «… allora chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro …» (cf Mc 9,36; Mt 18,2).

Un bambino, il simbolo di tutto ciò che deve crescere o sta crescendo. Invece noi abbiamo ridotto questa problematica ad un discorso preciso, ad un modello o qualcosa che già indica certezza e stabilità. Se c’è uno stare nel mezzo, significa che è un tentativo di costruzione circolare; e se nel mezzo c’è un bambino è perché stiamo crescendo. Secondo la versione di Matteo, la descrizione è ancora più dettagliata. Per la comunità di Matteo i piccoli sono i meno afferrati nella legge di Mosè, coloro che la trasgrediscono più facilmente. In altre parole, sono i peccatori, i più deboli. Questo è bellissimo; il sogno comunitario nasce in un clima di insufficienza, di precarietà, di limite, non solo nell’ambito umano, ma anche nell’ambito religioso: non riescono a mettere sempre in pratica la legge. Pensiamo invece come abbiamo avvolto l’immagine comunitaria in una apparente nube di perfezione, un modello ed esempio per altri che “non vivono come noi”.

Ricreare una Presenza

Nel capitolo 18 di Matteo troviamo dei verbi che ricorrono con insistenza: accogliere, non scandalizzare. Secondo la versione greca, lo scandalo è pietra d’inciampo sulla strada, una trappola. Forse lo scandalo comunitario è proprio questo: credere di non aver niente a che fare con la fatica degli altri, con la loro ricerca, la loro crescita. Lo scandalo è l’atteggiamento di sufficienza e di arroganza; atteggiamenti che, nelle relazioni interpersonali e in quelle socio-politiche, creano profondi squilibri e ritardano la possibilità di vivere insieme.

Inoltre, il capitolo 18 si chiude con il riferimento al perdono illimitato: un lento processo di trasformazione delle relazioni e della vita, senza il quale è difficile procedere nelle metamorfosi più profonde dell’esistenza di ciascuno o di interi gruppi umani. Da questi e altri testi, sorgono indicazioni importanti per comprendere cosa significhi nell’universo neotestamentario la vita in comunità.

Le prime comunità nascono attorno a una nostalgia: ricreare il clima di “Presenza”, perché Cristo non c’e più. Basti pensare a Emmaus o alla descrizione di alcuni episodi dopo la risurrezione: sulla riva del lago; nella casa … Per far questo è importante la memoria costante: «Ci aveva detto… », e in questo ricordo ritornano alla memoria le parole di Gesù: «Dove due o tre si riuniscono … io sarò in mezzo a loro …» (Mt 18,20). Questo significa che la comunità non è un progetto organizzativo, per portare avanti qualcosa, ma, come ogni legame affettivo vero, possibilità di vita. Per le discepole e i discepoli la vita insieme è garanzia del suo ritorno: «Dove due o tre …». In questa vita insieme Cristo sta nel mezzo, vale a dire al centro: la nostra attenzione cade su di lui.

Stile mistico e politico

Un altro aspetto potrebbe essere quello di una comunità che nasce per recuperare il sogno messianico che Gesù aveva condiviso con i discepoli e le discepole: il sogno della giustizia, che potremmo definire come la frazione del pane. Non mi riferisco al culto celebrativo dell’eucaristia, ma ad una vita condivisa con tutti e in ogni luogo. Nell’incontro postpasquale, tutto si consacra attorno al cibo: la nostalgia del banchetto, il mangiare insieme e il restituire il cibo a chi ne è privo. Lo stile di comunità è dunque uno stile critico, mistico-politico. Mistico perché ricrea la presenza, la rievoca nell’ascolto e nella ricerca costante; politico perché mette in circolo i beni, cioè la possibilità di vita. La frazione del pane è il gesto più vicino ai bisogni di tutti e ciascuno. Si capisce allora il perché della complessa struttura delle prime comunità cristiane. Non si tratta di complessità istituzionale, organizzativa, ma di quella che sorge dal mettere insieme persone differenti, superando gli antichi canoni culturali e sociali dell’epoca. È complessa perché vivono insieme molteplici identità: s’incorporano gli stranieri (i pagani); si battezzano gli eunuchi; si fa comunità in casa di donne giuste e solidali; si lavora come tutti …

In un contesto socio-religioso, che usava la violenza per mantenere l’ordine vigente; in una società dove si manteneva un’evidente distanza tra uomini e donne, si coltiva la pratica nonviolenta, la parità di genere. La tradizione, in queste giovani comunità cristiane, è mantenuta dagli anziani (presbiteri) che avevano visto, udito, contemplato… e, in particolare, dalle donne, e non da una dottrina. Chi mantiene il legame, la continuità, dopo il trauma della morte di Gesù e lo stupore della risurrezione, sono le donne. In questa comunità si coltiva la spiritualità di un Dio attento alla precarietà di chi fa fatica a vivere, contrariamente ad una cultura ufficiale dell’esclusione. Lo spazio, attorno al quale si ricostruisce quest’esperienza di comunione, non è solo spazio cultuale (il tempio), ma la casa. Da qui nasce l’importanza della “chiesa domestica”, che non è “la famiglia”, come traduciamo malamente, ma sono le comunità in casa (la casa di Marta, Maria e Lazzaro), negli spazi quotidiani della vita.

Coltivare il sogno comunitario

I gesti che garantiscono questo stile sono semplici e riflettono la sacra mentalità della vita nelle sue espressioni quotidiane: lo scambio, l’aiuto reciproco, la cura, l’interpretazione degli avvenimenti e delle Scritture. Tutto sembra essere contrario allo schema legalista dei gesti cultuali: purificazione, offerte, sacrifici… Gesti che rasentano sempre il pericolo dell’esclusione di qualcuno e creano una ristretta élite di persone. In queste comunità, invece, resta vivo l’eco delle parole di Gesù che dilata la mentalità e gli spazi e ri-converte le relazioni: «… questi sono i miei fratelli, sorelle, e mia madre…» (cf Lc 8,19-21; Mc 3, 31).

Seguire Gesù è un’alternativa per ripensare le relazioni; non inventare un’organizzazione, ma superare quei legami fissi, programmati, gerarchici che vincolano e non permettono di camminare (cf Mc 10,28-31).

Il problema non è definire uno stile, ma coltivare questo sogno, questa passione che ci potrebbe tirare fuori dall’egocentrismo personale e comunitario, individuale e istituzionale. Forse questo è il cammino per recuperare l’animus. Nessuno è maestro, nessuno dà esempi di vita comunitaria e ancor meno impone modelli, ma tutti siamo ricercatori o ricercatrici della vita.

Quegli adagi che hanno riempito la vita religiosa, prima di essere dogmatizzati, in realtà significavano questo: disponibilità, itineranza, distaccamento da cose e persone … Noi li abbiamo fissati, come le tesi luterane, sulle porte delle chiese; o come i filatteri dei farisei. Invece erano semplici intuizioni di vita. È normale che ci venga chiesta disponibilità, che non è eroismo, perché la disponibilità ci rende ancora vivi, ci rimette in contatto con molti. È normale che ci venga chiesta sobrietà, perché è difficile muoverci con l’idea che tutto è nostro. Ma forse dovremmo domandarci: Come coltiviamo questi atteggiamenti? Cos’è che nutre il sogno comunitario?

La memoria di Cristo “nel mezzo”, certamente; la memoria di lui “nel centro”, come interesse e ascolto del kairos, il tempo opportuno. Questi eventi (kairoi) parlano, si dipanano nella nostra storia quotidiana e in quella di tutti. Questa è docilità e obbedienza. Noi purtroppo pretendiamo d’insegnare degli stili, perché altri si inseriscano nelle nostre realtà. Le comunità si formano giorno dopo giorno, in mezzo alle esigenze reali della vita.

Osare comunità

La vita religiosa non può confrontarsi con modelli, ma con l’infinito ed etico desiderio dell’umanità e della creazione: imparare a vivere insieme Uno sforzo e una ricerca della vita stessa, nelle sue intime fibre biogenetiche, ma anche uno sforzo dell’umanità, di donne e uomini in tutte le epoche. Sforzo che nasce da processi evolutivi, rivoluzionari e rivelativi della vita stessa.

Si tratta davvero di osare la vita in comunità. Oggi come oggi questo è forse uno degli aspetti più veri da riscoprire, in questo momento storico che ci fa dubitare del fatto che sia possibile vivere insieme e, per molti, ancor più drammaticamente, se sia possibile vivere. Dovremmo allora ripensare questo tema, non per rinchiuderci e riconfermare stili già acquisiti, ma per allargare possibilità di vita. Sembra quasi che la comunità nasca da osati gesti; osare, pensare che è possibile vivere in un altro modo che non riguarda solo le relazioni umane, ma comprende anche tutta la realtà che ci circonda, con le sue risorse naturali e i suoi difficili equilibri.

La crisi di una comunità può essere certamente la crisi di un modello, ma soprattutto è la crisi di individui; è la crisi della nostra fede, quando intuiamo che non esiste un modello e nessuno è esperto su questo tema, e non lo sarà mai, perché si tratta della possibilità d’imparare a vivere con altri e, dunque, di una ricerca costante. La crisi di una comunità, forse, è dovuta al fatto di sentire insufficiente uno stile che si pensava significativo e importante, quasi l’unico esempio per tutti. È la crisi di chi percepisce che non era quello che scriveva Paolo VI nella Populorum progressio, quando parlava della Chiesa esperta in umanità. Forse sentiamo proprio questo: non siamo così esperti in umanità. Anzi, le problematiche più complesse del nostro vivere riguardano questa mancanza di esperienza con l’umano più umano.

Il vero problema è il desiderio di vivere insieme, l’imparare a vivere con altri, perché altri continuino a vivere o tornino a vivere. I modelli sono relativi, cambiano o possono cambiare. In questo senso non posso e non voglio raccontare il mio vissuto, posso solo raccontare un desiderio; posso solo scrivere timide visioni che a volte mi sembra di avere, come Giovanni, stando su un’isola, intesa non come luogo geografico, ma simbolico: un punto in mezzo a molti altri dell’universo. E la visione più bella che ho della storia e della vita comunitaria è simile a quella di Apocalisse: «Dopo queste cose vidi: ecco una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi …» (Ap 7,9).

Questa per me è l’esperienza più bella: percepire che da un’isola si espandono i confini e che questi confini e coloro che li abitano sono così tanti che non possiamo nemmeno contare le dimensioni. Mentre percepisco questo, chiedo anche perdono perché, invece, i nostri orizzonti sono ancora troppo ristretti e le nostre visioni comunitarie ancora troppo grette con la vita e la sua abbondanza. Di fronte a queste inquietudini, vorrei avere una più grande immaginazione, per poter vedere l’invisibile e poter dire: è possibile vivere insieme.

Antonietta Potente op
Teologa, missionaria in Bolivia
wayrurito@gmail.com

 

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