La
situazione odierna del cristianesimo, almeno in Occidente, è avvertita
da molti nella Chiesa come un “tempo di crisi”. La cosiddetta
cristianità, che ha plasmato la visione della vita e la cultura, cede
lentamente e silenziosamente il passo ad una generale apatia che investe
tutti gli ambiti del vivere e che, in termini religiosi, si traduce in
una atrofia spirituale. Essa porta, proprio nel cuore del vecchio
continente occidentale, alla dimenticanza di Dio e ad una progressiva
irrilevanza della fede cristiana. Per questo la Chiesa, spinta da
Benedetto XVI, sente l’urgenza di una nuova evangelizzazione. Essa dovrà
“ridire la fede” e favorirne una rinnovata freschezza. Non è fuori luogo
pensare in questo contesto, e cercheremo di esplicitarne le ragioni, che
una nuova evangelizzazione non possa prescindere da un aspetto
importante dell’annuncio di fede: la questione dell’immagine di Dio.
Quale Dio?
Una
simile sfida non è da sottovalutare proprio per il suo sotterraneo e
nascosto potenziale che ha nella ricezione del messaggio cristiano e
nell’accoglienza esplicita della fede. Anzi, possiamo affermare che
senza una profonda riflessione sull’immagine di Dio, sarà quasi
impossibile, nonostante buoni propositi e sforzi onerosi, mediare
efficacemente il messaggio evangelico e fare presa sullo spirito dei
nostri contemporanei, rendendoli disponibili al confronto con le istanze
della fede. Ogni uomo, infatti, prima di investire in termini di fiducia
su una realtà, oltre che essere convinto da argomenti intellettuali, ha
bisogno di percepire ciò che gli è proposto come qualcosa che si
incontra con i propri desideri, il proprio mondo affettivo, le proprie
speranze e la propria ricerca della felicità.
Una
verità rigorosamente perfetta, che non mostra i tratti di una
bontà
e di
una
bellezza
capace di accordarsi all’umano, è spesso percepita come nemica,
antagonista e violenta. La stessa storia dell’ateismo ci dimostra che,
spesso, è un’immagine distorta e negativa di Dio ad essere stata
combattuta e rifiutata. Il problema odierno, dunque, non ci appare
primariamente quello della ricerca di nuovi mezzi o nuove strategie per
risvegliare la fede (cosa pure necessaria) quanto, invece, una domanda
che onestamente la Chiesa deve porre a sé stessa:
quale immagine di Dio
presentiamo al mondo di oggi attraverso i nostri linguaggi, le nostre
strutture, le forme del credere, la prassi di vita nella società?
La
Chiesa e l’immagine di Dio
Il
27 ottobre 2011, parlando ad Assisi, papa Benedetto XVI ha affrontato
questo tema in modo davvero luminoso, affermando che tra i non credenti
vi sono «persone che cercano la verità, cercano il vero Dio, la cui
immagine nelle religioni, a causa del modo nel quale non di rado sono
praticate, è non raramente nascosta.
Che
essi non riescano a trovare Dio dipende anche dai credenti con la loro
immagine ridotta o anche travisata di Dio. Così la loro lotta interiore
e il loro interrogarsi è anche un richiamo a noi credenti, a tutti i
credenti a purificare la propria fede, affinché Dio - il vero Dio -
diventi accessibile».
Il
Papa indica una sfida per l’evangelizzazione del futuro, ma anche una
domanda che il popolo dei credenti deve porre al centro della sua stessa
vita: quale immagine di Dio la Chiesa trasmette? La domanda - è evidente
– invoca una risposta non semplicemente teorica o intellettuale, quanto
una vera conversione pastorale, spirituale e strutturale dell’essere
Chiesa. Offriamo solo una piccola mappa senza ovviamente negare i grandi
passi avanti che la Chiesa ha fatto a partire dal Vaticano II in merito
al suo rapporto con il mondo e ad una rinnovata immagine di Dio.
Il
Dio della paura
È
l’immagine veicolata da una Chiesa che spesso fa fatica ad uscire da uno
schema religioso fondato sull’osservanza esteriore della legge e su una
esplicita quanto spesso formale obbedienza. Non è raro, purtroppo,
incontrare esperienze di chiese incentrate, nelle forme e nei linguaggi
della predicazione, molto di più sul peccato che sull’esperienza
dell’essere amati da Dio.
Il
Dio che inconsciamente abita l’immaginario di molte persone religiose di
oggi - magari soprattutto a causa di esperienze di Chiesa del loro
passato - è quello di un Dio giudice, dinanzi al quale ci si riempie di
sensi di colpa. Un Dio dinanzi al quale siamo chiamati ad essere sempre
puri e perfetti. Il teologo olandese Houtepen ha un’espressione
efficace: un Dio simile a un “potente occhio” che scruta tutta la nostra
vita.
Il
Dio “tappabuchi”
L’espressione è del teologo protestante morto sotto il nazismo, Dietrich
Bonhoeffer. In un mondo divenuto adulto, svezzato da alcune concezioni
mitiche sulla realtà e sull’universo, grazie all’emancipazione delle
scienze e delle conoscenze, non è più possibile tollerare una fede
ingenua, credulona, chiusa al progresso delle scienze umane e positive,
ingabbiata in una visione del mondo pre-moderna. Su questa strada la
Chiesa ha fatto progressi notevoli. Tuttavia, un certo strisciante
risentimento, covato nei confronti della modernità e del progresso, la
fa apparire spesso come una cittadella arroccata sulla difensiva e
“fuori dal mondo”. Alcune pratiche devozionali e alcuni linguaggi,
generano l’idea che la fede impone una
sorta di credenza cieca e irrazionale.
Il
filosofo tedesco Nietzsche scriveva, con sferzante ironia, che i
cristiani credono alla provvidenza pressappoco in questo modo: quando
piove pensano che Dio gli apra l’ombrello. Troppi cristiani, anche oggi,
pensano purtroppo così e la loro fede scivola verso la superstizione e
l’idolatria o, quantomeno, diventa un abito per fuggire dal mondo e
deresponsabilizzarsi. Una situazione che invoca credenti più adulti, più
aperti al pensiero e che non intendano Dio come un “tappabuchi” che
risolve i loro problemi laddove l’uomo non riesce ad arrivare.
Il
Dio della sofferenza
Su
questo aspetto il discorso sarebbe teologicamente molto ampio e
delicato. È innegabile che la Chiesa annuncia una sola verità: Cristo e
questi Crocifisso. Tuttavia, sono molteplici e varie le forme e i
linguaggi di Chiesa che hanno evidentemente distorto il significato
della sofferenza di Cristo e del suo sacrificio, scivolando in visioni
sacrificali accentuate al limite del masochismo. Ora, appellandoci a
quanto la teologia del Novecento ci ha splendidamente illustrato,
vogliamo chiarire: il sacrificio di Cristo non invita ad una fede che
cerca la sofferenza né, tantomeno, la fede pensa che il Padre abbia
voluto la sofferenza del Figlio per placare la sua ira verso l’umanità.
È
l’amore che si fa dono a diventare strumento di salvezza e liberazione e
non la sofferenza in se stessa. Una Chiesa credibile quando annuncia il
Dio dell’amore, che vuole dare in abbondanza la vita e la gioia ai suoi
figli, esige una radicale conversione da un’immagine di Dio legata alla
ricerca del dolore e della sofferenza. Conversione che ne richiede una
più radicale: non possiamo mai affermare che la sofferenza è il castigo
di Dio per i miei peccati, oppure la volontà di Dio che devo
abbracciare.
La
percezione che molti nostri contemporanei hanno è che, anche se non in
modo così esplicito, la Chiesa continua a guardare le gioie
profondamente umane con sospetto e continui a esaltare una certa idea di
sacrificio. Forse, più delle nostre parole, parlano alcune immagini
della pietà popolare, specialmente durante la Settimana Santa, che si
imprimono nell’immaginario popolare collettivo e che esigono profonda
purificazione.
Il
Dio “potente”
Ancora una volta urge richiamare la centralità del Crocifisso. Egli ci
mostra l’immagine di un Dio debole, povero, che sposa la causa degli
ultimi e dei disprezzati. Gesù ci mostra questo in tutto il suo stile di
vita che culmina nella croce. Questo Dio che invita a non sedere i primi
posti e a non desiderare di essere i primi, è lui per primo colui che si
abbassa a lavare i piedi dell’umanità ferita. Egli è un povero e invita
a quella radicale povertà interiore che fa diventare liberi: da se
stessi, dalle proprie pretese, dal richiamo del comando, dalla
tentazione del possedere. Una sola domanda basterà a mettere in luce
un’altra frontiera di conversione per tutta la Chiesa e per i singoli
credenti: mostriamo davvero un Dio povero e libero quando, nelle forme
istituzionali come anche nella gestione della vita ordinaria delle
comunità, siamo tentati dall’apparire, dalle manie di grandezza, dal
carrierismo, dall’attaccamento smodato al denaro e dall’incapacità di
rinunciare a certi privilegi, sociali ed economici, nonché a forme di
presenza trionfalistica?
Per una nuova immagine di Dio
Molte altre immagini veicolate dalla Chiesa forse sono suscettibili di
ripensamenti e conversioni. Parafrasando il grande teologo francese
Henri de Lubac, occorre che si intenda la fede come cammino continuo e
non come immobilismo.
Chi
resta ancorato a nostalgie del passato e in rigidità chiuse al nuovo
dello Spirito, rischia di diventare uno “spirito immobile” che de Lubac
non esiterebbe a definire uno di quegli spiriti che, per eccesso di zelo
nel difendere la verità cristiana, la rendono un albero secco che non
cambia mai. Certe immagini di Dio, invece, devono essere trasformate.
C’è
bisogno di una Chiesa che presenti al mondo l’immagine di un Dio amante
ed amabile, squisitamente umano e profondamente aperto alla vita.
Abbiamo necessità di sognare una Chiesa che anche attraverso se stessa
ci presenti questo Dio: una Chiesa dell’amore, una Chiesa aperta
all’uomo e alla storia, una Chiesa gioiosa e, soprattutto, una Chiesa
povera e libera. Sarà l’unico modo possibile per essere Chiesa anche
domani.
Francesco Cosentino
Pontificia Università Lateranense
Via
XXIV Maggio, 10 - 00187 Roma