n. 1
gennaio 2012

 

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Il Signore nostro Dio

Immagini di Dio nella Chiesa

FRANCESCO COSENTINO

 

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La situazione odierna del cristianesimo, almeno in Occidente, è avvertita da molti nella Chiesa come un “tempo di crisi”. La cosiddetta cristianità, che ha plasmato la visione della vita e la cultura, cede lentamente e silenziosamente il passo ad una generale apatia che investe tutti gli ambiti del vivere e che, in termini religiosi, si traduce in una atrofia spirituale. Essa porta, proprio nel cuore del vecchio continente occidentale, alla dimenticanza di Dio e ad una progressiva irrilevanza della fede cristiana. Per questo la Chiesa, spinta da Benedetto XVI, sente l’urgenza di una nuova evangelizzazione. Essa dovrà “ridire la fede” e favorirne una rinnovata freschezza. Non è fuori luogo pensare in questo contesto, e cercheremo di esplicitarne le ragioni, che una nuova evangelizzazione non possa prescindere da un aspetto importante dell’annuncio di fede: la questione dell’immagine di Dio.

Quale Dio?

Una simile sfida non è da sottovalutare proprio per il suo sotterraneo e nascosto potenziale che ha nella ricezione del messaggio cristiano e nell’accoglienza esplicita della fede. Anzi, possiamo affermare che senza una profonda riflessione sull’immagine di Dio, sarà quasi impossibile, nonostante buoni propositi e sforzi onerosi, mediare efficacemente il messaggio evangelico e fare presa sullo spirito dei nostri contemporanei, rendendoli disponibili al confronto con le istanze della fede. Ogni uomo, infatti, prima di investire in termini di fiducia su una realtà, oltre che essere convinto da argomenti intellettuali, ha bisogno di percepire ciò che gli è proposto come qualcosa che si incontra con i propri desideri, il proprio mondo affettivo, le proprie speranze e la propria ricerca della felicità.

Una verità rigorosamente perfetta, che non mostra i tratti di una bontà e di una bellezza capace di accordarsi all’umano, è spesso percepita come nemica, antagonista e violenta. La stessa storia dell’ateismo ci dimostra che, spesso, è un’immagine distorta e negativa di Dio ad essere stata combattuta e rifiutata. Il problema odierno, dunque, non ci appare primariamente quello della ricerca di nuovi mezzi o nuove strategie per risvegliare la fede (cosa pure necessaria) quanto, invece, una domanda che onestamente la Chiesa deve porre a sé stessa: quale immagine di Dio presentiamo al mondo di oggi attraverso i nostri linguaggi, le nostre strutture, le forme del credere, la prassi di vita nella società?

La Chiesa e l’immagine di Dio

Il 27 ottobre 2011, parlando ad Assisi, papa Benedetto XVI ha affrontato questo tema in modo davvero luminoso, affermando che tra i non credenti vi sono «persone che cercano la verità, cercano il vero Dio, la cui immagine nelle religioni, a causa del modo nel quale non di rado sono praticate, è non raramente nascosta.

Che essi non riescano a trovare Dio dipende anche dai credenti con la loro immagine ridotta o anche travisata di Dio. Così la loro lotta interiore e il loro interrogarsi è anche un richiamo a noi credenti, a tutti i credenti a purificare la propria fede, affinché Dio - il vero Dio - diventi accessibile».

Il Papa indica una sfida per l’evangelizzazione del futuro, ma anche una domanda che il popolo dei credenti deve porre al centro della sua stessa vita: quale immagine di Dio la Chiesa trasmette? La domanda - è evidente – invoca una risposta non semplicemente teorica o intellettuale, quanto una vera conversione pastorale, spirituale e strutturale dell’essere Chiesa. Offriamo solo una piccola mappa senza ovviamente negare i grandi passi avanti che la Chiesa ha fatto a partire dal Vaticano II in merito al suo rapporto con il mondo e ad una rinnovata immagine di Dio.

Il Dio della paura

È l’immagine veicolata da una Chiesa che spesso fa fatica ad uscire da uno schema religioso fondato sull’osservanza esteriore della legge e su una esplicita quanto spesso formale obbedienza. Non è raro, purtroppo, incontrare esperienze di chiese incentrate, nelle forme e nei linguaggi della predicazione, molto di più sul peccato che sull’esperienza dell’essere amati da Dio.

Il Dio che inconsciamente abita l’immaginario di molte persone religiose di oggi - magari soprattutto a causa di esperienze di Chiesa del loro passato - è quello di un Dio giudice, dinanzi al quale ci si riempie di sensi di colpa. Un Dio dinanzi al quale siamo chiamati ad essere sempre puri e perfetti. Il teologo olandese Houtepen ha un’espressione efficace: un Dio simile a un “potente occhio” che scruta tutta la nostra vita.

Il Dio “tappabuchi”

L’espressione è del teologo protestante morto sotto il nazismo, Dietrich Bonhoeffer. In un mondo divenuto adulto, svezzato da alcune concezioni mitiche sulla realtà e sull’universo, grazie all’emancipazione delle scienze e delle conoscenze, non è più possibile tollerare una fede ingenua, credulona, chiusa al progresso delle scienze umane e positive, ingabbiata in una visione del mondo pre-moderna. Su questa strada la Chiesa ha fatto progressi notevoli. Tuttavia, un certo strisciante risentimento, covato nei confronti della modernità e del progresso, la fa apparire spesso come una cittadella arroccata sulla difensiva e “fuori dal mondo”. Alcune pratiche devozionali e alcuni linguaggi, generano l’idea che la fede impone una

sorta di credenza cieca e irrazionale.

Il filosofo tedesco Nietzsche scriveva, con sferzante ironia, che i cristiani credono alla provvidenza pressappoco in questo modo: quando piove pensano che Dio gli apra l’ombrello. Troppi cristiani, anche oggi, pensano purtroppo così e la loro fede scivola verso la superstizione e l’idolatria o, quantomeno, diventa un abito per fuggire dal mondo e deresponsabilizzarsi. Una situazione che invoca credenti più adulti, più aperti al pensiero e che non intendano Dio come un “tappabuchi” che risolve i loro problemi laddove l’uomo non riesce ad arrivare.

Il Dio della sofferenza

Su questo aspetto il discorso sarebbe teologicamente molto ampio e delicato. È innegabile che la Chiesa annuncia una sola verità: Cristo e questi Crocifisso. Tuttavia, sono molteplici e varie le forme e i linguaggi di Chiesa che hanno evidentemente distorto il significato della sofferenza di Cristo e del suo sacrificio, scivolando in visioni sacrificali accentuate al limite del masochismo. Ora, appellandoci a quanto la teologia del Novecento ci ha splendidamente illustrato, vogliamo chiarire: il sacrificio di Cristo non invita ad una fede che cerca la sofferenza né, tantomeno, la fede pensa che il Padre abbia voluto la sofferenza del Figlio per placare la sua ira verso l’umanità.

È l’amore che si fa dono a diventare strumento di salvezza e liberazione e non la sofferenza in se stessa. Una Chiesa credibile quando annuncia il Dio dell’amore, che vuole dare in abbondanza la vita e la gioia ai suoi figli, esige una radicale conversione da un’immagine di Dio legata alla ricerca del dolore e della sofferenza. Conversione che ne richiede una più radicale: non possiamo mai affermare che la sofferenza è il castigo di Dio per i miei peccati, oppure la volontà di Dio che devo abbracciare.

La percezione che molti nostri contemporanei hanno è che, anche se non in modo così esplicito, la Chiesa continua a guardare le gioie profondamente umane con sospetto e continui a esaltare una certa idea di sacrificio. Forse, più delle nostre parole, parlano alcune immagini della pietà popolare, specialmente durante la Settimana Santa, che si imprimono nell’immaginario popolare collettivo e che esigono profonda purificazione.

Il Dio “potente”

Ancora una volta urge richiamare la centralità del Crocifisso. Egli ci mostra l’immagine di un Dio debole, povero, che sposa la causa degli ultimi e dei disprezzati. Gesù ci mostra questo in tutto il suo stile di vita che culmina nella croce. Questo Dio che invita a non sedere i primi posti e a non desiderare di essere i primi, è lui per primo colui che si abbassa a lavare i piedi dell’umanità ferita. Egli è un povero e invita a quella radicale povertà interiore che fa diventare liberi: da se stessi, dalle proprie pretese, dal richiamo del comando, dalla tentazione del possedere. Una sola domanda basterà a mettere in luce un’altra frontiera di conversione per tutta la Chiesa e per i singoli credenti: mostriamo davvero un Dio povero e libero quando, nelle forme istituzionali come anche nella gestione della vita ordinaria delle comunità, siamo tentati dall’apparire, dalle manie di grandezza, dal carrierismo, dall’attaccamento smodato al denaro e dall’incapacità di rinunciare a certi privilegi, sociali ed economici, nonché a forme di presenza trionfalistica?

Per una nuova immagine di Dio

Molte altre immagini veicolate dalla Chiesa forse sono suscettibili di ripensamenti e conversioni. Parafrasando il grande teologo francese Henri de Lubac, occorre che si intenda la fede come cammino continuo e non come immobilismo.

Chi resta ancorato a nostalgie del passato e in rigidità chiuse al nuovo dello Spirito, rischia di diventare uno “spirito immobile” che de Lubac non esiterebbe a definire uno di quegli spiriti che, per eccesso di zelo nel difendere la verità cristiana, la rendono un albero secco che non cambia mai. Certe immagini di Dio, invece, devono essere trasformate.

C’è bisogno di una Chiesa che presenti al mondo l’immagine di un Dio amante ed amabile, squisitamente umano e profondamente aperto alla vita. Abbiamo necessità di sognare una Chiesa che anche attraverso se stessa ci presenti questo Dio: una Chiesa dell’amore, una Chiesa aperta all’uomo e alla storia, una Chiesa gioiosa e, soprattutto, una Chiesa povera e libera. Sarà l’unico modo possibile per essere Chiesa anche domani.

 

Francesco Cosentino
Pontificia Università Lateranense
Via XXIV Maggio, 10 - 00187 Roma

 

 

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