Intendo
proporvi una riflessione sulla nuova evangelizzazione alla luce del
Sinodo dei vescovi tenutosi a Roma nel mese di ottobre 2012, una
riflessione filtrata dalla mia sensibilità. Articolo la mia proposta in
quattro passaggi: le rappresentazioni di “evangelizzazione” emerse tra i
partecipanti; le “conversioni” avvenute durante il Sinodo; la vita
religiosa come “luogo” di evangelizzazione; tre tratti dello stile di
nuova evangelizzazione.
Tre rappresentazioni di evangelizzazione
Il
Sinodo dei vescovi è stata un’assemblea di Chiesa di respiro
continentale. Essa va guardata prima di tutto da questo punto di vista:
un formidabile spazio di ascolto, di racconti, di condivisione di
esperienze diversificate. Sono emerse diagnosi differenti sulla cultura
attuale e visioni diverse di Chiesa. È stato un laboratorio di
educazione alla complessità e alla parzialità dei differenti punti di
vista. E non è stato difficile riconoscere rappresentazioni diverse
sull’evangelizzazione e sulle condizioni che la possono rendere nuova.
Ne segnalo tre, che ci aiutano a pensare.
L’evangelizzazione
come testimonianza personale della fede
Un
piccolo aneddoto è più eloquente di qualsiasi spiegazione. La prima sera
del Sinodo, a tavola, avviene un dialogo animato tra un laico messicano,
fondatore di un movimento che si occupa di formare i nuovi
evangelizzatori, e una signora francese impegnata in un’associazione per
l’evangelizzazione della famiglia. «Ho un sogno - le spiega il laico -.
Sogno che questo Sinodo non sia un dibattito sul tema e non si chiuda
con un documento. Sogno che usciamo tutti nella piazza san Pietro e nei
sobborghi della città di Roma, annunciamo Gesù Cristo e in queste tre
settimane convertiamo tremila romani».
Come
si può notare si tratta di un immaginario di evangelizzazione che poggia
tutto su due perni: l’esperienza soggettiva del testimone e la fiducia
intrinseca nella Parola che egli annuncia. Si tratta spesso di un
neoconvertito o comunque di una persona protagonista di una forte
esperienza spirituale. L’annuncio viene a coincidere con l’esperienza di
fede vissuta dal testimone e viene fatto a prescindere dalle persone
alle quali ci si rivolge, che siano tremila romani o tremila esquimesi è
lo stesso. Niente a che fare con tutte le attenzioni al destinatario che
noi, da anni, abbiamo messo in atto nella catechesi, la catechesi
antropologica o esperienziale. È forte l’impatto testimoniale, perché il
soggetto è totalmente implicato nelle parole che pronuncia. L’entusiasmo
e la fiducia connotano questa rappresentazione.
L’evangelizzazione
come riaffermazione del deposito della fede
Se
la prima concezione di evangelizzazione poggia sull’esperienza
soggettiva della fede, la seconda è tutta concentrata sul suo lato
oggettivo. È una posizione che in genere parte da una diagnosi negativa
della cultura attuale, la quale, allontanandosi dal cristianesimo,
andrebbe verso la sua progressiva disumanizzazione. L’insuccesso attuale
dell’evangelizzazione è attribuito almeno in parte alla catechesi
post-conciliare, troppo attenta a rispondere alle esigenze delle persone
e poco rigorosa nel presentare il messaggio cristiano nella sua
organicità e completezza. Per superare il
gap
tra
la cultura e la fede è necessario tornare a proclamare con chiarezza e
forza la verità e i valori ad essa connessi (i dogmi e la morale). Come
si può notare, in questa prospettiva (come nella prima) non è messo in
atto un reale ascolto della cultura e dei destinatari, ma resta in ombra
anche l’implicazione della testimonianza personale della fede. Il perno
dell’evangelizzazione è la trasmissione del deposito della fede,
preoccupazione così forte da non lasciare più percepire quanto questo
“deposito” tocchi la vita di colui che lo annuncia.
L’evangelizzazione come inculturazione
La
terza rappresentazione può essere riassunta nel termine inculturazione.
È provenuta dall’apporto non solo dei continenti come l’Africa, l’Asia e
l’America Latina, ma anche dall’Europa, soprattutto dal centro-nord
Europa. L’invito che arriva da vescovi che vivono in una cultura segnata
dalla laicizzazione delle istituzioni e dalla secolarizzazione della
mentalità è di portare uno sguardo di speranza sul mondo e di non
pensare che una cultura secolarizzata sia meno adatta al Vangelo di una
cultura sociologicamente cristiana. Che significa annunciare il Vangelo
in questa situazione? L’evangelizzazione appare come un processo
complesso di assunzione non ingenua di alcuni elementi culturali per un
annuncio udibile, credibile, pensabile.
Questo richiede un ripensamento del Vangelo stesso (il Vangelo di
sempre, ma sempre ricompreso dalla comunità che lo annuncia), una sua
nuova riformulazione e un suo rinnovato annuncio. In questo caso è il
termine “dialogo” a prevalere: un dare e un ricevere che arricchiscono
sia il testimone che colui che ascolta la Parola. Questa posizione rende
l’atto di evangelizzazione più complesso, richiede una reinterpretazione
sia del soggetto che annuncia, sia del contenuto annunciato. Fa del
destinatario non solo l’oggetto di un’azione ecclesiale, ma il soggetto
che in qualche modo contribuisce a dare forma alla stessa
evangelizzazione. Avviene in uno spazio di “debolezza” e di libertà.
Tutte e tre le posizioni vanno ascoltate per quanto richiamano di
essenziale. Senza l’implicazione del testimone non c’è annuncio che
raggiunga il cuore delle persone; senza fedeltà alla tradizione non si
annuncia il Vangelo, ma se stessi; senza mediazione culturale il Vangelo
non sarà sentito né come “bella notizia”, né come “appello alla
conversione” da parte di nessuno.
Tre conversioni per una evangelizzazione nuova
Un
secondo aspetto riguarda il senso attribuito al termine “nuova”. La
questione di fondo mi pare la seguente: cosa può rendere veramente
“nuova” l’evangelizzazione? Come dobbiamo diventare nuovi noi (i
testimoni) perché l’evangelizzazione diventi nuova? Nel corso del Sinodo
sono avvenuti su questo punto tre spostamenti, tre conversioni di
prospettiva che delineano le condizioni stesse della novità
dell’evangelizzazione.
Evangelizzazione nuova
come ritorno al Vangelo
Il
risultato più consistente e maggiormente condiviso del Sinodo è stato il
superamento di una concezione strumentale: pensare cioè che il
rinnovamento dell’evangelizzazione consiste nel cambiamento dei metodi e
delle strategie o anche di un semplice rinnovato impegno da parte degli
evangelizzatori. Se le parole della Chiesa non passano nell’attuale
contesto non è primariamente perché le persone non capiscono o sono più
cattive di quelle di altri tempi; né perché i metodi di evangelizzazione
sono superati (lo sono, ma è una questione seconda), ma perché le parole
del Vangelo non parlano più alla Chiesa stessa. La crisi della
comunicazione della fede rinvia la Chiesa ad un rinnovato ascolto. Il
problema dell’evangelizzazione non è un problema catechistico, ma
ecclesiologico.
Benedetto XVI aveva utilizzato il termine “tattica” per evitare ogni
fraintendimento: «Non si tratta qui di trovare una nuova tattica per
rilanciare la Chiesa. Si tratta piuttosto di deporre tutto ciò che è
soltanto tattica e di cercare la piena sincerità… portando la fede alla
sua piena identità, togliendo da essa ciò che solo apparentemente è
fede, ma in verità è convenzione e abitudine» (Discorso ai cattolici
impegnati nella Chiesa e nella società, viaggio in Germania, 25
settembre 2011).
In
questa prospettiva la crisi dell’evangelizzazione e l’esigenza che torni
“nuova” inviano decisamente nella direzione di una verifica della fede
della Chiesa stessa. Il Sinodo ha indicato chiaramente questo senso di
nuova evangelizzazione attraverso l’appello alla conversione, di tutti e
di ciascuno dei suoi membri. E ha ricuperato il termine “santità”. La
nuova evangelizzazione postula un
rinnovamento
della Chiesa, un anno della fede per lei. «Sentiamo sinceramente di
dover convertire anzitutto noi stessi alla potenza di Cristo, che solo è
capace di fare nuove tutte le cose, le nostre povere esistenze
anzitutto. Con umiltà dobbiamo riconoscere che le povertà e le debolezze
dei discepoli di Gesù, specialmente dei suoi ministri, pesano sulla
credibilità della missione» (Messaggio,
5).
Evangelizzazione nuova
come riforma della Chiesa
Ma
ci potrebbe essere un rischio, quello di ridurre la conversione a una
questione individuale e di non saperla coraggiosamente estendere alla
figura di Chiesa, al modo con il quale essa sta al mondo. Il ricupero di
spiritualità (l’evangelizzazione come auto evangelizzazione) non deve
condurre dunque ad una scorciatoia spiritualista.
Occorre riconoscere che all’interno del Sinodo è stata data una risposta
prevalentemente personale e spirituale: l’appello alla conversione dei
singoli membri. La richiesta di “riforma” si è semplificata in una
risposta personale di “conversione”. Che questo sia un aspetto decisivo
della questione, nessuno lo mette in dubbio. Non va dimenticata, però,
l’altra faccia della questione, quella ricordata da Paolo VI nell’Evangelii
Nuntiandi
e
richiamata da alcuni Padri sinodali: la Chiesa ha continuo bisogno di
essere evangelizzata ed è evangelizzatrice non solo con quello che dice,
ma nel suo modo di vivere, di organizzarsi, di esercitare l’autorità, di
utilizzare le proprie risorse umane ed economiche, di valorizzare al suo
interno i differenti carismi e ministeri, di stabilire le relazioni, di
giudicare la cultura e di entrare in dialogo con le donne e gli uomini
di oggi, di sentirsi una “Chiesa nel mondo contemporaneo” e non una
Chiesa “di fronte” al mondo contemporaneo… La “conversione” spirituale
soggettiva deve anche coraggiosamente diventare “riforma strutturale”,
perché il Vangelo sia comunicato dalla Chiesa in maniera coerente sia
dalle sue parole sia dalla figura che essa si dà nella storia.
Ciò
che fa ostacolo al Vangelo nella gente, credenti compresi, non è la
fragilità delle singole persone, dei preti o dei vescovi o dei
cristiani. L’ostacolo più grosso viene dalle strutture ecclesiali, dai
suoi funzionamenti interni. Vale la pena ricordare qui una affermazione
chiave dell’Enciclica
Ut
unum sint
di
Giovanni Paolo II del 1995: «Nel magistero del Concilio vi è un chiaro
nesso tra rinnovamento, conversione e riforma. Esso afferma: “La Chiesa
peregrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma di cui essa
stessa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno…”» (n.
9). Il nesso rinnovamento-conversione-riforma risulta determinante
perché la Chiesa sia “sacramento”, cioè segno e strumento. Nel nostro
caso, il
rinnovamento
dell’evangelizzazione (“nuova”) richiede innanzitutto la
conversione
dei
singoli credenti (auto evangelizzazione) e prende corpo come
riforma
della figura di Chiesa, affinché tutto in essa parli del Vangelo,
affinché le parole siano visibili nella forma di vita e il modo di
vivere sia esplicitato nelle parole. Non è altro che la conseguenza per
la Chiesa dello stesso stile di Dio: «Eventi e parole intimamente
connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della
salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate
dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il
mistero in esse contenuto» (Dei
Verbum,
2).
Gli
osservatori più attenti hanno interpretato il senso delle dimissioni di
Benedetto XVI proprio come un invito forte per la Chiesa ad
intraprendere non solo il cammino della conversione personale, ma anche
della riforma delle proprie strutture.
Evangelizzazione nuova
nel segno della reciprocità
Nel
Sinodo è emerso un terzo senso della novità dell’evangelizzazione in
quanto nuova. Potremmo inconsapevolmente pensare che noi abbiamo il
Vangelo e il problema sia quello di farlo passare agli altri. Si pone
qui la delicata questione del rapporto con le culture: lo sguardo che la
Chiesa porta sulla cultura e il processo d’inculturazione che mette in
atto. Una delle evoluzioni avvenute all’interno del Sinodo è stata
questa: il passaggio da una Chiesa che sta alla finestra della storia,
la giudica e ne stabilisce la terapia, a una Chiesa che sta dentro la
storia come compagna di viaggio, pronta a mettere a disposizione il dono
del Vangelo, ma altrettanto pronta a ricevere una parola di Vangelo che
il Signore riserva per lei nelle donne e negli uomini di oggi, credenti
o meno.
Questo senso della reciprocità è basato sulla convinzione che Dio agisce
attraverso la Chiesa come via canonica, ma non lascia circoscrivere il
suo amore nei confini della Chiesa stessa. In modo misterioso, ma
potente lo Spirito è stato effuso in tutti i cuori. È il ricupero della
prospettiva di
Gaudium et Spes:
la Chiesa ha tanto da dare ma anche da ricevere. Onorare questa
prospettiva significa comprendere da parte della Chiesa quanto la
cultura sia non solo oggetto di evangelizzazione, ma contenga in se
stessa, grazie all’azione dello Spirito che la precede, una parola di
Vangelo per lei.
Avviene un reale dialogo, nel quale la Chiesa si appoggia alla cultura,
ad alcuni suoi elementi e grazie a questi rivede se stessa e ricomprende
il Vangelo in modo diverso e quindi impara a viverlo in modo differente,
a pensarlo e a proporlo in maniera inedita. Il Vangelo di sempre, ma
veramente “nuovo”. Infatti solo se la fede si appoggia su alcuni
elementi della propria cultura può ripensarsi, riformularsi, rendersi
plausibile e ragionevole, culturalmente vivibile. Appoggiandosi così
alla cultura per rendere ragione di se stessa, la fede “salva” la
cultura (la integra nel dinamismo della salvezza) e si situa essa stessa
come possibile e desiderabile nel proprio contesto.
Questa concezione nel rapporto con la cultura è stata recepita nel
Messaggio:
«Questo sereno coraggio sostiene anche il nostro sguardo sul mondo
contemporaneo. Non ci sentiamo intimoriti dalle condizioni dei tempi che
viviamo. Il nostro è un mondo colmo di contraddizioni e di sfide, ma
resta creazione di Dio, ferita sì dal male, ma pur sempre il mondo che
Dio ama, terreno suo, in cui può essere rinnovata la semina della Parola
perché torni a fare frutto. Non c’è spazio per il pessimismo nelle menti
e nei cuori di coloro che sanno che il loro Signore ha vinto la morte e
che il suo Spirito opera con potenza nella storia» (Messaggio,
6).
Queste tre conversioni di mentalità (ritorno al Vangelo, riforma della
Chiesa, dialogo con la cultura in un atteggiamento di reciprocità)
possono rendere veramente nuova l’evangelizzazione. Esse sono più
preziose di un ricettario dell’agire pastorale. La domanda seria: Che
cosa dobbiamo fare per evangelizzare? scava qui nel profondo la sua
risposta: chi vogliamo essere?
L’evangelizzazione è nuova nella misura in cui parte da un rinnovato
ascolto del Vangelo (conversione), riformula il volto della Chiesa in
modo che diventi icona del Vangelo (riforma), porta a stare volentieri e
in modo dialogale dentro la nostra storia e la nostra cultura
(inculturazione).
La
vita religiosa come “luogo” di evangelizzazione nuova
Operate queste tre spiegazioni diventa più chiaro che è primario
nell’evangelizzazione non tanto le parole esplicite annunciate, ma la
testimonianza personale e comunitaria messa in atto. Questa è la domanda
decisiva: non cosa fare di nuovo, ma come essere in se stessi luoghi e
spazi di Vangelo. Possiamo allora introdurre la nozione di vita
religiosa come “luogo” di evangelizzazione. A questo proposito ci viene
una indicazione preziosa (una vera sorpresa) già dal
Messaggio
del
Sinodo, al numero 7.
Il
testo, dopo i primi 6 numeri di introduzione, fa entrare in maniera
sorprendente in scena, ponendoli a specchio, i due “luoghi” (così sono
definiti) in cui il Vangelo si manifesta, prende corpo, si dona: la vita
nella famiglia e la vita consacrata. La vita familiare è definita come
il luogo in cui il Vangelo entra nella quotidianità e mostra la sua
capacità di trasfigurarne il vissuto nell’orizzonte dell’amore. Questo
avviene certo, dice il testo, attraverso gesti tipicamente cristiani
(segni della fede, prime verità, preghiera), ma soprattutto attraverso
l’esperienza dell’amore dato e ricevuto. Se la vita familiare è il
“luogo primo” di esperienza ordinaria del Vangelo, il secondo è quel
luogo complementare che mostra in anticipo il compimento del cammino
della vita e “relativizza” (rende relative alla comunione finale con
Dio) tutte le esperienze umane, anche quelle più riuscite (“segno di un
mondo futuro che relativizza ogni bene di questo mondo”, dice il testo).
È
importante che famiglia e vita consacrata siano definiti “luoghi” e non
come agenti, cioè spazi di esperienza: fanno
sperimentare
il
Vangelo come esperienza e come promessa. Prima di essere luoghi in cui
se ne parla, sono luoghi in cui si vive la grazia del Vangelo con due
sottolineature complementari e inscindibili. Verrebbe da dire che solo
due cose sono necessarie per scoprire il Vangelo: venire al mondo dentro
una famiglia che lo vive; avere il dono della testimonianza di quelle
altre persone e famiglie che ne segnalano il compimento, non fuori i
limiti della storia, ma all’interno di essi.
In
questa feconda prospettiva proviamo ora a precisare in quale senso la
vita religiosa possa essere luogo di evangelizzazione nuova. Indico tre
tratti che ci possono specificare, per essere “luoghi” di
evangelizzazione.
Custodire un’assenza
Diventiamo “luogo” quando assicuriamo per noi e a favore di tutti lo
spazio della cura di Dio. Custodiamo un’assenza, perché impediamo che
tutto il tempo sia pieno di cose, di attività, di parole. Proteggiamo lo
spazio vuoto, incavo, dell’attesa. Nelle comunità religiose è sempre
avvento, attesa di colui che continuamente ci viene incontro. L’immagine
delle lampade accese è adeguata. Siamo luoghi di Vangelo, per noi e per
tutti, quando siamo donne e uomini di desiderio. Il termine desiderio,
secondo Galimberti, viene dal
De
bello gallico.
I
desiderantes
erano i soldati che stavano sotto le stelle ad aspettare quelli che,
dopo aver combattuto durante il giorno, non erano ancora tornati. La
radice è
sidera,
stelle. Da qui il significato
del
verbo desiderare: stare sotto le stelle ed attendere. Il desiderio è
l’attesa di un incontro, di un ricongiungimento, di una relazione.
L’espressione “primato di Dio” è da noi la più utilizzata, ma forse
inadeguata, come l’altra della radicalità. Ogni forma di vita cristiana
ha nel suo centro il primato di Dio. Ci possiamo congedare da ogni
schema tra ministeri e carismi nell’ordine del “più” e del “meno”, del
minimo indispensabile e del radicale. Il peggior servizio che possiamo
fare alla vita religiosa è di collocarla nella linea del “più”: “più da
vicino, più radicalmente…”. Abbiamo bisogno, a questo proposito, di una
nuova teologia della vita religiosa. Il nostro specifico è di vivere la
vita cristiana come tutti i discepoli del Signore, evidenziandone una
dimensione: quella relativa al desiderio, all’attesa, alla cura
dell’interiorità, alla contemplazione.
La
vita religiosa offre la novità del Vangelo quando protegge la vita
dall’intasamento delle cose e delle abitudini e la tiene aperta al dono
che sempre le viene incontro e che solo la rende vita piena. Ecco perché
è essenziale che i nostri ritmi di vita, gli ambienti delle nostre
comunità, tutte le nostre attività diventino spazi di custodia di una
assenza.
Segnare una differenza
Questa seconda dimensione riguarda la possibilità di sperimentare e di
far sperimentare nella vita religiosa la differenza cristiana, come dice
Enzo Bianchi.1 Riguarda uno stile di vita sobrio, che si basa
sull’essenziale, che si protegge dal superfluo, che vive nella povertà
evangelica. È una conseguenza del punto precedente. Si sta in attesa e
si manifesta durante l’attesa che solo Dio riempie la nostra vita, lui
solo è all’altezza del nostro desiderio. Anche il celibato per il Regno
e l’obbedienza mostrano la differenza cristiana. Questo è un segno
quanto mai eloquente in un mondo che torna a cercare ciò che è
essenziale. Va nella linea di quella “ecologia della persona” di cui ha
parlato il Papa Benedetto XVI.2 Non possono essere le cose a
dare senso alla nostra vita.
Mostrare una promessa
Il
terzo tratto riguarda la fraternità. Noi diventiamo luogo di
evangelizzazione nuova se mostriamo che sappiamo vivere insieme, cioè se
già da ora mostriamo quello che sarà il mondo nel sogno di Dio, un mondo
di figli e fratelli. In questo senso la vita di fraternità è custodia di
una promessa. La fraternità reale che stabiliamo senza sceglierci è
luogo per vivere di una promessa e quindi diviene speranza per tutti. Il
convivere nella vita religiosa non è per scelta, ma per chiamata.
Veniamo da storie diverse, da formazioni e sensibilità diverse, abbiamo
caratteri diversi, siamo tutti segnati da limiti, difetti, piccole
manie. Siamo semplicemente umani. La composizione ormai internazionale
delle nostre comunità
aumenta la posta in gioco. La perfezione delle relazioni non sarà mai
raggiunta nelle nostre comunità, ma questa è la ferita del segno, il
luogo pasquale della testimonianza. Siamo chiamati non a testimoniare
l’armonia del paradiso terrestre prima del peccato originale, ma la
convivenza dentro i limiti, le differenze, le fragilità, le povertà
individuali e collettive. Le nostre comunità, sempre più multietniche,
sono un formidabile laboratorio di questa fraternità della differenza.
Non siamo chiamati a mostrare comunità ideali, ma comunità umane, luoghi
di accoglienza e rielaborazione dei limiti. È così che si è profeti
nella storia.
La
nuova evangelizzazione come stile
Ma
c’è un altro punto che mi pare importante: quello dello stile con il
quale si evangelizza, perché conta il modo e non solo il contenuto.
Potremmo dire che non basta evangelizzare, ma bisogna evangelizzare in
modo evangelico. La fede cristiana ha un suo stile dal quale non deve
abdicare neppure per essere più efficace. Questo appello è venuto in
modo esplicito da alcuni Padri. Lo stile è una questione di spiritualità
e abbiamo più che mai bisogno in questo momento di una spiritualità
dell’evangelizzazione. Segnalo tre tratti dello stile che vanno
salvaguardati nel compito dell’evangelizzazione.3
Vedere Dio in tutte le cose
L’espressione è di sant’Ignazio di Loyola. Vedere Dio in tutte le cose
significa vedere che egli agisce in tutti i cuori. I cristiani hanno
occhi per vedere dove Dio agisce al di là di tutti i circuiti
ecclesiali. Il tema del Sinodo (“nuova evangelizzazione per la
trasmissione della fede”) è stato a buon diritto considerato inadeguato
da alcuni Padri sinodali. Noi non trasmettiamo la fede, hanno detto.
Solo il Signore Gesù la comunica e il suo Spirito è l’unico
evangelizzatore competente. Noi ci mettiamo a disposizione di un
processo che non ci appartiene, sul quale non abbiamo il controllo.
L’icona biblica di Filippo e l’eunuco, evocata nel Sinodo, è quanto mai
istruttiva. Quando Filippo sale sul carro scopre che è già stato
preceduto dallo stesso Spirito che lo ha mandato e che egli, Filippo,
incontra nell’inquietudine di quell’uomo e nel testo della Scrittura dal
quale l’eunuco è stato attirato. Lo Spirito ha una falcata (un passo) di
vantaggio sulla Chiesa, come gli Atti degli Apostoli in modo
inequivocabile documentano. È sempre più in là. È bello dunque
interpretare l’evangelizzazione come una azione di riconoscimento, di
rivelazione e di svelamento.
L’evangelizzatore “riconosce” Dio già presente. Il destinatario
dell’annuncio si scopre abitato e custodito da una Presenza
(“svelamento”), grazie alla testimonianza dell’evangelizzatore e al dono
delle Scritture (“rivelazione”). In questo gioco di
riconoscimento-rivelazione-svelamento avviene il miracolo di una
evangelizzazione vicendevole. In fondo si tratta di far scoprire che il
dono di Dio è già nel cuore di queste persone, in modo che possano, come
Giacobbe, svegliarsi dal sonno e dire: «Il Signore era qui e io non lo
sapevo!» (Gen 28,16).
Solo l’amare basta
La
parola decisiva del Vangelo, la più convincente, è la carità. È anche
l’obiettivo ultimo della Chiesa: inserirsi nella corrente dell’amore di
Dio per l’umanità. Il terreno dell’amore è la parola ultima del Vangelo.
Vale la pena richiamare un testo di madre Teresa di Calcutta: «Il nostro
proposito è di portare Gesù e il suo amore ai più poveri tra i poveri,
indipendentemente dalla loro estrazione morale o dalla fede che
professano. Il nostro metro per soccorrerli non è la loro fede, ma il
loro bisogno. Noi non tentiamo mai di convertire al cristianesimo quelli
che aiutiamo, ma nella nostra azione portiamo testimonianza della
presenza d’amore di Dio, e se per questo, cattolici, protestanti,
buddisti o agnostici diventano uomini migliori - semplicemente migliori
– siamo soddisfatti. Crescendo nell’amore saranno più vicini a Dio e lo
troveranno nella sua bontà... Alcuni lo chiamano Ishwar, altri lo
chiamano Allah, altri semplicemente Dio, ma tutti dobbiamo renderci
conto che è lui che ci ha fatti per cose più grandi: per amare e per
essere amati. Ciò che conta è amare».
Ci
troviamo qui nel campo della profezia. Siamo un passo più avanti del
compito di evangelizzazione, o meglio, siamo nell’esito finale
dell’evangelizzazione. Siamo già profeticamente nel futuro di Dio, dove
tutte le religioni avranno terminato il loro compito e con esse anche la
Chiesa. La fede infatti passa, e anche la speranza. Solo la carità
rimane. In genere pensiamo che la carità sia il passo preliminare per
preparare il terreno dell’annuncio, sia una specie di
preevangelizzazione. Essa è anche e soprattutto l’obiettivo ultimo
dell’evangelizzazione, il suo esito finale. La carità basta, perché la
carità è Dio.
Il
più grande atto di amore
Perché allora annunciare il Vangelo? Proprio perché è il più grande atto
di amore che possiamo fare. È nota l’affermazione di Paolo VI nell’Evangelii
Nuntiandi,
richiamata dall’Instrumentum
Laboris:
«Non sarà inutile che ciascun cristiano e ciascun evangelizzatore
approfondisca nella preghiera questo pensiero: gli uomini potranno
salvarsi anche per altri sentieri, grazie alla misericordia di Dio,
benché noi non annunziamo loro il Vangelo; ma potremo noi salvarci se,
per negligenza, per paura, per vergogna - ciò che san Paolo chiamava
“arrossire del Vangelo” - o in conseguenza di idee false, trascuriamo di
annunziarlo?» (n. 80).
Una
buona interpretazione di questo testo è la seguente: Dio può salvare e
salva al di là del nostro annuncio; ma se noi non annunciamo, potremo
essere salvi? Non nel senso che non evangelizzando manchiamo a un
dovere, ma nel senso che il nostro non evangelizzare manifesta che per
noi il Signore Gesù non è il bene più prezioso. E allora è legittima la
domanda sulla nostra salvezza. L’amore è dare agli altri la cosa più
preziosa. È un’altra prospettiva dell’evangelizzazione, davvero nuova:
né per necessità (Dio è generoso, sa come salvare tutti), né per dovere,
ma per eccesso di gioia e di gratitudine per quello che siamo diventati
per grazia. Ciò che motiva l’evangelizzazione e la rende nuova, in fin
dei conti, è il suo scaturire non dalla necessità di salvare, né dal
dovere di farlo, ma da un’intrinseca “necessità”: la gioia di donare
quanto abbiamo di più prezioso.
La
vita religiosa si è sempre posta su questo crinale, dell’annuncio
implicito e inequivocabile dell’amore che basta a se stesso;
dell’annuncio esplicito come atto massimo di carità, come condivisione
di ciò che abbiamo di più prezioso, perché la nostra gioia sia piena
(1Gv 1,1-4). La carità come Parola a tutti comprensibile; la Parola come
massimo della carità. Lo ricordava la
Novo
millennio ineunte:
«La carità delle opere assicura una forza inequivocabile alla carità
delle parole» (n. 50).
Nel
Sinodo sono risuonate spesso due parole: umiltà e carità. Alcuni
vescovi, in particolare quelli di area orientale o che si trovano a
guidare delle Chiese in forte minoranza, hanno invitato a essere una
Chiesa più umile. L’umiltà ha due facce: quella della consapevolezza dei
propri limiti; quella che nasce dalla convinzione che non siamo
proprietari del Vangelo, ma solo servi, e che l’unico che apre i cuori è
lo Spirito Santo. La carità è l’amore per l’uomo, la passione e la
compassione per tutte le persone. Umiltà e carità mi sembrano proprio le
due coordinate della nuova evangelizzazione.
1. E. BIANCHI,
La
differenza cristiana,
Einaudi, Torino 2006.
2. «Accanto all'ecologia della natura c'è dunque
un'ecologia che potremmo dire “umana”, la quale a sua volta richiede
un”‘ecologia sociale”» (BENEDETTO XVI,
La
persona umana, cuore della pace,
Messaggio per la celebrazione della XL giornata mondiale della pace,
2007).
3. Questi tre tratti sono debitori della stimolante
riflessione del catecheta gesuita belga André Fossion, che ha riflettuto
a più riprese sulla ricerca di una spiritualità dell’evangelizzazione.
Particolarmente stimolante è stata una sua recente conferenza tenuta
alla Facoltà teologica di Milano dal titolo
Annonce et
pro position de la foi aujourd’hui.
Enjeux et défis.
Seguo
fondamentalmente le sue intuizioni.
fratel Enzo Biemmi fsf
Teologo
Via
Fontana di sopra, 3
37129 Verona
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